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Prima di tutto riporto il chilometraggio di Nelik!
Giornate: 07/04/2010 - “Si parte!”
Mi accorgo con dolore che Caterina non c’è quando stendo il materassino tra le poltrone. Sono da solo. La nave è mezza vuota e la metà che c’è, è composta di persone di mezza età in viaggio, forse un pellegrinaggio. Mentre leggo con calma il programma che ho scritto per il viaggio, mi accorgo che secondo l’ultima versione arriverei a Belgrado di domenica sera! Non posso, altrimenti non vedrei il mio amico Alberto e non avrebbe senso! Rivoluziono per l’ennesima volta le tappe: salta la sosta a Sarajevo. Come per Mostar, vorrà dire che ci andrò un’altra volta. Oppure ci passo, ma non mi fermo un giorno come avevo previsto. Ricompongo il bagaglio che sono riuscito a spargere su sei (!) poltrone e inizio il libro di Ivo Andric, “Il ponte sulla Drina”, in attesa che arrivi il sonno. Esco sul ponte. La costa brilla in lontananza, il cielo è stellato. Un sorriso affiora spontaneo: sono in viaggio!!! Notte alle 23:30. 08/04/2010 - “Montagne e castelli di Bosnia”
Mi fermo per fare pipì a lato della strada. Mentre affondo i piedi nel prato a lato della strada per raggiungere un cespuglio e nascondermi alla vista dei (rarissimi) passanti, mi torna in mente quanto letto prima di partire. La Bosnia è il Paese europeo con il maggior numero di mine inesplose sparse sul territorio. Ci sono osservatori, associazioni, organizzazioni e distaccamenti che da anni sminano il territorio bosniaco, ma nonostante questo il triste primato rimane. Questo pensiero mi trafigge la mente, arrivando in forma di spasmo allo stomaco mentre percorro i pochi metri dal muretto che delimita la strada fino al cespuglio che ho adocchiato. “E se trovo una mina ed esplodo?”, mi chiedo continuando nelle mie grandi falcate, che si fanno improvvisamente lente e circospette. Mi rendo conto in un attimo, anche se in frazione infinitesimale rispetto a quello che immagino provi la gente del posto, delle conseguenze mentali di una situazione del genere. Non poter essere più sicuri di nulla, neanche di una passeggiata in montagna. Dover dubitare dell’abbraccio della Natura, che qui può trasformarsi in tragedia per lo zampino crudele dell’uomo. Dopo aver espletato ed essere tornato alla moto ricalcando i miei passi, mi perdo in queste riflessioni mentre guido tra le splendide montagne, sempre più alte ed innevate. Arrivo ad un nuovo confine, stavolta è interno e non ci sono blocchi, anche se, pure stavolta, pochi metri prima del cartello si intravede a lato della strada la solita roulotte sgangherata, stavolta quasi inglobata dal bosco circostante, come se la Natura volesse nascondere le vergogne dell’uomo. Come se la Natura fosse più Umana dell’uomo stesso, più misericordiosa e dignitosa. Rivolgo un pensiero anche ai poveracci mandati qui, a difendere una frontiera in mezzo al nulla, attanagliati dal clima gelido e inclemente.
“Repubblica. Serba. Di. Bosnia.”, che non è Serbia, ma non è nemmeno Bosnia o meglio, è più Bosnia che Serbia. Bosnia ma non troppo. Questi ragionamenti che ora a sangue freddo è facile trovare paradossali e assurdi, all’epoca sono costati migliaia di morti, di sfollati, di tragedie abissali. Ne è valsa la pena? Qualcuno si porrà questa domanda? Arrivo a Glamoc, piuttosto squallida. Cambio in banca: 60 € = 114,8 KM (marchi convertibili). Sulle facciate di molte case, semidistrutte e non, leggo una sigla enorme, in cirillico: SDS. La mia fantasia vola e li interpreta come segnali infami apposti da milizie senza scrupoli che segnavano in quel modo le case da perquisire oppure in realtà poteva essere un segnale di segno opposto, di protezione, del tipo: “SDS, non toccate questa casa!” In realtà è la sigla del locale partito democratico serbo, lo Srpska Demokratska Stranka, ma il modo metodico e plateale con cui sono marchiate le case mi fanno comunque sospettare una motivazione molto pratica e poco nobile, visto anche gli “esimi” membri che ne hanno fatto parte, a partire dal criminale di guerra Radovan Karadzic. La strada prosegue, tra begli altipiani e ampi paesaggi che si restringono al momento di confluire sulla statale per Jajce. La strada viene inghiottita in un’ampia gola. All’incrocio con la statale, sulla destra, uno dei torrenti che ha contribuito a scavare la roccia forma una pozza di acqua stagnante, coperta di plastica. Bottiglie di tutte le dimensioni e colori, sacchetti e molto altro.
