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Giornate:
11/04/2010 - “Passeggiando per Belgrado, la domenica mattina”
Ceniamo in un ristorante tenuto dal marito di una collega di Alberto. Molto buono e abbondante! La stanchezza ha di nuovo il sopravvento e torniamo a casa. Domani devo partire, ma non so dove andare. Se piove, come sembra, proverò a tirar giù fino a Mostar, senza fermarmi nelle zone di montagna come avrei voluto. Invece, a Mostar almeno potrò fermarmi e visitare qualcosa, invece di vagare tra i monti sotto l’acqua. Però, di nuovo, mi irrita molto dover cambiare programma in continuazione, rinunciando all’idea, seppur vaga, ma definita, che avevo quando son partito da Roma. Finisco di chiudere i bagagli intorno all’1, poi vado a dormire. 12/04/2010 - “Il meraviglioso ponte sulla Drina”
Verso il confine con la Bosnia le strade sono molto belle: dolci colline verdissime, torrenti, alberi fioriti di bianco che punteggiano le colline. Guido col sorriso stampato sulle labbra! Da queste parti si trova Küstendorf, il villaggio costruito dal regista Emir Kusturica. Dovrei cercarlo, ma il tempo è pessimo e fa molto freddo. L’idea di passare uno o due giorni in queste condizioni non mi attira e proseguo. In pochi km arrivo al posto di frontiera. Non c’è nessuno, nulla si muove. Applico il trucco che ho imparato ormai da tempo: quando non si vede nessuno o non capisco se posso proseguire o se manca ancora qualcosa o se devo parlare con qualcuno, prendo e inizio lentamente ad andare. Sicuro al 100%, si svegliano e dicono cosa devo fare, nei modi più disparati. Stavolta non fa eccezione. Arrivo alla frontiera, un restringimento della strada già piccola. Una sbarra di metallo bianca e rossa, alzata. Una bassa e lunga abitazione porticata sulla destra. Tutto intorno, boschi e colline. Nessuno in vista. Le sedie sotto la tettoia sono desolatamente vuote. Attendo paziente un buon minuto alla striscia, senza che nessuno si veda. Mi stufo, ingrano la marcia ed inizio lentamente a ripartire, aspettando che qualcosa accada. Puntualmente, arriva un “OOOOHH!!” ed esce correndo un signore di mezza età che mi chiede i documenti. “Allora c’era qualcuno, maledetti!”, penso tra me e me, mentre passo il passaporto e i documenti della moto. Per fortuna non fa storie per la solita questione dell’intestatario della moto, che è mio padre, non sono io. Riparto esaltato dal paesaggio collinare in cui danzo, cullato dalle curve e appagato dalla natura che mi circonda. L’idillio viene bruscamente interrotto da un posto di blocco. Il limite è di 60 km/h, andavo a 80. Inizio a contrattare: “Vengo dall’Italia, sono un turista, sto visitando il vostro meraviglioso Paese, vengo da Roma!”, inizio a declamare, temendo però che non sia una buona idea parlare in russo a un bosniaco. Fatto sta che appena sente Roma, si ammorbidisce, proseguiamo in inglese e nel giro di pochi minuti mi lascia andare.
Visegrad è un centro tranquillo, addossato in gran parte su un lato del fiume. Il ponte è maestoso, potente; incorniciato dalle montagne a chiudere la vallata scavata dalla Drina. L’acqua che scorre sotto le sue arcate è di un azzurro blu verde strano, ma affascinante. Sono emozionato, avendo appena letto l’epopea vissuta per la sua costruzione, le avventure, le ingiustizie, le sofferenze, il tutto narrato magistralmente da Andric. E anche il concetto di ponte è meraviglioso, l’unione di due entità, la materializzazione di un volo da una riva all’altra, ma più solido di un battito d’ali. Solido e fragile al tempo stesso. Protagonista, proprio perchè simbolico, di molti modi di dire: “bruciarsi i ponte alle spalle”, “ponti d’oro al nemico che fugge”, “tagliare i ponti” con qualcuno o qualcosa, “gettare un ponte” come gesto di disponibilità. Passeggiare su un elemento così simbolico che ha attraversato i secoli è emozionante, osservo i parapetti e rivivo i salotti serali descritti da Andric, le chiacchiere tra amici, i pettegolezzi tra vicini, i complotti contro i nemici. A malincuore devo ripartire, direzione: Mostar!
