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Giornate: 02/08/2007 “Tbilisi la Guerriera”
“Se venite in pace, berremo assieme. Se venite in guerra, vi darò filo da torcere”. Questo il messaggio, molto esplicito. Mi ricorda altre statue simili. Kiev oppure l’immensa Madre Patria di Stalingrado e varie altre. La città vista dall’alto sfoggia tetti diroccati, nuovi, moderni, antichi, in tegole rosse, in cemento, piatti, a punta. In un angolo della piazza dove ci siamo fermati c’è un ragazzo che lì per lì non capisco cosa stia facendo. Poi guardo meglio: il secchio vicino a lui, la carriola, il mucchio di terra, le corde, i detriti. Ci sono dei restauri, ma da quando ci siamo fermati, circa un’ora, non ha fatto altro che stare seduto. E non è l’ora di pranzo.
Piombiamo nel quartiere ebraico, con una grande sinagoga ed altri segni della loro cultura. Da qui partono un paio di strade europeissime: perfettamente pavimentate, pulite, con locali, uno attaccato all’altro, eleganti, di tendenza. Ognuno spande nell’aria della musica, in accordo con lo spirito del locale stesso. In pochi metri si miscelano jazz, lounge, blues, rock. Sono tutti assolutamente vuoti, ma è ancora presto. Almeno spero. Per loro, per noi. Ci sediamo per una birra e un po’ di chiacchiere in relax. Riprendiamo la passeggiata, sempre seguendo la guida. Passiamo a fianco di una chiesa che ci incuriosisce. È diversa dalle altre viste finora. Entrando capiamo che è di rito armeno. Non capisco se è in corso una messa. Due giovani monaci cantano e salmodiano uno in controcanto rispetto all’altro, poi un anziano chiude con la sua voce greve, da rispettare. Un paio di ragazze in fondo alla navata non avvertono questa sensazione. Si beccano un’occhiataccia e un richiamo dal monaco anziano. L’incenso invade l’aria, la luce crea effetti mistici sulle pareti completamente affrescate. Il canto è ipnotico, quasi un mantra. Usciamo, ci arrampichiamo in una salita sempre più ripida. Arriviamo al castello, il punto più alto della città. All’interno della cittadella, racchiusa nelle mura, c’è un’altra chiesa, più moderna dell’altra visitata poco fa, meno mistica. Però è piena di persone. Tutti georgiani, immagino. Devono essere rimasti pochi armeni anche qui. Scendiamo alle spalle della collina, arriviamo davanti ad un famoso bagno termale. L’ingresso è identico alle medrese che vedremo in Uzbekistan. Due grandi torri al lati di una facciata completamente decorata di maioliche smaltate di azzurro, verde, giallo, viola, bianco, rosso. Caterina vuole vedere la sala principale. La cassiera la fa passare, un’altra l’accompagna allo spogliatoio, ovviamente il femminile. Alcune donne, generalmente grasse, sia giovani che anziane, si stanno spogliando. C’è odore di acqua termale, il pavimento è maiolicato, meno affascinante rispetto all’esterno. Assecondiamo la botta di sonno e torniamo in albergo, appena dopo il ponte. Incrociamo i ragazzi di Firenze, scambiamo alcune impressioni sull’Asia Centrale, nostra meta principale e segniamo altre dritte che man mano gli vengono in mente, compreso un ristorante per questa sera. Alle 20 siamo di nuovo fuori. Metro, usciamo alla stessa fermata di stamattina, ceniamo al Samaja. I tavolini attorno alla bella fontana sfruttano la luce dei lampioni, arancione. Mangiamo abbastanza bene. Torniamo alle stradine coi bar visti nel pomeriggio. Sono pieni e la musica dei locali migliori è dal vivo. Mi lascio attrarre da un gruppetto jazz davvero bravo. Chiediamo un assaggio di cocomero. Arriva un vassoio colmo: farò pipì tutta notte! Tornando, sul ponte, incrociamo molti cani randagi. Una dozzina, quasi tutti da un lato. Siamo proprio su quello. Ci ignoreranno? Una selva di ringhi, non appena accenniamo ad avvicinarci, mi convince in un attimo. Meglio i tre o quattro cani dall’altro lato! Facciamo le valigie fino all’1 e mezzo di notte. Avendo saltato Kutaisi abbiamo un giorno in più. Lo passeremo in Armenia: il visto, stranamente, inizia proprio un giorno prima! Quello dell’Azerbaijan, invece, è preciso, quindi siamo “costretti” a recuperare in Armenia, che è anche il Paese, dei tre caucasici, che mi attira e incuriosisce di più. 03/08/2007 “In Armenia, la Generosa”
Oggi dovremmo andare a Erevan. Come al solito non sappiamo dove dormiremo. Come al solito speriamo di trovare in fretta qualcosa di bello ed economico. Andiamo a fare colazione nel mini quartiere “europeo”. Cerchiamo a lungo quello meglio esposto, con le poltrone dall’aspetto più comodo, con la musica più piacevole e dall’aria più attraente. Ci decidiamo per un locale che ha ricavato alcuni tavolini all’interno di un vagone di tram ed altri dalle basi di vecchie macchine da cucire Singer.