Non ho parole, l’offesa alla Natura mi colpisce sempre anche se, ovviamente, il pensiero vola subito alla tragedia umana della guerra conclusa da pochi anni. Per quel che vedo, a livello di rifiuti e inquinamento ambientale la Bosnia non è ancora a livello dell’Albania, ma è vicina.
Ho capito che oggi, come accade spesso quando viaggio da solo, salterò il pranzo. Mi arrampico nei vicoli che portano all’antico castello le cui mura cingono buona parte del nucleo più antico della città. Passo a fianco ad un paio di ruderi. Non capisco se la loro rovina è dovuta al tempo o all’uomo. Mi fermo a riprendere fiato sotto la porta d’ingresso, chiusa, del castello. Dopo pochi secondi mi avvicina un signore. Mi chiede se voglio visitare il castello. Penso alla solita guida abusiva, invece è il bigliettaio ufficiale. Stacca un tagliando, estrae una chiave enorme che neanche nelle favole e spalanca il portone, cedendomi il passo. Purtroppo non rimane molto del castello, solo le mura che però offrono, passeggiandoci sopra, un panorama splendido sulla città e soprattutto sulle montagne circostanti. Esco, saluto il signore che sta giocando con una bambina. Scendendo incrocio una scolaresca. Mi rendo conto che non ci sono turisti, è splendido viaggiare fuori stagione! Lungo la discesa verso la moto qualche altro bello scorcio, mi rimetto in sella e riparto. Tornando sulla statale incrocio alcune vecchie moto sportive (più anziane di Nelik, intendo). La strada si immerge nuovamente nella Natura, tra gole e vallate chiuse da montagne verdi.
Attraverso la statale percorrendo un sottopassaggio completamente allagato. L’acqua mi arriva a metà piede, ma voglio vedere se gli stivali nuovi sono davvero impermeabili. Nuova arrampicata, stavolta verso il castello di Travnik. Proprio sotto le sue mura, stanno facendo un servizio fotografico. Una bellissima ragazza fasciata in un succinto abito nero passeggia al rallentatore, immortalata da un fotografo ed un cineoperatore. Inizio a scattare anch’io. Come il fotografo “ufficiale” mi vede, inizia a scattarmi a sua volta delle foto. Sorrido e smetto di scattare, ma mi invita a proseguire. Benissimo!! Concluso il momento di gloria, attraverso il ponte che conduce al castello ed entro. La bigliettaia, una ragazza giovane, sta prendendo il sole su una panchina della corte principale. Mi vede e mi corre incontro per staccarmi il biglietto. Anche qui, nessun turista.