Man mano che salgo di quota, la neve aumenta. La strada, quando c’è, è strettissima, a volte poco più di un sentiero in mezzo ai boschi. La neve compare prima ai lati della strada, poi sempre più dominante. Alla fine la neve è anche in mezzo alla strada. Le rare macchine proseguono senza curarsi tanto di me, che procedo lentamente, sempre più preoccupato per i km che ancora mancano a Mostar, oltre 120! Come faccio spesso quando sono in difficoltà, mi accodo ad un’auto che procede più svelta di me, ma ad una andatura che riesco a sostenere. Mi aiuta molto, psicologicamente, riesco a vedere prima i punti di difficoltà e anche l’idea che posso suonare in caso di difficoltà, mi dà più sicurezza.
La strada che da Gacko porta a Mostar è spettacolare, ma purtroppo, tanto per cambiare, piove. Mi sbrigo anche perchè sta tramontando. Scendo su Mostar a volo d’aquila. Mi fermo a lato della strada per riposarmi un attimo e ammirare il paesaggio, in particolare un castello che domina Mostar dall’alto. Il tempo di abbassare gli occhi per leggere la cartina e rialzarli e mi trovo magicamente e misteriosamente immerso in una fitta nebbia! Entro in città ed inizio a cercare un posto dove dormire. Chiedo in un paio di posti, poi opto per Oscar: 15 euro la stanza, 5 la colazione. Mi butto sotto la doccia rovente, sono esausto. Ho guidato, spesso in condizioni al limite, dalle 9 alle 19. Ceno con gusto da Sadrvan, alle spalle del ponte. Mangio in abbondanza per meno di dieci euro! Mostar sembra un gioiellino, non vedo l’ora di visitarla con calma domani. Crollo a dormire presto. 13/04/2010 - “Mostar la martire”
Mi metto a lavorare nel cortile del B&B e con gli attrezzi della moto, allento la ruota e tiro la catena. Speriamo sia sufficiente! Finisco alle 11:30, incuriosito incredibilmente da questa cittadina dal nome indissolubilmente legato al suo ponte. Mostar è splendida: viuzze acciottolate, il piccolo centro storico come un gioiello. Dato il periodo e il tempo, praticamente non ci sono turisti, una decina scarsa. L’artigianato è sviluppato, molti producono pezzi unici e particolari in vetro, terracotta, ceramica, legno, rame e mille altri materiali e poi quadri, incisioni, acqueforti in un florilegio di forme e colori. Per 40 € compro un piccolo vaso di vetro con decorazioni colorate, sempre in vetro, che riproducono il ponte, poi due tazze dipinte a mano, sempre con motivi tipici di Mostar e, alla fine, mi regala anche un piccolo bicchiere a tulipano, come quelli turchi, sempre dipinto a mano. Passeggio a lungo per il centro storico, ancora trafitto da migliaia e migliaia di colpi. Ovunque si vedono le ferite della guerra. In alcuni punti le rovine sono così evidenti, che sembra quasi non sia ancora finita. Colpi di mortaio, proiettili, lamiere contorte, finestre e tetti divelti, crollati, menomati. Interi palazzi scrostati un pezzetto alla volta a furia di proiettili, un perverso gioco di distruzione, una goccia cinese, ma di piombo e fiamme. Il contrasto diventa ancora più sfacciato, quasi grottesco, fuori dal centro storico, dove si vedono, uno a fianco all’altro, palazzi restaurati, attaccati al gemello ancora in rovina. Un “prima e dopo la cura” a grandezza naturale. In alcuni casi, vecchio e nuovo si compenetrano: un piano restaurato e l’altro lasciato originale, una finestra sì e quella a fianco no. Ricomincia a piovere e cammino per km sotto l’acqua. Il vortice di malinconia e sbigottimento aumenta, l’atmosfera è quella giusta per aggirarsi in mezzo alla materializzazione della follia e della crudeltà dell’uomo. Seguo la cosiddetta “linea del fronte” e anche questo fa impressione. Perchè il “fronte” uno se l’immagina sempre lontano, in mezzo ai campi, nel fango di trincee sperdute. Invece