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Giornate: 28/07/2007 - “Traversata rovente fino al Nemrut Dagi”
Remo è stato colpito dalla “Vendetta del Sultano”, così la chiamano qui. E io? Dopo tutta la verdura cruda che sto mangiando, l’acqua di provenienza ignota che sto bevendo, tutte le sostanze sconsigliate mangiate e bevute; dopo le storie di Abe, Mario, i tanti dubbi sulla moto; dopo tutto questo, ormai l’approccio è, a chi ci chiede: “Stiamo tentando di andare a Samarcanda”. Un fatalismo affine alla filosofia orientale, dove tutto è demandato alla volontà ignota del Signore, quindi inutile stare tanto a pensarci. Meno affine al “voglio / ottengo / tutto sicuro” occidentale. Partiamo alle 9:20, in ritardo di almeno 2 ore su una “partenza intelligente”. Ci aspettano un mucchio di km, chissà dove e quando arriveremo... La costa verso Anamur vista ieri potrei chiamarla la “Costa delle Banane”, con una bella moschea, vista anche nel 2005, immersa in un bananeto. Oggi vediamo la “Costa degli Aranceti”, numerosissimi in direzione di Mersin. Gli abitati sono prima fittissimi per sfruttare il mare, poi angoscianti, nelle cittadine sparse della Turchia orientale.
Finalmente raggiungiamo l’autostrada: mi darà sollievo alla guida per molte decine di km. Sulla rampa di accesso molte persone lungo il guardrail vendono fichi. Il caldo è insopportabile, l’aria scotta, devo chiudermi fino al collo. Dopo questi primi giorni e in previsione di ciò che ci aspetta, ribattezzo il viaggio “SamarCaLda 2007”.
Non si arriva più. I 100 km non fatti ieri si sommano agli oltre 600 che avremmo dovuto fare oggi. 700 km in Turchia corrispondono ad oltre 1000 km europei. Le tonalità che vedo abbandonano presto l’azzurro del mare e assumono, via via che andiamo verso Est, i toni del giallo, dal chiarissimo al più scuro, fino al marrone. L’orizzonte si allarga a dismisura, siamo schiacciati dal cielo immenso e dal caldo letteralmente insopportabile. Vediamo piccoli villaggi, cittadine, adagiate sul fondo di piccole depressioni. Non oso chiedermi come si possa vivere lì. Il panorama è piuttosto monotono. La terra continua incredibilmente ad essere coltivata. Nonostante la noia dell’autostrada mi spiace lasciarla, perchè già so che tornerò a faticare per guidare. La strada, però, fortunatamente è discreta, meno buche del solito e abbastanza veloce.
Stiamo per arrivare. La strada attraversa una gola suggestiva, stretta e ripida. Iniziamo a salire, la temperatura torna accettabile. Lasciamo la strada provinciale per entrare in quella finale, diretta al Nemrut Dagi. Attraversiamo un piccolo villaggio sporco e malmesso. Riprendiamo a salire, ora più decisamente. La moto riprende ad andare male. Forse è legato all’altitudine ed al caldo. Siamo stravolti dalla stanchezza, ci fermiamo nella prima pensione che troviamo, a Karadut. Dopo una breve contrattazione con Caterina, ci accordiamo per 40 YTL in tripla, con colazione. Scopro di aver dimenticato il cellulare al Günasti Otel, oltre 700 km indietro. Chiamiamo, risponde la proprietaria che l’aveva già trovato stamattina, sul tavolo della colazione. Remo confessa anche di averci fatto caso, ma di non aver detto nulla perchè pensava che l’avrebbe preso Cate. Illuso!! Bevo un litro tra succhi di frutta ed altre bevande in pochi minuti. Siamo crollati sul letto, non ne avremmo nessuna voglia, ma il sole sta calando: scendiamo e percorriamo gli ultimi 15 km in un paesaggio lunare, incredibile. Rocce sempre più spoglie, scenografie di montagne che si sovrappongono e nascondono su innumerevoli livelli, fino all’orizzonte.