Torno sul viale principale dove avevo parcheggiato, sfilano alcune moto di grande cilindrata. Vecchio FZ750 parcheggiato davanti la bottega di un barbiere. La gomma posteriore è completamente liscia. Da un angolo sbuca improvvisamente una donna completamente avvolta in una lunga tunica nera come la pece. Spinge una carrozzina, un bambino in pantaloncini corti e maglietta la segue attaccato alla veste. É angosciante, anche le dita sono invisibili, avvolte in lunghi guanti neri che si infilano sotto le maniche. In basso, la veste si ferma a pochi millimetri da terra. Gli occhi sono coperti da un velo, per non parlare dei capelli. Non è visibile assolutamente nulla del corpo di questa donna e mi sembra che anche la sua anima subisca la stessa sorte. Non ricordo di aver visto un abbigliamento simile nemmeno in Marocco. Il contrasto con le altre donne, vestite e “mini-vestite”, è forte. Sarà la mia cultura occidentale, ma proprio non riesco a vedere nulla di buono o di giustificabile in un approccio del genere. Proseguo ancora scosso da quest’ombra nera. Decido di abbandonare la strada principale, proseguo lungo un torrente oltre il quale intravedo un palazzo, forse una scuola o un istituto, affollato di ragazzi. Ho voglia di mischiarmi a loro, lasciarmi contagiare dalla loro spensieratezza, scherzare e farmi raccontare qualcosa delle loro vite, ma non credo riuscirei a immergermi tra loro così facilmente e poi devo proseguire. Finalmente arrivo alla moto, ho i piedi rotti dagli stivali nuovi. Sicuramente mi son venute le vesciche. Riparto, scorro tra basse colline coperte di boschi. Di tanto in tanto supero un cimitero improvvisato, una macchia bianca di croci che mi ricorda la crudeltà umana e la follia della guerra. Supero Zenica, cittadona con brutti sobborghi nati a ridosso di grandi impianti industriali. É il tramonto quando arrivo a Vranduk. I boschi intorno si tingono di rosso, mi ritrovo immerso in un paesaggio arcaico, medievale, tra case contadine sbilenche in legno e pietra e oche e pecore che si aggirano tra i vicoli. Sotto al castello, piccolo ma ben tenuto, giocano dei bambini. Chiedo a dei ragazzi se c’è un albergo o un ostello, ma non capiscono né gli inglesi “hotel”, “guesthouse”, “hostel” e simili, né il russo “gostinica”. Rinuncio e mentalmente inizio a rassegnarmi a dover tornare verso Zenica. Pochi km fa avevo superato un paio di squallidi motel, ma come direbbe il mio amico Mullah, “sempre meglio che dormir per terra!”. Sacrosanto! Come inizio a salire i gradini verso il castello, vedo una ragazza che dall’alto si precipita verso le scale. La guardo, capisco: è la custode che sta andando via. Mi guarda, capisce: è l’ultimo visitatore venuto a rompere le scatole mentre me ne stavo andando! Ci fermiamo guardandoci reciprocamente. Sorrido, lei allarga le braccia e torna indietro, aprendo la pesante porta dell’ufficio. Il biglietto viene pochi marchi, ma ho solo tagli grandi e lei non ha il resto. “Può fare il giro delle mura, è gratis!”, mi dice in un inglese stentato indicando le mura. La guardo deluso e ribatto: “Ma quale sarebbe la parte a pagamento?” e accentuo lo sguardo triste e deluso del viaggiatore stanco arrivato da lontano. “Bè ...”, mi dice avviandosi verso un portone, “... ok, entri di qua, ma faccia in fretta!”, sospira rassegnata aprendo il castello e facendomi entrare senza biglietto. Alla fine sono davvero un po’ deluso. Il castello è sì molto bello così come il paesaggio intorno, ma è minuscolo, me l’aspettavo più esteso a giudicare dall’esterno, ma