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Giornate: 31/07/2007 - “In Georgia con Celentano ...”
Siamo guidati da un signore magrissimo che non parla una parola di inglese, ma alla fine riesce a spiegarci tutto. Purtroppo siamo di fretta. Noi pensiamo alla Georgia, a tutti i km che mancano, all’incognita della frontiera. Remo pensa al ritorno, a tutta la strada che lo aspetta, da solo. Ci salutiamo nel parcheggio fuori dal palazzo. Ciao Remo, in bocca al lupo! Scompare all’orizzonte mentre noi ci arrampichiamo poco sopra, per vedere da vicino i resti dell’antica Dogubayazit, poi partiamo anche noi. Da un lato sono curioso di andare in Georgia, sono attirato dal nord della Turchia, sono felice di circumnavigare l’Ararat, almeno per una buona metà. Dall’altro lato, davvero non so cosa aspettarmi dalla Georgia e dal Caucaso in generale. Attraversiamo la piana, verdissima, sotto il vulcano, brullo, di roccia chiara e marrone con la cima spruzzata di neve lasciata la scorsa notte. Proseguiamo per Igdir. Ora siamo davvero soli. Nonostante viaggiamo sull’unica statale, la strada principale, non incrociamo praticamente più nessuno. Il paesaggio diventa sempre più verdeggiante, le pianure che attraversiamo solcate da piccoli ruscelli, l’aria umida di piogge recenti. Infatti, sulla destra, verso l’Armenia, il cielo è nero di nuvole tempestose. A poche decine di km dal confine con la Georgia vorrei proseguire verso un lago ed entrare attraverso una strada che la cartina segna con il simbolo più chiaro. Probabilmente è sterrata, non so nemmeno se è possibile passare la frontiera. Nei mesi scorsi ho provato a chiedere all’ambasciata, su Internet, ma non ho mai ricevuto risposta, tranne un generico “è meglio passare dal Mar Nero”.
L’asfalto è bagnato, ha piovuto da poco ma per il momento la stiamo scampando. Man mano che saliamo il motore perde sempre più potenza, chissà che tutti i problemi che sto avendo non siano semplicemente un motivo di eccessiva altitudine. Passati i 2000 metri inizia a far freddo, il sole è scomparso, inizia a scendere una pioggia leggera. Infiliamo le cerate anche per proteggerci dalla temperatura. Continuiamo a salire, i pascoli aumentano così come le greggi. Passo di oltre 2500 metri, Nelik è sempre più in difficoltà, ma avanziamo. La temperatura, la pioggia leggera, il cielo nero ci pesano sul cuore, andandosi a sommare ai dubbi che già vi gravano. Non è ansia, ma preoccupazione. Tacita, nessuno dice nulla all’altra, ma pensiamo la stessa cosa.