Pago con carta di credito, abbiamo finito i contanti. Mentre mangiamo arriva una comitiva rumorosissima. Dopo averli ascoltati un po’ capiamo che sono israeliani. Si addensano attorno ad una porta da cui inizia una scalinata verso il basso, sottoterra. Mi avvicino, incuriosito. É un forno. Nei grandi forni tandoori cuociono il tipico pane a racchetta, morbido e saporito e i tanti tipi di rustici ripieni di patate, verdure, cipolle. Ne prendo un paio per la giornata. Usciamo dalla città abbastanza rapidamente. Ci arrampichiamo sulle colline che circondano Tbilisi come una grande conca. Il fondo, se si riesce ad evitare le buche più dure, come cantava Battisti, non è male. Il paesaggio non è particolarmente interessante: pochi alberi, una vaga steppaglia giallo-marrone, alcuni villaggi male in arnese. Prendiamo la strada secondaria che, dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica e la disgregazione in tante piccole repubbliche, è diventata la principale verso l’Armenia. Fortunatamente in molti punti è riasfaltata di fresco. La campagna, quella tipica di fattorie e campi coltivati, riprende il sopravvento.
In tutto l’uscita dalla Georgia e l’ingresso in Armenia prende poco tempo, un’ora e mezzo al massimo. Riparto immediatamente, libero e felice come un uccello caduto temporaneamente in una rete che si è appena liberato. Dopo un km ci fermiamo per girare la cartina, metterci il casco e il resto. Qualche metro dopo c’è un gommista con bar annesso. Subito escono un paio di ragazzi, seguiti poco dietro da un signore di mezza età. Iniziamo a conversare, anche Caterina, con il più piccolo dei ragazzi che sta studiando inglese al liceo. “Fermatevi a prendere qualcosa!” propone lui. “No, grazie, è già tardi...” “Su, solo un tè, un caffè, un succo di frutta” insiste. “Davvero, dobbiamo arrivare fino a Erevan!” “Ma solo un tè, vi riposate un attimo e ripartite!” “È tardi, arriveremo di notte...” “Dai, cinque minuti e ripartite!” dice quasi dispiaciuto che non vogliamo accettare la sua ospitalità. “Ok...” Gli torna il sorriso sulle labbra, ordino anche per Caterina. Oltre al tè che ho chiesto, ci porta anche due aranciate, che decidiamo di non toccare per non approfittarcene. Mi mostra la sua casa, ricavata sul retro del bar-officina: una bassa abitazione ad un piano, con almeno 5 o 6 stanze, a giudicare dalle dimensioni e dalle finestre che vedo. “Volete andare in bagno, farvi una doccia? Potete andare nel bagno di casa mia!” Io declino, Caterina usa solo la toilette. I figli hanno 15 e 18 anni, vanno entrambi a scuola e aiutano il padre in officina, anche se il più piccolo sembra insofferente. Il grande, invece, è soddisfatto, si vede che continuerà il lavoro del padre, mentre il piccolo forse vorrebbe cambiare vita. Sono seduti ad un tavolo giocando a “nardi”, l’onnipresente gioco da tavolo che noi chiamiamo “backgammon”. Chiacchieriamo alcuni minuti, anche per far freddare il tè, come sempre a temperature ustionanti, parliamo dell’Armenia, dell’Italia, dei viaggi, di cosa fanno, di cosa facciamo, di dove possiamo cambiare dei soldi, delle strade migliori per arrivare a Erevan. Dopo una mezz’oretta dobbiamo proprio salutarli. Su indicazione dei nostri amici torniamo alla dogana per cambiare dei soldi, in nero, nel piccolo spaccio alimentare che rifornisce i poveri camionisti che si fermeranno lì per molte ore, giorni. [1 € = 450 DRAM] Tornando salutiamo al volo la famiglia di prima e