qui il fronte è in pieno centro: un marciapiede è il fronte bosniaco, l’altro marciapiede, 3 metri più in là, è il fronte serbo. I combattenti al fronte si toccano la faccia con la canna del fucile, se solo si allungano un po’. Il massacro sotto casa, lo sterminio del vicino. Torno verso il ponte e mi fermo ad osservarlo, sotto la pioggia. La sua distruzione è stato uno sfregio profondo e gravissimo, più di quanto si possa immaginare. Non è solo l’uccidere il prossimo in guerra, che è - nonostante la follia - previsto e prevedibile. É colpire più a fondo, l’animo di un popolo, i suoi simboli, la cultura, la tradizione, la storia, un colpo inferto a tutta la discendenza, partendo da chi quel ponte l’ha costruito secoli prima. Piove a dirotto, mi inzuppo, ma non posso tornare in albergo, la curiosità verso questo luogo così particolare, così estremo, è trascinante. Arrivo al ginnasio: il vecchio, distrutto e sventrato, e il nuovo, costruito a pochi metri, colorato e vivo di ragazzi. Non appena salgo di qualche metro sulla collina alle spalle del centro ed osservo la città poco più in basso, diventa evidente l’assurda e grottesca gara in altezza di campanili da una parte e minareti dall’altra, ognuno che cerca di superare l’altro. Che follia! Ancora non gli basta? Purtroppo è sempre stato e sempre sarà come le alluvioni descritte da Andric: ciclicamente arriva quella distruttiva, immane, che porta via beni e persone, che azzera il contributo di una e più generazioni e poi resta nella memoria, per parlarne finchè non arriva quella nuova, a spazzare la vecchia. “Un ciclo riempiamo gli arsenali, un ciclo riempiamo i granai. Un ciclo macellati, un ciclo macellai”, cantavano i CCCP vent’anni e più fa. Verso la fine del giro entro in una gioielleria e compro un anello per Caterina. Devo tornare in albergo ad asciugarmi, sono bagnato dalla testa ai piedi, mutande comprese. Per fortuna il condizionatore che ho in camera è potente: lo metto al massimo con i vestiti stesi sopra e in meno di un’ora sono perfettamente asciutti. Per scrupolo apro il pacchetto del vaso e delle tazze e, come temevo, ne trovo solo una! Mi rivesto e torno al negozio. Trovo il marito, non lei, l’artista e creatrice. Gli spiego la situazione, si scusa mille volte mentre mi dà la tazza mancante.
Mi siedo a leggere e scrivere al tavolino di un bar in posizione strategica verso il ponte vecchio. Alla fine sento freddo, non vorrei ammalarmi, torno in albergo a rilassarmi. Alle 21 vado a cenare allo Starij Mlin, il Vecchio Mulino. La clientela mi fa ben sperare, tutta locale, nessun turista. Il piatto che mi portano è buono e abbondante: carne grigliata, funghi con formaggio, peperoni, patate fritte, verza fresca. Poi birra e dolce, una specie di biscottone imbevuto di miele e nocciole. Il conto: 10 €. Fantastico! Passeggio ancora qualche minuto sotto l’acqua battente. Il fiume è sempre più alto. I locali sono deserti. Torno in albergo prima delle 23. Preparo i bagagli fino alle 23:40, vado a dormire poco dopo mezzanotte. 14/04/2010 - “Dubrovnik, la Venezia croata”
Mi fermo a Pocitelj, splendido paesino abbarbicato ad una montagna. Per fortuna arrivo mentre un pullamn carico di turisti sta ripartendo. Passeggio in completa solitudine, l’abitato è così solo di nome, non più di fatto. É un villaggio - museo, con pochi anziani rimasti e, ovviamente, l’immancabile chiesa a dominare l’ansa del fiume che scorre gonfio, turbolento e fangoso poco lontano. Sulla cartina vedo l’indicazione delle cascate di Kranica. Mi incuriosisco e inizio la ricerca. La direzione è quella di Medjugorje, ma, contrariamente a tante altre volte in passato, quando ho visitato Fatima, Lourdes, Czestochowa, stavolta non ho voglia di andare fino al santuario.