Ci fermiamo, fotografiamo alcuni fiori, ci riposiamo in quest’altra tappa così impegnativa. Mi colpiscono i sottili minareti a matita. Sono abituato a vederli in ambienti più soleggiati, aridi, desertici e non in queste Alpi anatoliche. L’attesa è spasmodica, ci sembra di non arrivare più. Ma finalmente, all’ennesima curva, vediamo spuntare le cancellate della frontiera. I turchi sono gentili e veloci. Parliamo di politica, apprezzando le recenti parole di d’Alema a favore dei curdi. Passiamo in tutto in tre uffici, impieghiamo un’ora scarsa. I cancelli sbarrati si aprono. Siamo nella terra di nessuno, una striscia di 5 metri, con alle spalle il cancello turco e di fronte quello georgiano. Entrambi sbarrati. Dopo alcuni minuti, arriva un militare georgiano che apre e ci fa entrare. Già è tardi, in più perdiamo un’ora di fuso orario. Ricomincio a parlare in russo. Sono sempre felicissimo di parlarlo, non so spiegare il perchè, ma questa lingua mi piace incredibilmente, anche se non sono affatto bravo e mi arrabatto come posso. Un poliziotto massiccio, con il fisic du role del capo un po’ mafioso, inizia a parlarmi, felicemente sorpreso di poter comunicare in russo. Ho conquistato la sua stima, facilita le pratiche e quasi si disinteressa ai documenti, iniziando invece a chiacchierare del più e del meno. Il calcio, la musica, l’Italia, la Georgia e ... Toto Cutugno, che di recente ha fatto due grandi concerti a Batumi e a Tbilisi. E ovviamente il grande Adriano Celentano, letteralmente adorato (“lui sì che è un vero artista: cantante, attore, uomo di spettacolo, ballerino!”). Cala la sera. Nell’attesa ci offrono l’anguria, dolcissima. Ricambiamo con delle patatine comprate a Kars. Ad un certo punto mi chiamano in uno dei loro uffici. Nel buio riluce lo schermo di un computer, inizia un videoclip. È Celentano! Inizio a cantare le parole che ricordo de “La Gelosia”, uno di loro inizia a ballare, nel modo tipico orientale con le braccia alzate, roteando. Non si vede più nulla, dobbiamo tagliare con le chiacchiere perchè ci aspettano ancora un po’ di km. Ci dicono che la strada è brutta per una ventina di km. Non mi preoccupo, sono pochi e sono abituato. Ce lo ripetono. La cosa diventa sospetta. Ci salutiamo tra grandi sorrisi e pacche sulle spalle. L’uscita da sotto il capannone dove eravamo fermi è impegnativa, sembra un campo arato: i solchi sono molto profondi e non so dove mettere le ruote per non incastrarmi. Arrivo davanti al cancello che si apre su un muro nero di oscurità. Fuori non c’è nulla, nemmeno la strada, figurarsi i lampioni. La strada è sterrata, nemmeno tanto bella. Pochi metri dopo c’è un benzinaio, dove per sicurezza chiedo la direzione. “È di là la strada verso Tbilisi?” chiedo indicando nell’oscurità. “Sì! Tutto dritto!” Vengo inghiottito dal nero, ma fatti nemmeno 100 metri c’è un bivio senza alcun cartello. Torno indietro nel rassicurante cono di luce del distributore: “Sinistra o destra?” “Destra!” mi risponde come a dire “mi sembra evidente!”. Sarà, ma non vedo a un metro dal naso. Ci tuffiamo senza pensarci troppo in questa traccia piena di curve, in discesa, sterrata a grossi ciottoli, grandi come un pugno e più. Un ingresso decisamente poco invitante, inquietante. Di tanto in tanto partono dei bivi, nessun cartello, intravediamo delle abitazioni in legno. Tutto buio, dentro e fuori. Ci sarà qualcuno? Dove siamo? Dove stiamo andando? Queste le domande che mi affollano la testa. Poi villaggi fantasma, con gente che cammina nell’oscurità più completa. Chiedo informazioni, stiamo andando bene. Di nuovo soli, poi finiamo in un altro villaggio, più grande dei precedenti ma sempre completamente al buio. Solo qualche croce luminosa, rossa, rompe l’oscurità. Sembrano fluttuare nel vuoto, sospese. Per