imbocchiamo la strada per Erevan. A giudicare dalla cartina sarà quasi tutta montuosa. Superiamo alcuni contadini che vendono frutta al lato della strada. Caterina vuole delle pesche, ci fermiamo. Inizialmente capiscono che vogliamo l’intero secchio, ma gli mostriamo la moto, non sapremmo proprio dove metterle! “Quanto costano queste?” e gli metto in mano 5 pesche. Si guardano tra loro, scoppiano a ridere, imbarazzati. Me le ridanno, nel gesto di regalarmele. “Quanto costano??” insisto. “Niente, non costano niente, prendetele!” rispondono quasi increduli, come a dire “come si fa a pagare per 4 pesche??” Siamo noi gli increduli: questa gente è qui per vendere i pochi frutti della loro terra e del loro lavoro, che regalano a uno dei pochi turisti in transito...
Seguiamo il fiume Debed in una stretta gola. Il panorama è splendido, basse colline fittamente boscose, di tanto in tanto qualche piccolo villaggio arrivato dall’800. Selvaggio, a parte quando incrociamo degli orribili, immani impianti chimici spesso in disuso. E quando non lo sono è ancora peggio per via delle nubi tra il beige e il nero che spandono nell’aria. Scendiamo e saliamo rapidi come la corrente, a volte incrociamo la traiettoria del Debed grazie a piccoli ponti. Di tanto in tanto la strada diventa bucata come una gruviera, allo stesso modo della prima città in Georgia: buchi perfettamente quadrati, più o meno grandi e profondi. Prenderne uno equivale quasi sicuramente a cadere. I tunnel non sono mai illuminati. Entrarvi è come ritrovarsi nel cuore della notte dopo aver avuto una lampada puntata fino a un secondo prima, ad occhi disperatamente aperti cercando di cogliere qualsiasi segnale utile a proseguire: un riflesso, un faro. Dentro un tunnel si possono incrociare carretti ovviamente senza luci, TIR che passano a malapena e auto, spesso anch’esse senza fari, pedoni, animali che Dio solo sa cosa fanno dentro un budello buio come la pece, voragini nell’asfalto già normalmente in condizioni peggiori dell’esterno. Puntiamo decisamente a sud verso Erevan. La strada sale oltre i 2500 metri su un immenso altopiano. L’orizzonte si allarga a dismisura, chiuso in lontananza da montagne ancora più alte incappucciate di neve o sovrastate da un cielo minaccioso, nerissimo. Il tempo peggiora, fa quasi freddo. Anzi, fa freddo! Inizia a scendere una pioggia prima leggera, poi abbastanza fitta. Quando l’altopiano sta per finire il tempo migliora e prima della grande discesa verso Erevan, come dal bordo di un balcone, dall’alto, compare di nuovo l’Ararat. Vecchio amico, visione consolante, familiare. Siamo quasi arrivati! Ci immettiamo in una specie di autostrada che ci accompagna fino ad una classica periferia di palazzoni male in arnese. Poi collassa in una stradina soffocata dal traffico. Ci ritroviamo in centro abbastanza rapidamente, ora inizia la lotteria dell’albergo! È piuttosto tardi, tra poco farà buio e il cielo minaccia pioggia. Armato di walkie-talkie vado al primo B&B segnato sulla guida. Apre la porta una signora gentile, mi rendo subito conto che è un appartamento. Temo di nuovo di trovare solo sistemazioni come quelle di Tbilisi, in case iper-affollate e camerate comuni. Invece ha un paio di belle stanze doppie, ma sono entrambe occupate. Vorrei provare il B&B esattamente al piano di sopra, almeno secondo la guida, ma la signora mi “sequestra”, vuole piazzarmi da una sua amica. “Può affittarti addirittura un intero