Molti punti sono allagati: campi e pianura. Alcune case emergono per metà, dalle finestre in su, mentre il resto è sott’acqua. La strada stessa che attraverso è quasi sommersa, questione di mezzo metro. Attraverso il lungo ponte con una certa ansia, spero che non crolli proprio adesso che passo io! Tento l’ennesimo sentiero arrampicandomi sull’altro fianco della montagna che racchiude la cascata, ma senza successo. Speravo di discendere verso la cascata, mentre invece vado sempre più lontano. Mi rassegno e torno sulla strada principale. Dopo qualche km, all’ingresso dell’abitato di Kranica, incrocio una pattuglia di polizia ferma a sorvegliare la strada. Li sorprendo fermandomi di mia sponte. “Scusate, dove si trova la cascata di Kranica?” Ridono imbarazzati del loro inglese, correggendosi a vicenda: “Più avanti, tra 5 km, alla fine del paese, sulla sinistra.” Finalmente trovo il bivio giusto. Incrocio un altro pullman, stavolta pieno di ragazzi delle superiori. Parcheggio nel piazzale e mi avvio a piedi lungo il sentiero che scende verso la cascata. Di nuovo la nuvola di acqua polverizzata, stavolta dal versante opposto rispetto a dove mi trovavo poco fa. La scena è impressionante, il boato assordante. Il fronte della cascata è innaturalmente ampio a causa delle piogge che flagellano il Paese da giorni. L’acqua scorre ovunque, tutto fa parte della cascata, i flutti fangosi attraversano violentemente il bosco e fluiscono in mille getti e rivoli che volano da decina di metri verso il basso. Torno alla moto e riparto verso la Croazia. Percorro la bella vallata del Neretva. Pochi km prima del confine mi fermo per riposarmi qualche minuto. Proprio in quel momento arriva una telefonata dalla mia azienda, è il mio responsabile: “Fabio, ho una buona notizia!” “Cioè?” “Quando torni c’è un progetto pronto per te ... a Roma!” Sono partito da Roma per queste ferie non programmate e improvvisate, dopo aver finito da un giorno all’altro un progetto durato un anno e mezzo a Napoli. Cinque giorni a settimana in albergo, a Napoli, e il week-end a casa, a Roma. Per un anno e mezzo. Il 31 marzo, pochi giorni fa, arriva la notizia che a Napoli è finita, posso tornare: “Sì, ma ... devi ripartire!” “Per dove?!” “Verona!” A quel punto la mia reazione è stata di deciso rifiuto in nome dello sforzo fatto fino a quel momento ed è partita la contro-proposta: “Ok, hai ragione: vai pure in ferie, poi quando torni vediamo il da farsi!” Ed eccomi qui, a girare nei Balcani per dieci giorni imprevisti e non programmati. “Perfetto, ottima notizia!”, gli rispondo alla notizia del progetto romano, “ci sentiamo quando torno, ora sono in Croazia!” “Ok, buone ferie!” Attraverso rapidamente la frontiera con la Croazia per arrivare sulla strada costiera, molto bella. I confini dei Paesi nati dallo scioglimento della Jugoslavia mi hanno sempre incuriosito: sono tortuosi, imprevedibili, scostanti: si intrecciano e incrociano in mille forme, le più sottili: questa roccia sì, quella pozza no. Anche la costa non fa eccezione: per la grandissima parte croata, una vera miniera d’oro grazie ai turisti di mezza Europa che vengono qui a cercare il bel mare, si interrompe per la brevissima parentesi bosniaca. Attraverso quindi di nuovo una frontiera croato-bosniaca, per riattraversare la bosniaco-croata nel giro di pochissimi km. La Bosnia, avendo a disposizione una decina di km di costa, ha costruito il più possibile, attrezzando un porto e dando sfogo alle solite (e redditizie) speculazioni edilizie.