evidentemente si perde tutto in mura. Pochi passi, qualche foto e sono di nuovo fuori, ringraziando la ragazza che nel frattempo era tornata a sedersi nella piccola stanza dell’ufficio dove immagino passi la gran parte delle sue giornate. Scendendo intravedo una donna. Riprovo con le mie versioni di albergo, ma anche lei non capisce nessuno dei termini che snocciolo. Alla fine decido di passare alla mimica. Giungo le mani come se dovessi pregare, le metto da un lato della testa e inclino il capo, come a coricarmi su un cuscino. Lei capisce ed esclama qualcosa simile a “spat’”, dormire in russo. Annuisco con decisione e sorrido. Mi fa capire che prova a chiamare un’amica che ha una stanza, ma di più non capisco nelle sue esclamazioni in bosniaco. Parla e contratta, ma alla fine il gesto è inequivocabile: niente da fare. Torno indietro. Sulla statale mi fermo e consulto lungamente la cartina per decidere se proseguire e cercare oltre, oppure tornare al motel incrociato pochi km prima. Decido per il motel. Riparto e parcheggio davanti all’ingresso dopo pochi minuti. Provo a entrare, ma la porta è chiusa. Anche l’annesso ristorante è chiuso. Inizio a preoccuparmi e suono il campanello. Attendo diversi secondi, naso per aria a vedere se dal primo piano esce qualcuno. Finalmente apre un ragazzo dall’aria sorpresa. Scende di corsa e mi accoglie con un sorriso. “Avete una camera singola?” “Sì!” è la risposta quasi scontata, visto che il posto è deserto. “Quanto viene?” Ci pensa qualche secondo e risponde “20 euro!” “15?” ribatto immediatamente, pronto ad andarmene. “Ok!”, risponde di nuovo con un sorriso. “Con colazione!” esclamo con un tono più da affermazione che da domanda. “Sì”, risponde un po’ titubante. Forse avrei potuto scendere ancora, ma sono stanco e non vedo l’ora di sdraiarmi. Gli chiedo se la moto parcheggiata fuori va bene.
Guardo la porta che cade a pezzi. Guardo il box, fatto di mattoni a vista e senza il tetto. Guardo soprattutto il lucchetto, completamente arrugginito e con l’archetto spezzato in due, impossibile da chiudere. “Vabbè, gratis!”, gli dico ridendo della situazione. “Sì, nessun problema!” É il momento di scegliere la stanza. Entriamo nell’edificio da una porta sul retro. Nel minuscolo ingresso prende un paio di chiavi e iniziamo a salire le scale. La squallida moquette che decora le scale finisce al primo piano. Saliamo ancora e le scale ormai spoglie diventano ancora più squallide. I gradini irregolari, i soffitti che si abbassano e altri dettagli mi fanno pensare che il secondo piano sia nato in seguito, abusivamente. Nell’aria, un forte odore di chiuso. Apre la stanza, dal soffitto basso e satura di odore di chiuso, arricchito di naftalina. I letti sono i classici letti socialisti che ho trovato ovunque in Russia e nell’Est, ossia corti letti di legno dove non entro nemmeno io, sbattendo i piedi sulla testata inferiore, ancora mi chiedo loro, che sono mediamente più alti di me, come facciano a dormirci incastrati. Accetto. Sembra contento della mia decisione. “Serve il documento?”, gli chiedo mentre già sta scappando giù dalle scale. “Oh no, non serve”, mi risponde allegro. Mi rendo conto che le finestre danno sulla trafficata e rumorosa statale. Scendo e lo trovo nel ristorante, che nel frattempo ha aperto. Gli chiedo di cambiare a causa del rumore. Un altro ragazzo, forse il fratello, capisce al volo e mi dice di seguirlo. Torniamo dentro. Prende altre chiavi e stavolta ci fermiamo al primo piano. Seguiamo tutto il corridoio e mi mostra l’ultima stanza.