appartamento!” dice ammiccando mentre le telefona. Intanto parlo con la figlia, una ragazza carina, consapevole di esserlo, felicemente fidanzata con un ragazzo di Putignano. Un altro aspetto della globalizzazione. Parla abbastanza bene l’inglese e il francese, oltre ovviamente al russo. Sta imparando l’italiano. La signora si accorda per incontrarci in un incrocio qui vicino. Scendo, sotto lo sguardo vigile della signora, quindi definitivamente perdo l’occasione di andare di sopra a vedere se hanno posto. Vado all’incrocio, aspetto 20 minuti. Intanto il giorno si fa sempre più buio, il vento si alza, inizia a cadere qualche rara goccia. Mi si avvicina una vecchina piegata a chiocciola, con la spina dorsale collassata. Vende pochi semi, hobby nazionale in tanti Paesi. Le compro un cartoccetto, mi benedice in russo, scambiamo qualche parola. È viva, presente. Confesso che persone così pronte e brillanti mi impressionano ancora di più... È l’ennesima vittima dello scioglimento dell’Unione Sovietica e del suo sistema di protezione sociale. Non c’è traccia dell’amica della signora di poco fa. Torno indietro, seccato. Sul citofono non trovo il nome dell’altro B&B. Rassegnato, suono di nuovo a quello di prima. Di nuovo la signora, di nuovo salgo, di nuovo figlia e signora parate ad accogliermi. “Non è venuto nessuno!” esclamo. “Com’è possibile...riprovo a telefonarle” risponde con un tono tra l’incredulo e il sorpreso. Non so con chi parla, fatto sta che ho un nuovo appuntamento. Stesso posto, stavolta, mi pare di capire, con il nipote di questa fantomatica signora. Altra telefonata, contrordine. Il nipote arriva qui. Mi accomodo, inizio a parlare in russo con la signora e un po’ inglese, un po’ francese con la ragazza. Questa ha incontrato quattro anni fa, qui a Erevan nel suo appartamento / B&B, il suo fidanzato di Putignano. Mi racconta una storia di un grande entusiasmo di lui, che inizialmente doveva fermarsi una notte, ma che poi ha iniziato a rimandare giorno dopo giorno la partenza, fino a restare una settimana filata, di una sua chiusura iniziale, di rifiuti tra il civettuolo e il pragmatico, finchè la protervia di lui, tra decine di telefonate, lettere ed email, non ha superato le sue remore ed hanno iniziato a frequentarsi. Traduce brevemente in russo anche alla madre, che ascolta e annuisce soddisfatta, mi guarda con lo sguardo felice. Vorrebbero sposarsi, ma è difficile ottenere i documenti, il permesso. Ovviamente da parte italiana. Dopo alcuni minuti suonano. Sale un ragazzino sui 14 anni, parla un discreto inglese. Si rifiuta di parlare in russo, anche se lo sa. É con un amico che invece è il viceversa: poco inglese, meglio col russo. Dipenderà dalle famiglie, mi dico. Torniamo verso l’incrocio che ormai conosco a memoria, lo superiamo e ci infiliamo in un piccolo tunnel sotto a un palazzo. Entriamo in un grande cortile creato da quattro lati dei classici palazzoni sovietici. Ormai è buio, ma le luci sono spente, chissà se si accenderanno mai. É pieno di bambini e ragazzi che giocano e parlano. Ci avviamo tra quelli, poi ci infiliamo in un portone scalcinato (come gli altri, del resto). Anche l’interno è cadente, scrostato, arrugginito, male illuminato. L’ascensore è poco più di una cassa che sale e scende. L’appartamento è come il resto del palazzo, cadente. Non c’è l’acqua calda. “La doccia è rotta, ma quando volete farla venite da noi, abitiamo proprio qui accanto” e fa un gesto vago