Scendo a precipizio dall’alta strada costiera verso il centro storico. Non voglio spendere tanto per dormire, seguo le insegne di Zimmer / Rooms / Camere. Chiedo informazioni a una signora: “Mi scusi, conosce un affitta camere economico? Lei ha una stanza da affittare?” Ci pensa un attimo, poi risponde: “Io no, ma una mia amica le affitta. Vai là”, mi spiega in perfetto italiano, indicandomi una strada poco lontano, “fino alla casa gialla e suona il campanello. Se non rispondono, chiama “Anna” a voce, non preoccuparti!” Arrivo alla casa indicatami, suono, ovviamente non risponde nessuno, naturalmente mi metto a gridare: “ANNAAAAA!!” Al terzo grido, si affaccia Anna. “Salve, una signora mi ha detto che lei ha una stanza da affittare!” Anna mi fa entrare, portandomi al primo piano. Apre la stanza, grandissima, praticamente un mini-appartamento. Contrattiamo il prezzo, ci accordiamo per 30 euro. “Ok, va bene! Per caso conosci un meccanico? Devo far controllare una cosa sulla moto.” “Chiamo mio marito, lui lo conosce sicuramente!” Il marito non parla italiano, ma con l’aiuto di Anna ci capiamo. Inizia a spiegarmi la strada, poi si scoraggia: “Vieni, seguimi, ti ci porto io!”, esclama saltando in sella ad uno scooter. Andiamo poco lontano, fuori dal centro, ma in una bella zona abbastanza elegante, aggrappata alla montagna. Mi ricorda la Liguria. É già un po’ tardi, la saracinesca dell’officina è abbassata, ma non chiusa. Sulla strada sono parcheggiati solo motorini, non mi ispira molta fiducia, ma ormai sono qui, non posso tirarmi indietro. Il marito di Anna chiama a voce alta, esce un ragazzo sui 30 anni. Parlano brevemente, il ragazzo viene da me: “Cosa c’è che non va?”, mi chiede in perfetto italiano. “La catena, fa un rumore tremendo quando cammino.” Si china a dargli un’occhiata: “Aspetta, che la sistemiamo.” Il marito di Anna capisce che sono a posto, saluta e se ne va. Tanto la strada la conosco, in un modo o nell’altro torno in centro e mi oriento.
“Ma tu corri in moto!”, esclamo alzando leggermente il telo, ma senza riconoscere la belva sottostante. “Sì, ma nulla di professionale ... mi diverto!”, spiega iniziando ad allentare la ruota posteriore di Nelik. Nel giro di cinque minuti rimette in riga la ruota, leggermente storta e tira la catena al punto giusto, ingrassandola per bene. “Ora sei a posto, ma quanti km devi fare?” “Mah ... ancora duemila”, rispondo sparando a casaccio, visto che non ho la più pallida idea di dove andrò, decidendo l’itinerario giorno per giorno. “Mmmmhh”, dice pensieroso, “dovresti farcela, ma appena arrivi in Italia, cambiala! Fino a oggi, correndo, mi si è rotta la catena due volte! Ho preso delle gran frustate sul culo!”, esclama ridendo di gusto. “Ok, promesso, la cambio! Quant’è?” Mi dice una cifra equivalente a quattro euro. Mi viene quindi da pensare che i prezzi croati in realtà siano ancora bassi; sono le altre persone a contatto con i turisti che hanno adeguato i prezzi agli standard europei! Alberghi, affitta-camere, ristoranti, negozi di souvenir e così via. Torno alla camera, chiamo Anna che mi fa parcheggiare la moto nel garage di casa.
Quando sono quasi tornato al punto di partenza, entro in un museo fotografico. Gli scatti della recente guerra la fanno da padrone. Campanili protetti da sacchi di sabbia, monumenti e palazzi circondati da palizzate di legno che, in alcune foto, hanno preso fuoco a seguito di bombardamenti ben mirati. Che scempio ... per non parlare delle migliaia e migliaia di vittime. Mi sistemo in un angolo di un porticato, al ripato dalla pioggia che ha ripreso a scendere leggera e ceno con quello che ho preso stamattina da Oscar, la pensione di Mostar. Provo a resistere, ma alle 20:30 sono già in stanza, i piedi mi fanno troppo male. Il meteo previsto è pessimo. Proverò ad andare comunque in Montenegro domani e, se il tempo dovesse diventare insostenibile, al peggio mi butterò al mare a Kotor. Ho freddo, non riesco ad addormentarmi. Esco di soppiatto dalla stanza, origlio a quella a fianco. Silenzio. Provo ad aprire, la porta cede e si spalanca nel buio. Accendo la luce, rubo una coperta, richiudo e torno in camera. Tempo 10 minuti e sento diverse voci entrare in casa. Pensavo di essere solo! Riconosco la voce di Anna, sta mostrando le stanze a quella che sembra una coppia. Entrano proprio nella stanza a fianco dove ho appena preso la coperta! Non mi azzardo a uscire. Tutto torna tranquillo, non si sente più nulla. Leggo, scrivo, scruto le cartine alla ricerca di una soluzione impossibile al maltempo. Mi addormento. 15/04/2010 - “In Montenegro, tra pioggia e neve”
Va dietro, si china sulla targa fino a pochi centimetri ed esclama, in un italiano stentato: “Roma! Pulire, altrimenti pagare!” Mi viene da ridere, mentre premurosi mi passano un fazzoletto e si assicurano che io pulisca davvero la targa. Vogliono vedermi mentre la pulisco, non si fidano! Dopo averla scrostata, li ringrazio, ci salutiamo e riprendo la marcia verso il Montenegro.