Che posto incredibile! Accetto chiudendo la porta e perdendomi subito in fantasie di quali persone e avventure possano essere accadute tra queste mura. Mi spoglio e mi butto sotto la doccia, nel bagno in comune. Mi cuocio diversi minuti sotto il getto di acqua bollente, mi asciugo rapidamente ed esco a fare due passi. Poche case sparse, uno spaccio pieno zeppo di tutto, bambini e ragazzi che giocano a pallone in uno spiazzo. Un sentiero si addentra nel bosco, ormai buio. Una fontanella di acqua freschissima zampilla da un lato. Mi fermo a guardare la vallata che si apre dall’altra parte, oltre la statale. Mi sento osservato mentre osservo il tramonto, rosso fuoco. Non ho nulla da fare ed in più ho fame. Torno indietro, compro qualche snack da usare nei prossimi giorni. Lo spaccio è vuoto, ma appena entro uno degli anziani che chiacchieravano fuori si alza e mi raggiunge. Compro, imbusto e torno al ristorante sotto al motel. Chiedo al ragazzo se è possibile mangiare qualcosa. Sembra quasi sorpreso dalla mia richiesta, come se non la aspettasse. Come se fuori ci fossero decine di posti migliori invece del nulla assoluto. Mi dice di sì, ma poi non si muove, non propone nulla né mi porta un menu. “Non so, dei cevapcici”, gli dico ricordandomi chissà come di un’antica parola yugoslava che affiora dalla mia infanzia, dalle lunghe estati trascorse in Istria con i miei genitori. “Ah, ok!”, esclama correndo in cucina. Coinvolge l’altro ragazzo, iniziano a trafficare in modo incredibile. Sento rumore di pentole e stoviglie, sembra che stiano preparando un pranzo di gala. Passa una mezz’oretta buona, tra lettura di Ivo Andric e scrittura del diario, prima che esca di nuovo con un piatto contenente due specie di hamburger e una pagnotta tipo rosetta tagliata a metà. Maionese d’ordinanza e birra di Sarajevo. Calda, perchè: “Il frigo è rotto!”, mi spiega col solito sorriso. Con la fame che ho va bene tutto! Torno in camera. Riordino i bagagli che, essendo da solo, ho sparso in tutte le valigie, in modo che ogni volta devi disfare e ricomporre tutto. Non è molto pratico, dovrò trovare una soluzione. Crollo a letto alle 22. 09/04/2010 - “I contrasti di Sarajevo”
Passo a fianco di ragazzi che tornano a casa da scuola. Camminano alla spicciolata, scherzando tra loro da un lato all’altro della strada. Torno per un attimo alla serenità e spensieratezza di quegli anni. Purtroppo la deviazione termina rapidamente. Arrivo a Srebnik, dove dovrebbe esserci un castello carino. Mi fermo in una panetteria dove assaggio finalmente il borek locale, una specie di sfoglia ripiena principalmente di carne e dell’immancabile cipolla, più qualche verdura e spezia. Buona! Con uno di questi arrivo sicuramente all’ora di cena. Cerco invano il castello. Sono sfortunato, è uno di quei casi in cui il russo che uso non corrisponde al bosniaco. Quindi quando chiedo di castello o palazzo in italiano, russo e inglese alle persone che incontro, non sanno indicarmi nulla. Sto uscendo dall’abitato quando per scrupolo chiedo a un giovane meccanico che sta lavorando infilato nel cofano spalancato di un’auto a bordo strada. “Sì, come no, è di là, verso il centro!” esclama, poi si dilunga in una serie di deviazioni e punti di riferimento. “Ok grazie ... ma forse proseguo”, rispondo sinceramente, scoraggiato da tutte quelle indicazioni. Nei pressi di Tuzla inizia a scendere qualche goccia d’acqua. Poco in confronto a quanto sembra minacciare il cielo. Il traffico diventa sempre più intenso. Odio guidare su strade così, non mi diverto, sono in continua tensione e c’è costantemente il pericolo di qualcuno che qualcuno ti venga addosso. Sono arrabbiato per questa deviazione inutile verso Tuzla, ma non potevo sapere che sarebbe stato così poco interessante. Meglio sarebbe stato andare a Sarajevo già da ieri sera, invece di fermarmi nel motel in mezzo al nulla. Mi fermo per consultare la cartina. Decido al volo una deviazione verso l’interno, spero sia bella e soprattutto poco trafficata, ma a giudicare dalla dimensione sulla cartina, penso sia poco più di un sentiero in mezzo ai monti! Vado verso Banovici e proseguo per Ribnica. Nei primi km il traffico è ancora intenso, quasi come se bastasse la vicinanza alla statale per effondere il virus, ma nel giro di pochi km la strada si trasforma. Rimpicciolisce, il traffico scompare, torna la natura. Dopo Ribnica la carreggiata diventa talmente stretta e apparentemente abbandonata, che mi prende il timore di aver sbagliato, ma proseguo ugualmente. E soprattutto è troppo bella per tornare indietro, da qualche parte sbucherà!