strada è pieno di ragazzi, ascoltano la radio dalle auto ferme a portiere aperte, da un palazzo esce della musica ad alto volume. Un pub o una discoteca. Entro in un alimentari. Stranamente non attiriamo gli sguardi, passo accanto a dei ragazzi che non mi guardano nemmeno. All’interno alcune donne di mezza età fissano il televisore. Chiedo la direzione, mi confermano sempre dritto. Ripartiamo in una insolita indifferenza generale. Pochi metri dopo mi fermo nuovamente, per chiedere quanti km di strazio mancano alla prima città. Illuminati dall’interno di un negozio, alcuni anziani sono seduti su una panchina, sul marciapiede. Inizio in russo, poi uno di loro, il più loquace, capisce che non siamo russi e si rivolge in inglese. Rispondiamo in inglese, nuovamente capisce che non siamo inglesi e prova in francese, chiedendoci come mai eravamo lì, chi ci aveva mandato. “Eh, Gesù ci ha mandato!” risponde Caterina, in maniera del tutto insolita. Idem capisce che non siamo francesi, riprova in italiano. Al che esclamiamo: “Ma lei è bravissimo, come fa a conoscere tutte queste lingue?!” “Eh, ma potevate dirlo subito che siete italiani, sono italiano anch’io!” risponde ridendo di una risata aperta, bonaria, contagiosa. È padre Gregorio, un missionario armeno di nascita, naturalizzato italiano da molti anni. Passa qui la maggior parte dell’anno, ma di tanto in tanto torna in Italia in un’isola con una comunità armena a Venezia. Per noi è un’apparizione e la risposta data da Caterina un minuto fa era un indizio divino, una nuova carezza rassicurante sulle nostre teste disorientate. Ovviamente conosce don Claudio, il nunzio apostolico delle tre repubbliche caucasiche che avevo conosciuto anni prima a Roma, nominato vescovo qualche anno fa. Ci racconta che lì la vita è difficile. L’acqua arriva soltanto per due ore al giorno, dalle 7 alle 9 del mattino. L’illuminazione pubblica è un lontano ricordo. Ci spiega anche le croci che abbiamo visto arrivando: “Le fanno loro, i contadini di qui. Gliel’ho insegnato io, sono molto devoti”. Prosegue: “Questa zona, tutto il sud della Georgia, è a maggioranza armena, ma non abbiamo ambizioni separatiste”. Colgo la personificazione del racconto, parla da armeno. “Ci basta il Nagorno Karabakh, prima c’è da vincere quella!” esclama aprendosi in un sorriso, nonostante il gran numero di morti costata quella guerra. Il nostro programma è completamente saltato, Vardzia è ormai irraggiungibile. Ripartiamo con la benedizione, quanto mai ben accetta, di padre Gregorio. Dopo pochi km inizia finalmente l’asfalto ed in pochi minuti arriviamo nella periferia di Akhalts’ikhe. Siamo costretti a fermarci qui. Torna la luce, anche qui ci sono molti ragazzi in giro che stavolta ci notano, ci salutano. Seguendo le indicazioni della guida, cerchiamo la White House. Nemmeno un cartello, giriamo tra mille vicoli, alcuni sterrati, altri con grandi, profonde buche segnalate con un giro di gesso intorno. Alla fine un ragazzo si offre gentilmente di accompagnarci. Ci precede con la macchina. Entro, non c’è nessuno, ma la portiera notturna mi fa: “Mi spiace, ma siamo completi” Che strano. Il ragazzo è quasi mortificato, ci offre ospitalità a casa sua, ma preferiamo rifiutare. Ci porta all’Hotel Mirage, anche se sembra più una casa privata. Esce una signora, visibilmente disturbata da questa improvvisata alle 23 passate. Si mettono a parlare in georgiano, poi la signora si rivolge a me in russo: “50 lati la camera” con sottinteso anche “prendere o lasciare”. Siamo stremati dalla giornata, i km, la fatica, lo stress dell’arrivo in notturna, la strada pessima degli ultimi km, il Paese sconosciuto. In altre parole, accettiamo senza battere ciglio anche se non sappiamo nemmeno a quanto corrispondono, non abbiamo ancora cambiato.