verso il corridoio. Il tutto per 5.000 DRAM a testa, una dozzina di euro. Non ci siamo... gli dico che ci penso e che torno dalla mia ragazza. Sono affranto. Fuori ormai è buio, i lampi sono sempre più vicini, il vento è fortissimo, inizia a piovere. E siamo ancora senza un tetto per la notte. Andiamo nell’ostello che ci avevano indicato questo pomeriggio appena arrivati, nella piazza principale. Completo. Il ragazzo alla reception ci propone però l’appartamento di un suo amico. “Ok! Dov’è?” chiedo senza troppa convinzione. “É difficile da raggiungere, può venire qui, tra mezz’ora...ma con il taxi. Che gli dico?” mi chiede per capire se siamo intenzionati oppure no. Per loro, sicuramente, quel taxi è un investimento da valutare. “Digli che se ci piace ci fermiamo, altrimenti ce ne andiamo!” rispondo non troppo conciliante. Sono innervosito da tutte queste difficoltà, decisamente non me le aspettavo. Mi ricorda la gita in Sicilia di un paio di anni fa, dove, anche se fuori stagione, trovavamo sempre tutto occupato e vagavamo per ore alla ricerca di un posto dove dormire. Come allora, decido di sacrificare qualche ora alla ricerca via Internet di sistemazioni per la notte. Al piano interrato di questa struttura moderna c’è la sala pranzo e un paio di computer. Salgo: “Posso navigare?” “Certo! Attivo una password al computer di destra.” Scendo, la password non funziona. Torno su. “Ah! Prova quest’altra password all’altro computer!” Torno giù, la password non funziona. Torno su. “Strano...prova di nuovo al primo computer tra 10 minuti.” Torno giù, la password non funziona. Torno su. “Non so, forse ci sono problemi sulla linea, mi spiace...” Ok...provo a restare calmo, ma sentire grevi voci romanesche nella sala non mi aiuta. Finalmente arriva il ragazzo. Seguiamo il taxi nella notte, sotto una pioggia battente. Dopo una decina di minuti arriviamo sotto ad un altro palazzone. Stesso ingresso cadente, scrostato, diroccato. L’ascensore non c’è. Saliamo al quarto piano. L’appartamento, stavolta, è decente: ingresso, bagno, cucina, salotto, camera da letto. Iniziamo la contrattazione, Arkadi non parla una parola di inglese, ricade tutto su di me, stanchissimo. Parte da 10.000 DRAM a testa. Troppo! La cucina non la usiamo, non sporcheremo nulla, solo dormire per due notti. Dopo lunghe contrattazioni arriviamo a 7.000 DRAM a testa, non uno di meno. Chiediamo gli asciugamani, le lenzuola. Chiama al cellulare la madre che arriva dopo pochi minuti. É una furia, molto simpatica. Anche lei non parla inglese. É contrariata dal prezzo così basso, ma Arkadi la convince. Vogliono i soldi anticipati. Mentre andiamo a prendere gli asciugamani, passo a cambiare i soldi. Lei, intanto, sistema e pulisce la casa. Caterina resta con lei, all’asciutto. Noi, invece, ci avviamo a piedi sotto l’acqua, evitando pozzanghere larghe quanto i marciapiedi, sotto rari lampioni che disegnano piccoli cerchi gialli tra gli alberi ai lati delle strade. Chioschi, qualche bar ancora aperto. Facciamo una lunga camminata, sotto una pioggia fitta, regolare, sistematica. Arriviamo al suo palazzo, arranco dietro di lui fino al settimo piano, senza ascensore perchè rotto. Anche le luci ai piani, uno sì, uno no e procediamo a tentoni. I piani sono altissimi. Quando entro in casa sua verifico che gli appartamenti hanno soffitti altissimi che consentono comodi soppalchi. L’appartamento dei genitori di Arkadi è arredato molto bene, coperto di