La salita è ripida, Nelik è in grande difficoltà, oltre la prima non riesce a spingere. Mi arrabbio mentalmente con il meccanico. Arriviamo alla sbarra d’ingresso del parco [4,5 YTL]. Il guardiano ci dice che, visto che è tardi, questo biglietto andrà bene anche domani mattina all’alba, se torneremo. In verità, pensavo di venire qui solo al tramonto. Da quello che ho letto è ugualmente bello, risparmieremmo una levataccia ed avremmo più tempo per la tappa di domani. Ma è quasi buio e siccome vogliamo vedere bene il mausoleo, dopo discuteremo di cosa fare domani mattina. La strada, lastricata di piccoli mattoni di cemento, è una lingua stretta che si snoda sui fianchi delle montagne. Arriviamo al rifugio. Il vento è violento, rabbioso, fa quasi freddo. La salita a piedi fino alla tomba è ripida, faticosissima. Il colpo finale di questa lunga giornata.
La luna si riflette in un lontano corso d’acqua: l’Eufrate. Scendiamo che è buio pesto. Torniamo alla pensione, ceniamo all’esterno sotto un pergolato in compagnia di una coppia di signori olandesi. Discutiamo sul proseguimento del viaggio, la fatica, il caldo, l’approccio al viaggio e tutto sommato alla vita. Anche oggi, come un paio di giorni fa, l’espressione che Caterina usa al pensiero della tappa di domani è: “che palle!”. Invece di pensare al passaggio sull’Eufrate in traghetto, al Tigri, alla capitale dei curdi Dyarbakir, al lago di Van, alla chiesa armena di Ahtamar. Anche io sono stanco, accaldato, annoiato da certi paesaggi monotoni: mi piacerebbe essere spinto, incoraggiato, stimolato. Almeno ogni tanto. Decidiamo di scalare di nuovo il Nemrut Dagi domani all’alba. Andiamo a dormire quasi alle 23, ben dopo i nostri buoni propositi. 29/07/2007 - “L’incanto turchese di Van”
Non troviamo la lastra dell’oroscopo, non capisco se non esiste più, se l’hanno portata in qualche museo o se quella che vedo sulla guida è una ricostruzione. Scendiamo, ma non facciamo colazione. Proviamo a prendere il traghetto delle 8:30. Non pago il piccolo libro sul Nemrut preso ieri sera. Di nuovo il paesaggio delle gole strette tra alte montagne fino alla strada principale, poi la corsa fino al “feribot”, il traghetto che attraversa l’Eufrate. Sono di nuovo a corto di benzina, ma ci lanciamo ugualmente.
Grandi colline con scorci sempre più ampi sulle anse blu brillante del fiume. Arriviamo in tempo. La piccola chiatta aperta si riempie del tutto accogliendo anche un furgone ritardatario che non avrei mai detto sarebbe riuscito a trovar posto. La traversata è emozionante. Avverto la carica mistica di questo fiume storico, biblico, imponente. Si snoda tra profondi canyon e si allarga in anse simili a laghi. Conosciamo un gruppo di iraniani di Tabriz. Ci scattiamo a vicenda alcune foto, poi parliamo dell’Iran, dell’Italia, della Turchia. Ripartiamo. La terra ora è cattiva di pietre nere, incoltivabile. Riesco ad arrivare al benzinaio. L’unica colazione che riusciamo a rimediare è un succo di frutta ed una fantastica pizza di pane. Puntiamo su Dyarbakir. Sono pensieroso nell’attraversare questa città, bersaglio di molte delle bombe che esplodono periodicamente in Turchia. L’orizzonte torna ad allargarsi a perdita d’occhio. Campi di grano all’infinito. Solo questo, per decine e decine di km. Se il Kurdistan dovesse chiudersi, la Turchia rimarrebbe senza grano e senza petrolio! Il fondo stradale è tra il brutto e il pessimo, si salta in continuazione. I camion sono innumerevoli, guidano in modo piuttosto spregiudicato. Mi colpisce la sostanziale carenza di infrastrutture della Turchia: le strade sono quasi tutte pessime, anche quelle appena fatte; le autostrade sono pochissime; ho intravisto la ferrovia soltanto una volta. A poche decine di km dal lago di Van entriamo in ampie gole montane. Il fondo stradale peggiora ancora, ma compensa il paesaggio da cartolina. Incontriamo dei posti di blocco, con tanto di bunker da cui ci osservano, incuriositi, giovanissimi soldati, sacchi di sabbia e carri armati parcheggiati a fianco. La stanchezza accumulata viene sempre ripagata dai sorrisi luminosi e dagli occhi felici dei bambini che incrociamo. Inizio a fantasticare su una associazione umanitaria che adoperi la scusa di questi curiosi veicoli a due ruote, le moto, per portare sollievo ed aiuti concreti alla popolazioni bisognose in cui, immancabilmente, i bambini ti inseguono ridendo e salutando. Usciamo dalle montagne, la strada si allarga. Corro a testa bassa verso il lago di Van, ripetendomi come un mantra, come solo tante ore trascorse in moto ti rendono capace, una espressione usata da un professore di educazione fisica delle scuole medie: “Insisti, resisti, persisti!” Un leggero tocco sulla spalla e l’indice puntato di Caterina mi fanno vedere, più a destra ed in alto rispetto alla lingua d’asfalto che sto fissando ossessivamente da ore, un triangolo blu che si ingrandisce in pochi istanti fino ad occupare tutto l’orizzonte: il lago di Van!! Torniamo a chiederci, stavolta ironicamente rispetto alla ingenua curiosità dei primi giorni, come mai i turchi occidentali non vadano mai sul lago di Van. O si prende l’aereo, o è un’odissea! In un fruttivendolo di Tatvan ci chiedono 3 YTL per 4 pesche. Rinunciamo a comprarle.