La stanza è bella, ben arredata, accogliente. La doccia mi rigenera. Proviamo a fare un piano per i prossimi giorni. Non so bene dove andare, ho alcuni luoghi in testa, ma niente di particolarmente definito. Vedremo meglio domani, per ora andiamo a letto. È quasi l’1 di notte, ora georgiana. 01/08/2007 - “... e con Baffone”
Ci arrampichiamo sui fianchi di una collina, a volte entriamo in un bosco, altre attraversiamo una piana coltivata. Incrociamo qualche contadino a dorso di mulo o su un carretto. Dopo una mezz’ora vedo spuntare tra gli alberi la punta conica di una cupola. Il cancello in metallo è aperto, entriamo al seguito del tassista che si propone come guida.
Da pochi anni sono tornati dei monaci. Prima dello scioglimento dell’Unione Sovietica era presente un solo monaco, ora sono una ventina. Ne vedo un paio chini davanti ad un fontanile lavando vestiti e con un grande cocomero, forse tenuto in fresco. Torniamo in città, carichiamo la moto e partiamo alla volta di Gori, città natale di Stalin. Uscendo dalla città per fortuna trovo un distributore con benzina a 91 ottani. Il fondo è pessimo, si salta in continuazione, ma il panorama è molto bello. Il paesaggio è quasi alpino, come vegetazione, rocce, imponenza. Corriamo quasi sempre nel fondo di una stretta gola. La strada gioca a rimpiattino con il torrente che l’ha scavata: lo vediamo a destra, poi passiamo un ponte e ci saluta a sinistra, un altro ponte e ammicca di nuovo a destra, e così via.
Al tavolo a fianco sono seduti due uomini. Gli chiedo notizie sul vino, ne hanno una grande caraffa da cui attingono in continuazione. Mi invitano a bere. È aspro, con un retrogusto dolciastro. Sicuramente è genuino, senza particolari lavorazioni. Immagino anche che duri poco, va bevuto subito. Continuano ad offrirmene, ma al secondo bicchiere rifiuto: “Guido la moto, devo fare ancora tanti km!” esclamo, cercando la loro approvazione. Per tutta risposta insistono ed il più grosso tira fuori dal portafogli una tessera. Non leggo il georgiano e mi spiega, in russo: “Sono il capitano della polizia della zona, non ci sono problemi!” scoppia a ridere e mi offre un altro bicchiere. Accetto, ma poi rifiuto tutti gli altri inviti e brindisi. Il fondo stradale migliora, forse per l’alcol. Usciamo dalle montagne ed iniziamo ad attraversare una pianura poco interessante. Il caldo aumenta. Caterina sta poco bene con l’intestino, ci fermiamo un paio di volte al lato della strada. L’ingresso di Gori ci accoglie con un paradosso sotto forma di cartellone pubblicitario. Almeno per me che ricordo la storia. Gori, infatti, è la città natale di Stalin, mentre poco dopo il bivio dalla strada statale troneggia un cartellone 9x6 metri con il presidente georgiano che stringe la mano a Bush, mentre la didascalia recita un qualche pensiero all’eterna amicizia ed all’alleanza georgiano - statunitense. Il tutto anche alla faccia del vicino Putin, ostile a questa relazione politico - economica. La città è carina, tutto sommato ben tenuta, il castello che domina la parte centrale, a lato del fiume, è integro e d’effetto. Chiedo la direzione per il museo di Stalin e dopo qualche giro arriviamo. Si trova alla fine di un lungo giardino che accoglie anche la ricostruzione della sua casa natale. L’edificio è monumentale, classicheggiante, con alti colonnati e decorazioni sobrie. Marmo grigio - bianco. L’androne è ombroso, sembra di entrare in una chiesa, tutto trasmette solennità e rispetto. Tranne un poliziotto che subito mi chiede qualcosa per parcheggiare la moto nel retro, togliendola dal marciapiede dove l’avevo lasciata. Saliamo l’ampio scalone sotto lo sguardo severo, ma paterno, di Josif Vissorionivich Dzhugashvili, vero nome di Stalin (da “stal’”, acciaio), la cui grande statua sorveglia e saluta i visitatori. Purtroppo siamo quasi in chiusura, il sorvegliante ci fa fretta, anche se ci offre di aprire una stanza normalmente chiusa, se lo vogliamo. Il museo è composto da un’infilata di alcune grandi sale, colme ai bordi delle pareti, appesi sulle pareti stesse ed al centro delle stanze, di reperti, scritti, doni ricevuti, articoli, libri, fotografie e quanto sia possibile ricondurre in un modo o nell’altro a Stalin. Non c’è un vero filo logico, si mischiano ricordi di gioventù alle ultime riunioni ed apparizioni. La stanza in fondo all’infilata di sale ospita vari ricordi della Grande Guerra Patriottica, come Stalin aveva ribattezzato e con lui l’intera Unione Sovietica e la Russia odierna, la Seconda Guerra Mondiale.