Corro a fianco di un torrente, sul fondo di una profonda e scoscesa gola rocciosa. Emozionante. Passo sotto mezza galleria scavata nella roccia, l’altro fianco della gola è a pochi metri. Ad un certo punto alla mia destra inizio a vedere con regolarità dei cartelli rosso fuoco, molto evidenti.
PERICOLO MINE! Cartello rosso con doppia scritta in bosniaco e inglese. Attenzione, mine inesplose! Un lungo costone di montagna apparentemente innocuo e che, anzi, potrebbe offrire emozioni agli escursionisti e agli amanti della Natura, è stato trasformato in una trappola mortale. Un immenso Cavallo di Troia creato da moderni Ulisse.
Trovo facilmente la pensione Leon segnalata dalla guida. 15 euro per una camera minuscola senza bagno. É così kitsch che è quasi elegante! I bagni sono splendidi e tutto è molto pulito. Affare fatto!
Doccia rapida e poi subito a passeggiare nel centro. É carino, la parte più affascinante è ovviamente quella ottomana, con piccole botteghe in legno e tanto artigianato, anche se preferisco quello turco per gusto e materiali utilizzati. L’antico bazar turco è minuscolo e finisco rapidamente nella parte più moderna, ottocentesca. Palazzi eleganti si affacciano sulla zona pedonale. Venditori di fiori, popcorn, palloncini. Coppiette e famiglie, pochissimi turisti, uomini d’affari al termine della giornata di lavoro. Nella piazza più grande, con giardinetti e panchine, alcune persone si accalcano attorno ad una grande scacchiera dipinta sul selciato. Anche qui, come in tutti i Paesi culturalmente influenzati dal “blocco socialista”, sono appassionati di giochi mentalmente impegnativi come gli scacchi. Da noi non si vedono nemmeno più gli anziani che giocano a carte. Non così tanti, quanto meno, e non così partecipato. Tanto più che qui diversi giocatori sono giovani, sui 30/40 anni. Immagino che, purtroppo, le nuove generazioni stiano già alienandosi su Playstation e friggi-cervello simili. Al centro della piazza troneggia una statua altamente simbolica. Raffigura un uomo circondato da colombe, simbolo di pace, che solleva paralleli e meridiani a costruire il mondo. L’iscrizione recita, in italiano e bosniaco: “L’uomo multiculturale costruirà il mondo”. Cultura e pace, due concetti profondi e, di nuovo, sempre più spesso ignorati. Osservando meglio la scultura, in realtà sembra che l’uomo stia chiudendosi in gabbia ... e tutto sommato anche questo è vero. Inizia a far buio e memore delle raccomandazioni della ragazza dell’ostello (“Mmh però in effetti non andrei lassù da solo, di notte...”) mi affretto a fare almeno la salita con l’ultima luce del crepuscolo. Durante l’arrampicata inizia a prendere corpo il ricordo dei libri letti anni fa, sulle descrizioni della città come “adagiata dentro un catino” ed effettivamente è così. Sarajevo è sul fondo di una conca, circondata da tutti i lati da colline anche abbastanza alte. Man mano che esco dal centro storico vedo sempre più case con i segni della guerra. Fori di mitragliatrice o quelli più grandi degli obici. Finestre divelte, alcune palazzine rese inagibili dai danni e ormai abbandonate. Su alcune facciate spiccano le lapidi con i nomi degli inquilini morti. Nome, cognome, data di nascita e morte. Lunghi elenchi che quasi non capisci come facessero ad abitare tutti in un solo palazzo.