Superiamo un passo a 2100 metri, ovviamente sono a corto di benzina ma cerco di non pensarci. Il motore fa nuovamente le bizze. Seguo l’andatura dei camion: 50 km/h, di più non va. Dopo una cinquantina di km troviamo un benzinaio, carissimo! “Sempre meglio che spingere”, direbbe il mio amico Mullah! La strada scavalca le montagne, corre a bordo lago, blu intenso fino all’orizzonte.
Proseguiamo, ma ci allontaniamo sempre più da Ahtamar. Decidiamo allora di tornare all’imbarco, vedere l’isola e poi andare a dormire a Van, distante poche decine di km. Purtroppo siamo in pochi, devono portare almeno 10 persone a 4 YTL a testa. Altrimenti, se gli diamo 40 YTL, parte anche subito. Chiacchieriamo con una coppia di ragazzi turchi, che dopo qualche minuto ci salutano rinunciando. Torneranno domani. La stanchezza vince e soprattutto l’idea che di chiese armene ne vedremo tante, anche se forse non così suggestive. Non vediamo che campeggi, nessun albergo o pensione. Molta gente fa il bagno. Costeggiamo il lago, la strada ondeggia sinuosa, copia fedelmente la costa. Avvicinando a Van il traffico aumenta. Cerchiamo due alberghi, uno indicatoci poco fa all’imbarcadero e uno segnalato dalla guida. Li troviamo, per fortuna sono a due passi uno dall’altro. Cate va nel primo, io nel secondo. Via walkie talkie conduciamo le trattative, ce li descriviamo, alla fine decidiamo per il Bayan: 25 YTL la singola, 55 la doppia. Il signore anziano con cui tratto è simpatico e parla un buon inglese.
“Quando tornate?” “A fine agosto” “Agosto ... quale agosto? L’anno prossimo, tra due ...” “Questo agosto!” “Questo?!? Ma fate un viaggio ... pffft!” mimando con voce e gesti una specie di missile iperveloce. A questo punto immagino che in Iran sia comunissimo star via 3 anni, sponsorizzati a livello economico, mentre in Italia al massimo ti forniscono l’attrezzatura a scopo pubblicitario, ma neanche un euro. Quando parliamo del nostro viaggio, spaventano la suggestionabile Caterina parlando di ribelli (!), assenza di strade, necessità del GPS, smarrimenti nel deserto e quant’altro. Lei, ben piazzata, ad un certo punto esclama: “E poi la moto è scomodissima per viaggiare! Molto meglio l’auto” Lui ride, divertito. Insomma, per tanti motivi non entro minimamente in sintonia con questa coppia di, è proprio il caso di dirlo, motociclisti per caso. Torniamo in camera. Facciamo una doccia ristoratrice, storpio una vecchia canzone di Max Gazzè in: “Una doccia può fare...” Quando esco dal bagno, Cate mi fa: “Sono preoccupata!” “Di che?” “Di cosa troveremo...” “Dove??” “In Turkmenistan ... e in Azerbaijan!” “In Turkmenistan ci sono già stato ed è tranquillissimo. L’Azerbaijan sarà come gli altri! Gente, strade, negozi...” Io invece sono preoccupato per la moto. Arrivando a Van ha iniziato ad ingolfarsi anche in pianura, in condizioni normali, non più sotto sforzo come ha fatto fino a oggi. Spero lo faccia solo a motore molto caldo, comunque non è normale e soprattutto non capisco il motivo: filtro aria già intasato, filtro benzina sporco, benzina di scarsa qualità (ma dopo sarà anche peggio!) oppure non so cos’altro. Usciamo a caccia di un ristorante, ma siamo subito intercettati da Reshat, il signore con cui avevo contrattato poco fa. Ci offre un tè nell’ufficio di comando dell’albergo, con poltrone e vari ritratti alle pareti: suo padre, fondatore dell’albergo, poi uno dei suoi (tanti) fratelli ed infine, ovviamente, Atatürk, il fondatore della Patria. Suo padre aveva due mogli, ha 10 fratelli e 7 sorelle! Parliamo del lago, dei gatti di Van, famosi per i loro occhi di diversi colori, uno azzurro e l’altro verde/marrone. Andremmo