Poi, il clou del museo e della visita. Una specie di vestibolo nasconde l’ingresso, e con esso luce e suoni esterni, del mausoleo vero e proprio, la sala reliquiaria per eccellenza. Si apre una stanza rotonda, con al centro un grande emiciclo di sottili colonne d’ottone. Più alte sul retro, da dove si entra, via via più basse a lasciar scoperto e visibile il contenuto. L’emiciclo occupa gran parte della stanza e lascia libero solo un corridoio ai lati, raso alle mura. Tutto è nero e la luce bassa contribuisce a creare l’effetto santuario. Il corridoio da cui si entra è in salita ed è tutto un crescendo verso il nucleo della stanza. Si sale, tutto conduce l’occhio al centro della sala, le colonne d’ottone diventano via via più basse e la piccola colonna al centro perfetto della sala mostra lentamente l’oggetto posato al suo interno. La maschera funeraria di Stalin! Continuo a pensare allo stravolgimento totale compiuto sull’idea di comunismo, con questa celebrazione religiosa che nemmeno i riti più ortodossi e tradizionalisti praticherebbero (o fondamentalisti, come va di moda chiamare oggi). Un culto della personalità ancora più esagerato rispetto a quello degli odiati zar, una distanza dal popolo abissale, incolmabile. Avrei voluto venire qui quando l’Unione Sovietica era ancora unita, anche prima delle aperture disastrose compiute da Gorbaciov. Avrei voluto vedere come era allora, come veniva proposto e ancor più “usufruito”, dalla gente comune, questo museo e questa reliquia. Che poi è una reliquia “indotta”, artificiale. Una celebrazione postuma, nulla di realmente appartenuto o usato da Stalin. Nulla di cui andare particolarmente fieri. Una volta era impossibile fotografare la maschera mortuaria. Adesso, l’inserviente che mi vede immobile e silenzioso, attonito davanti all’oggetto mi esorta a fotografare, addirittura ad entrare nel “recinto” delle piccole colonne di metallo. Sacrilegio! Lo faccio più per darle soddisfazione che per reale desiderio, anche se il diritto al ricordo è un buon motivo per fotografare anche oggetti o situazioni che non si condividono. Le stanze successive smorzano l’effetto mortifero procurato dalla sala circolare. Sono raccolti altri doni provenienti dall’Estero e le colorate bandiere degli Stati amici: Vietnam, Cina, Cuba e così via. Torniamo alla fine della scalinata d’ingresso. Il ragazzo ci propone di visitare lo studio di Stalin. Ci fa entrare in una stanza abbastanza grande dove è stato ricostruito il suo ufficio al Cremlino: una grande scrivania, qualche sedia, libri, quadri. Ormai è davvero tardi, hanno già chiuso le sale principali, ci invitano a scendere. Al banco dei biglietti e del guardaroba c’è una piccola vetrina con alcuni souvenir. Prendo una magliettina molto bella, con un ritratto giovanile di Stalin mentre fuma la pipa. La misura la prendiamo a occhio, non la provo. Compro anche un paio delle piccole guide al museo, con foto e didascalie. Una per me, una per Fedro. Il ragazzo che ci ha aperto lo studio di Stalin si offre di guidarci anche all’esterno. Andiamo alla casa natale di Stalin, un minuscolo edificio di legno, ammobiliato con credenze, letti, sedie e altro. Il tutto è sormontato da un tempietto in pietra a mò di protezione.