I pensieri si accavallano; mi rimbalzano forte in mente le accuse rivolte ai pacifisti che si opponevano all’intervento armato per fermare il massacro. “Pseudo pacifisti” perchè comunque era in atto una guerra, probabilmente più subdola e crudele rispetto alla “guerra di pace”. Ricordo soprattutto gli attacchi delle persone che più stimavo e stimo ancora, come gli allora membri dei CSI, il gruppo rock italiano nato dalle ceneri dei mitici CCCP. Ricordo, appunto, gli appelli più forti e incisivi di Giovanni Lindo Ferretti e degli altri membri. Appelli che mettevano in crisi perchè la pace, il pacifismo è tra i valori fondanti della Sinistra. Fin dalla Rivoluzione sovietica, che nacque e crebbe enormemente di importanza proprio con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. I libriccini di propaganda bolscevica che passavano di mano in mano nelle trincee, i valori della “pace del popolo” contro le “guerre dei potenti” e tutto il resto. Concetti resi carta straccia nel giro di pochi mesi, nel nome della Rivoluzione da difendere. In ogni caso l’ideale di pace rimaneva e rimane forte e inattaccabile. Dogmatico, direi. Solo che qui non hanno discusso di ideali, ma si sparavano. A Sarajevo soprattutto c’è stato tanto cecchinaggio. Tra le manifestazioni più tremende e vigliacche della guerra. Tu cammini, passeggi, corri e qualcuno ti sta puntando da lontano finchè, quando ti ha ben mirato, preme il grilletto. Tantissimi sono morti così. Per mesi, anni. E noi, in Italia come nel resto d’Europa, ci opponevamo all’intervento armato nel nome della pace. Che non c’era. Ma di là, da noi, dall’altro lato dell’Adriatico, la pace c’era. Bisogna anche dire che le tante manifestazioni non penso abbiano influito più di tanto. La storia ci insegna che tutto viene deciso dall’alto. Se i governi non sono intervenuti, per anni, non avranno avuto le loro convenienze politico-economiche. Non c’è nulla che il popolo può fare, a parte ammazzarsi nel nome delle idee più diverse. Politiche, etniche, religiose. Se fa comodo, si lascia che si ammazzino, altrimenti li si ferma e l’intensità della reazione dipende dagli interessi in gioco. Tutto questo ci insegna l’Africa, l’Asia, l’Oriente, l’Europa, il Sud America. Concetti profondi e terribili che vorticano nella mia testa mentre mi affaccio attraverso le varie sbarre che racchiudono i cimiteri a leggere pezzetti di vita, a intuire persone portate via da granate, proiettili, esplosioni. Continuo la ripida salita verso il ristorante, fermandomi per riprendere fiato e osservare i palazzi più crivellati dai proiettili. Passo a fianco di un branco di cani randagi. Non badano a me, accerchiano una donna che gli sta dando da mangiare. Abbaiano furiosamente, ma per contendersi il cibo. Penso con timore alla mia discesa, tra un paio d’ore. Speriamo bene, non ho mai avuto un buon rapporto con i cani randagi.