avanti per ore, ma ci congediamo: siamo affamati! Anche oggi, come ieri, abbiamo saltato il pranzo! Troviamo tutto chiuso, è domenica e per giunta tardi. In Turchia, come in tanti Paesi del mondo, si cena abbastanza presto rispetto all’Italia. Iniziamo a chiedere in strada alle persone che incrociamo finchè un ragazzo gentilissimo prende a cuore la nostra causa e ci guida tra diversi altri locali, tutti chiusi. Alla fine ne troviamo uno aperto. Curiosamente qui i ristoranti sono quasi tutti ai piani alti dei palazzi: il terzo, quarto piano. Sotto spesso c’è un night o un music club e, a livello della strada, i negozi. Anche questo è all’ultimo piano di un palazzo, ceniamo sulla terrazza. Ordiniamo tutto l’ordinabile: spiedini di pollo, insalate e verdure varie, ayran e il loro pane simile ad una pizza, molto buono. Torniamo in strada, ci fermiamo in una pasticceria che è anche gelateria. Finalmente troviamo i dolci turchi, fino a oggi per un motivo o per l’altro non siamo ancora riusciti a mangiarli!
Torniamo in albergo, chiacchieriamo ancora con Reshat, ma è quasi mezzanotte, vale a dire quasi 20 ore da quando ci siamo alzati per vedere sorgere il sole sul mausoleo di Antioco, svariate centinaia di km fa. 30/07/2007 - “Mi(s)tico Ararat”
Mi sveglio, scrivo, penso ad Internet: ora che ho perso il cellulare, devo aggiornare Diana a Tashkent e Dario a Roma per il trasporto moto, poi vorrei cercare dei centri assistenza Honda nei vari Paesi caucasici. Mentre chiudo il diario, trovo per caso un segnalibro preso a Benevento chissà quando. Mi colpisce una frase di Tullia Bartolini: “Alla fine ci penserà il tempo, il tempo che non esiste...” È una frase che mi ripeto spesso, “il tempo non esiste”, stratagemma per arginare l’ansia della frenetica vita lavorativa e non. Proprio ieri sera l’avevo confidato a Caterina e Remo. Curioso! Parlavamo della differenza di approccio, stile di vita e filosofia tra occidentali e orientali (cristiani vs musulmani?). Dopo molto tempo che sono sveglio, scritto tante pagine, andato in bagno ecc guardo il cellulare di Caterina: sono le 7:20! Scopro così di aver dormito pochissimo e l’aspetto peggiore è che non ho sonno, anche se ho un certo mal di testa di sottofondo. Ieri sera, stranamente, avevo i brividi di freddo ed ho aggiunto una coperta di lana. Esco lasciando sul letto il walkie talkie acceso, in modo che quando Caterina si sveglia possiamo sentirci al volo. Vado in un Internet Cafè (1 YTL - 1h). Leggo qualche email, cerco concessionari, rivenditori, assistenze Honda, ma non trovo nulla. Caterina mi contatta verso le 11, torno in albergo e facciamo colazione con Reshat che, gentilissimo, ci consente di fare colazione nonostante l’ora sia così tardi. Parliamo ancora molto, ci racconta dei suoi amici al Touring Club Italiano, ci chiede la cortesia di spedirgli un pacchetto con depliant ed altro sul suo albergo. Ci regala 2 CD di foto e filmati dei dintorni e dei meravigliosi ed unici gatti di Van, dagli occhi di colori differenti. Finalmente partiamo, ad un semaforo di affianca un furgone per salutarci, come fanno in molti. Stavolta guardiamo dentro ed in mano al ragazzo sorridente che ci saluta c’è un grande, minaccioso mitra. Buongiorno! La strada abbandona il turchese del lago fuggendo all’interno, poi costeggia nuovamente. La vista è ancora più ampia, mancando i filari di alberi e le costruzioni incontrate ieri. La cornice di imponenti montagne che racchiudono il lago è una vera montatura che incastona un gioiello. In lontananza si intravede la cima bianca di neve del vulcano Nemrut, omonimo del monte col mausoleo di Antioco visto l’altro giorno.