“Cosa fai?” “Prego?” “Cosa fai qui?” “Turismo!” Non risponde, si limita a sorridermi, tra l’incredulo e l’interrogativo. Verso l’interno il tempo ricomincia a peggiorare. Su consiglio del mio amico Alberto, vado ad Ostrog, dove si trova un famoso monastero. La strada per arrivarci è in cattive condizioni, ma offre dei bei panorami sempre più ampi sulle vallate intorno.
L’atmosfera, impreziosita dall’assenza e dal silenzio, è emozionante. Trascorro una mezz’ora buona in meditazione, sul significato e gli scopi che avevano i monaci che si ritirarono qui e, nonostante il loro voto di isolamento e preghiera, decisero comunque di costruire un monumento così impressionante. Verso Niksic il tempo si mette definitivamente al brutto ed inizia a piovere a dirotto. Anche qui passo a fianco di ampie zone allagate. Mi fermo in un supermercato per mettermi la cerata antipioggia. Un inserviente mi vede e mi chiede, a bruciapelo: “Italiano?” “Sì!” “Berlusconi mafioso!” Riesco a rispondere solo con un “Eeeehh ...”, allargando le braccia e chiedendomi, primo, come abbia fatto a capire, bardato come sono, che sono italiano e secondo, come gli salti in mente di dirmi, come prima cosa, questa battuta su Berlusconi mafioso. “Anche nostro presidente, mafioso!”, e scoppia a ridere! “Come mai parli italiano?”, gli chiedo. “Lavoro stagionalmente nei cantieri navali di Monfalcone!”
Praticamente entro nelle nuvole, bassissime e gravide di pioggia. La strada è pessima, strettissima e costellata di profonde buche. Salendo di quota, aumenta anche la neve, finchè non diventa una presenza costante e vicina, delimitando la strada e a volte invadendola. Sono in difficoltà, inzuppato e infreddolito, ma non posso far altro che proseguire e arrivare il prima possibile a Zabljak. Che, purtroppo, sembra non arrivare mai! Salgo, proseguo, stringo i denti, mi concentro su altro. Arrivo su un altipiano, in gran parte coperto di neve. Delle mucche si stringono per scaldarsi a vicenda e mi sembra che mi guardino con curiosità, come a chiedersi, “ma che ci fa, qui, questo qui, in moto?!” Finalmente Zabljak. Punto all’albergo indicatomi da Alberto: notte, cena e colazione, 28 euro. “Se non vuole la cena, 22 euro”, mi spiega l’uomo alla reception. “Con la cena va benissimo, grazie!”, esclamo mentre mi precipito in camera. Mi getto sotto la doccia bollente, rinasco. Stendo i vestiti ad asciugare e nel giro di un’ora, sono in giro a passeggiare tra le baite tipiche dei paesini montani. Mi butto in un internet cafè, ma esco dopo una mezz’ora, mi stufo subito di leggere le solite notizie sul pessimo meteo e, ancora peggio, le solite deprimenti notizie dall’Italia. Vado in un supermercato a vedere cosa si trova, compro una bottiglia di Merlot montenegrino, pare che il vino sia buono, da queste parti. Lo riporto in Italia, da bere in un’occasione speciale. Torno in albergo in tempo per la cena. Come mi aspettavo, sono l’unico avventore e cliente dell’albergo e del ristorante. La cena è composta di zuppa di funghi, insalata, karadjorje (una specie di cordon bleu ancora più ricco) con patate fritte, dolcetto. Per 6 euro, niente male. Rimetto brevemente a posto i bagagli, poi crollo a letto alle 23:30. |
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