Leggo e scrivo, mangio con gusto funghi, patate fritte e l’agnello al forno più buono che io ricordi. Mezzo litro di birra di Sarajevo. Pago pochissimo: sette euro e mezzo! Esco verso le 22, il buio è rotto da pochi lampioni. Incrocio i primi due cani randagi. Dormono, uno a destra, uno a sinistra della strada. Le Forche Canine. Per fortuna le passo senza scatenare reazioni. Alzano appena la testa e mi seguono con lo sguardo mentre li supero. Sento in lontananza il latrato di molti cani. Da dietro un portone in ferro scoppia improvvisamente il potente latrato di un cane da guardia. Spero che non ci siano nelle vicinanze altri cani che potrebbero eccitarsi alla lotta, aggredendomi. Arrivo nei pressi del cimitero dove poco fa la signora stava dando da mangiare ai cani. La strada si biforca. A destra quella da dove sono arrivato, che conosco e mi riporterebbe in centro. A sinistra una strada ignota, che si allontana dall’altra, ma non penso più di tanto. In ogni caso, una nuova esplosione di latrati mi convince in un istante a prendere verso sinistra. Sono tanti, molto vicini e abbaiano forse contro qualche passante. Per fortuna dalla mia parte non ne vedo. Passo a fianco di una traversa che collega la mia strada con l’altra. Vedo, sul fondo, un paio di cani. Loro non mi vedono, stanno abbaiando rivolti dall’altra parte. Proseguo con passo svelto. Finalmente raggiungo il fondo, sbuco proprio all’altezza del suk ottomano. Tiro un gran sospiro di sollievo. Arrivo all’ostello. Trovo il ragazzo che fa la notte, sui 30 anni, un ragazzino sui 15 che naviga instancabilmente su Internet e una ragazza sui 30. Lei è montenegrina, insegna lingua e cultura inglese ed è qui per un dottorato di ricerca pagato dall’Università di Sarajevo. Salgo in camera, ma scendo poco dopo perchè vorrei andare a comprare una bottiglia d’acqua. “Ma bevi quella del rubinetto, è ottima!”, risponde lui con un gran sorriso. “Sì, l’ho letto sulla guida ... quindi è proprio così buona?”, chiedo per conferma. “Ottima!”, ribadisce lui. Nasce così una lunga conversazione che tocca tutti i temi: politica, scuola, educazione, cultura, geografia, storia, attualità. É bellissimo! Vivo uno di quei momenti per cui vale la pena viaggiare: l’incontro con persone di un altro Paese, tradizione, cultura tramite cui si riesce a scoprire un pezzetto del Paese che stai esplorando, al di là di guide o articoli scritti da altre persone, magari di altre nazionalità e quindi con altri filtri, sensibilità. Parliamo della grande tradizione e qualità della scuola jugoslava, in particolare dei loro licei che affrontavano temi molto approfonditi e avanzati in geografia, storia, matematica, letteratura. Lui e lei mi raccontano della loro esperienza di 30enni nati e cresciuti in un Paese unito, con concetti forse retorici di fratellanza e uguaglianza, ma comunque uniti. Tentano un parallelo con le generazioni moderne, nate in Paesi divisi e separate da confini e soprattutto rancori e odii. Chissà ... su alcuni punti mi trovo d’accordo, ma sulla loro fratellanza dubito, visto che sono stati loro o meglio i loro genitori a distruggere tutto! “Il Vecchio Padre è morto, hanno aspettato un po’, l’hanno toccato un po’ per assicurarsi che fosse ben freddo” - e fa il gesto di toccare un corpo con il piede - “... e poi si sono scatenati.”, riassume lui. Sul perchè ci perdiamo, si perdono. Non c’è UN perchè, ci sono TANTI perchè. Storici, culturali, economici ed un pericoloso mix di nazionalismo e religione. Fatto sta che in breve la follia ha preso il sopravvento e poi è stata tutta una discesa verso l’abisso. Lei mi consiglia di parcheggiare la moto in garage, anche lui è molto deciso. Ma non mi va di salire in camera, prendere le chiavi, scendere, spostare, andare nel garage, pagare. La signora oggi pomeriggio ha detto che non c’erano problemi, decido di fidarmi di lei, contro l’insistenza dei miei nuovi amici. Speriamo bene. Vado a dormire verso l’1 di notte. Ancora nessun segno di Abe che dovrebbe accogliermi domani a Belgrado. 10/04/2010 - “Ingresso in Serbia”
Anche qui, un fiume, la Drina, divide due nazioni. In origine era sufficiente attraversare un ponte comodissimo. Adesso, dopo anni di guerra e migliaia di morti, il ponte è sbarrato e la gente deve fare un giro più lungo ed attendere ore in coda.
Dopo Vaijevo la strada diventa ancora più noiosa, finchè non arrivo a Belgrado, caotica come tutte le grandi città. Riesco a trovare la casa di Alberto senza troppe difficoltà. É una strana sensazione venire a trovare un caro amico così lontano! Doccia, birra d’aperitivo e poi cena luculliana in un ristorante in zona. Passeggiamo un poco, poi crolliamo e andiamo a dormire, siamo entrambi distrutti. |
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