A pochi passi da noi un anziano dalla lunga barba grigia, aiutato dal figlio, si immerge con grande lentezza fino alla vita. Resta immerso alcuni minuti, poi si riveste nella lunga tunica bianca. Si siede nel retro dell’auto che attende a pochi metri. Dopo qualche minuto ripartono. Pranziamo con le ultime due scatolette di Manzotin portate dall’Italia. Accompagniamo il tutto con la pizza di pane presa ieri sera al ristorante. Un’oretta di relax e ripartiamo verso la mitica meta di oggi: l’Ararat. I posti di blocco diventano più frequenti, fermano completamente il traffico. I carri armati non sono più una novità, ma ci impressionano. Ancora qualche km ed abbandoniamo definitivamente l’immenso specchio cobalto del lago. Ci dirigiamo a Medyane.
La strada, improvvisamente, si trova a passare in mezzo ad una immane colata lavica. Materiale vulcanico di migliaia, forse milioni di anni fa, si estende a perdita d’occhio. Il verde ed il giallo dei licheni e delle piante lo animano, ma il nero della roccia sottostante lascia poche speranze di ottenere altro. Il paragone che viene immediato è con l’Islanda, dalle immagini viste nei documentari. Proseguiamo danzando in questo paesaggio magnifico. Purtroppo il motore va male, ma ogni pensiero e preoccupazione viene spazzata via dall’apparizione magica dell’Ararat. Spunta discreto, come a fare uno scherzo, da dietro una corona di montagne più basse e vicine. Si vede solo il cappello bianco, ma non esitiamo un secondo a capire che è lui! È imponente, suggestivo, mistico. Trasmette tutta la sua carica emotiva semplicemente con la sua mole, col suo spiccare in modo così evidente e prepotente su tutti gli altri monti che lo circondano, gigante tra nani, Signore tra cortigiani. Arriviamo alle sue pendici al tramonto. Restiamo rapiti fino a quando anche gli ultimi raggi di sole non lo hanno abbandonato. Dogubayazit stride assolutamente: brutta, sporca, polverosa. Contrattiamo in alcuni alberghi, nessuno ci convince particolarmente, ci decidiamo per l’Hotel Tahran: 25 YTL la doppia, 15 la singola, internet gratis. La stanza è piccola, il bagno un loculo cieco col lavandino largo una spanna senza canna dell’acqua: il rubinetto sparge l’acqua direttamente dal rubinetto. Andiamo a cercare un posto dove mangiare, ma come al solito è già un po’ tardi e fatichiamo. Stavolta siamo adescati da Martin, un ragazzo spigliato che ci spinge nel ristorante di un suo amico, l’Urfa Restaurant. Fortunatamente era uno di quelli dove avremmo voluto provare, dietro suggerimento della guida. Ci presenta ai camerieri e al personale, ci aiuta nella scelta del menu, ci accompagna di sopra, poi sparisce: “Devo tornare dai miei amici che ho lasciato prima...” Torna dopo un’oretta in compagnia di un amico e di una ragazza polacca, uniamo i tavoli. Lei studia turco, viaggia da sola, è già il secondo anno che gira la Turchia, stavolta si è spinta molto a Est. Dopo le 23 si unisce un altro loro amico con una strana chitarra. Ascoltiamo le malinconiche note della musica curda fin quasi a mezzanotte, quando i proprietari del ristorante ci avvisano che devono chiudere. Passeggiamo ancora un po’, poi crolliamo a letto. |
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