L’interno è elegante ma sobrio, ricco di dettagli funzionali e molto curati, come le prese d’aria, i manovellismi per manovrare i finestrini, i supporti per i bagagli, i sedili. Assistiamo alla procedura di chiusura del vagone. Ogni giorno appongono un sigillo piombato alla porta d’ingresso ed al mattino verificano che nessuno si sia introdotto nella notte. Un ricordo dei tempi e delle procedure che furono. Nemmeno alla Zecca di Stato ci sarà una procedura così attenta e rigida! Sono ancora più curioso di com’era una volta, vedere, capire fin dove arrivavano. Scatto alcune foto con calma nel parco davanti al museo, poi andiamo nella piazza della statua.
Dopo la foto di rito, ripartiamo verso Tbilisi. Di nuovo, il panorama è poco interessante, piatto e pieno di abitazioni, capannoni, ecc. Solo poco prima della città si vede una bella gola scavata dallo stesso fiume che attraversa la capitale e qualche castello che sembra poggiato sul cocuzzolo di bassi picchi rocciosi. Arriviamo al tramonto. Appena mi fermo in un incrocio per controllare la guida, mi avvicina un signore sulla quarantina. Gli chiedo informazioni, cerca di dirottarmi ad una sua amica che parla italiano e può procurarci un albergo, ma siamo decisi a rimanere indipendenti. Non ci servono traduttori ed abbiamo già qualche dritta per dormire. Si offre allora di accompagnarci. Gli ampi viali cittadini sono attraversati da pirati della strada, mi sento molto insicuro. Anche il nostro amico corre parecchio, il viaggio inizia a durare tanto, attraversiamo un paio di volte il fiume. Dopo un po’ inizio a temere che ci stia portando dalla sua amica o da altre parti non richieste. Mi fermo in una grande piazza, lui prosegue. Chiedo informazioni, seguo le indicazioni, ma mi perdo in un piccolo quartiere che sembra un villaggio calato in città: piccole strade, una chiesetta ortodossa, giardini. Fuori, il caos. Torno indietro, iniziamo a vagare finchè all’ennesima indicazione, riusciamo a trovare la strada dell’ostello. Va Caterina, io resto alla moto. Scopriamo che in realtà è una affittacamere privata, Dodo. Sistema le persone in camerate comuni. Ci sono stanze da 4, da 8, da 12. Non ho la minima intenzione di dormire in questo modo, anche se costa solo 20 Lari a notte. Ho un altro indirizzo preso da Internet, vado io. Salgo all’ultimo piano di un palazzo elegante, ma completamente fatiscente: fili che penzolano, illuminazione rotta, scale e mura sbrecciate, sporchissimo. La casa di Irina sembra un bazar, ingombra dai pavimenti ai soffitti! Tappeti, quadri, armadi, poster, souvenir, mille oggetti tra i più disparati. Mi mostra la stanza dove si liberano tra poco due letti. É un altro bazar, con a malapena lo spazio per passare tra i mobili e i letti, evitando tutto quello depositato a terra. Oltre ai due letti c’è un letto a castello, ovviamente occupato. Quindi quattro persone in camera, stesso prezzo di Dodo. Bagno in comune. Esco. Con la stanchezza che ho addosso e con la prospettiva di restare 2 notti, piuttosto vado a dormire allo Sheraton! Poco più avanti rispetto alla moto vedo l’ingresso di un albergo. Ci provo. É molto elegante, bello, il personale gentile, parla inglese. Costa 70 dollari a notte. La mia determinazione di poco fa svanisce... Ci sarà pure una sistemazione decente, ma più economica! Ripartiamo a caccia di un altro nome segnalato dalla guida. Ci perdiamo, altri giri a vuoto. Siamo stanchi. Inizio a innervosirmi. Quando inizio a pensare di tornare da quello da 70 dollari, ritrovo la strada che ricordavo e dopo altri giri arriviamo all’albergo. 100 Lari la doppia! È bello, ma è troppo. Torno in strada, affranto. Ci avvicina una coppia di ragazzi, attratti dalla moto. Sono italiani! Scambiamo due chiacchiere, gli chiediamo dove dormono e ci indicano il loro albergo. È a due passi, non segnalato dalla guida. Molto più bello di quest’ultimo, costa la metà! Entriamo. Nella hall sono stravaccate due donne, un anziano, un ragazzo. Inizialmente sembrano simpatici. Cambio idea quando consegno i documenti: “Quante notti restate?” “2” “Fanno 100 Lari, pagamento immediato” “Immediato? Non ce l’ho adesso, posso pagare domani mattina?” “No, ora!” “Ma è tardi, le banche sono chiuse...” “C’è un cambiavalute qui vicino, puoi andare lì.” “Non so la strada, proprio non si può fare domattina??” “Niet!” Esco di pessimo umore, al seguito del vecchio, piuttosto antipatico. Mi porta praticamente sotto all’albergo di poco fa, dove c’è un ufficetto aperto anche a quest’ora, quasi mezzanotte. [100 € = 223 Lari] Torno, pago, penso di aver finito e potermi riposare, ma prima chiedo: “C’è un garage?” Inizia una serie di risposte che non riesco a capire. Mi spazientisco di nuovo. “Va bene, grazie, parcheggio in strada, non ci sono problemi.” Questa mia risposta scatena una nuova serie di frasi che non capisco, tranne il fatto che devo assolutamente parcheggiare la moto in un luogo protetto. “Sì, ma dove??” Alla fine il ragazzo mi fa vedere uno stanzino. Per raggiungerlo la moto deve salire i 2 gradini dell’ingresso esterno, scendere i 5 scalini che da lì portano alla sala della reception, passare tra il bancone e un armadio in uno spazio giusto per una persona, infilare una porta larga 50 cm ed entrare lì dentro, cioè in un budello stretto e lungo, tipo corridoio. Il tutto a 10 Lari a notte! Perdo completamente la pazienza, inizio a sbraitare che possono tranquillamente andarsene tutti a quel paese, che la moto possono anche rubarmela ma che un gioco del genere non lo farò mai e poi mai e che sono dei completi idioti anche solo a pensare ad una soluzione del genere. Esco fuori come un pazzo e butto all’aria il baule posteriore, a caccia del serpentone d’acciaio che ho portato per situazioni come queste. I tipi dell’albergo mi guardano, cercano di convincermi. Cate cerca di convincermi. Io continuo a legare la moto. Serpentone con bloccadisco. Altro bloccadisco. Allarme. Sono tranquillo. E se dovessero rubarmela (non ci credo), pazienza, ci sono i treni, gli aerei, gli autobus. Non cedo ad una assurdità del genere. Vedono che sono fermamente deciso a lasciarla per strada. Non so se per il mancato guadagno o perchè sono realmente preoccupati per la sorte della moto, avanzano un’altra proposta. “Ok, puoi parcheggiarla qui” e indicano il piccolo spazio subito dopo la porta d’ingresso dell’albergo. “Sì ma a quanto?” Ci pensano: “10 Lari” “Sì, ma per i due giorni!”, rilancio. “OK!” Anche in questo caso pagamento immediato. Sono esausto e questa messinscena mi dà il colpo di grazia. Pago e scappo di sopra, in camera.
Ci riprendiamo godendoci per un po’ il panorama, poi torniamo dentro al forno per metterci a letto, esausti. È l’una di notte, riprendiamo qualche contatto via SMS, ancora nessuna notizia di Remo. |
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