libri e quadri ovunque. Lo zio è un pittore famoso, Samvel Hambardzumyan. Ne è molto orgoglioso, mi mostra le locandine delle sue mostre tenutesi in tutto il mondo, Italia compresa. Ora vive negli Stati Uniti e continua a fare mostre in giro. Ogni tanto torna in Armenia. “In questo palazzo siamo tutti artisti, anche io!” esclama fieramente mentre mi mostra la scultura di donna, in argilla, a cui sta lavorando ed alcuni disegni fatti tempo fa. Mi fa affacciare da un’alta finestra. Il panorama sulla città è bellissimo. Continuiamo a chiacchierare, uscendo quasi ci dimentichiamo su una sedia l’unico motivo per cui siamo venuti qui: gli asciugamani e le lenzuola! Torniamo, pioggia, cambio in un ufficetto aperto 24h, pioggia, mi mostra la stazione della metropolitana vicino casa, pioggia. [1€ = 455 DRAM] Troviamo Caterina e la madre impegnate in una conversazione. La prima in inglese, la seconda in russo! Eppure ha capito un sacco di cose, come il fratello di Arkadi che ha combattuto in Karabakh 5 anni fa, Arkadi stesso è stato là pochi anni fa, per pochi mesi. Poi i loro studi e altre chiacchiere. La signora è davvero simpatica, un po’ matta. Ci mostra lo scaldabagno. Sopra la vasca c’è un cassone in plexiglass, trasparente. Si riempie con un piccolo tubo controllato da un rubinetto dedicato. Per funzionare l’acqua deve raggiungere un certo livello, poi si può accendere un interruttore che attiva una resistenza. Ci dice in quali ore manca l’acqua, consigliandoci di fare scorta, lo scopo principale di questo curioso marchingegno. Ci chiede se riusciamo a far funzionare la lavatrice. Le istruzioni sono solo in inglese. Un modello manuale che non avevo mai visto, ma che Caterina ha visto in passato in campagna. Non ci riusciamo, poi Caterina trova il modo per scaricare l’acqua sporca, esultiamo! É tardissimo, vogliamo mettere un punto alla giornata. Inizia il balletto della moto: dove la parcheggiamo? Per me, come al solito, va benissimo dove l’ho lasciata poco fa. Per loro, come sempre, è semplicemente assurdo. Pensano al vicino di casa. Nonostante l’ora tarda, suonano. Apre, è un gigante, dalla faccia non particolarmente sveglia. A ben guardarlo, anche un po’ inquietante. Scendiamo, apre il suo box. É abbastanza grande, ma dice che domani deve metterci la sua macchina, quindi la devo sistemare sul fondo. Il pavimento è molto accidentato e verso metà si apre una profonda buca, per riparare l’auto da sotto. Già per entrare, tra mezzi scalini e buchi vari, ho molte difficoltà. Proviamo a metterla sul fondo, parallela al muro, ma il box è troppo stretto. Mi innervosisco. Voglio uscire, ma non ci riesco, è troppo difficile, rischio di cadere. Non mi aiutano, non capisco se perchè stanno discutendo tra loro di come possiamo fare, oppure se vogliono convincermi in questo modo a lasciarla qui. Alla fine riesco, la rimetto nel punto esatto dov’era fino a poco fa. Tiro fuori dal baule posteriore il necessario per legarla a un palo. Vengono da me, in un remake di quanto accaduto a Tbilisi pochi giorni fa. Mi propongono l’androne delle scale. Mi chiedo davvero come possano essere così distanti dalla realtà! Entrerebbe a malapena una bicicletta! Altre chiacchiere in armeno tra loro. Per non farmi capire, mi suggerisce la mia paranoia. Poi di nuovo in russo, per invitarmi ad andare in una stajanka, un parcheggio lì vicino. Chiamiamo il custode, che non vuole perchè poi il suo principale gli farebbe problemi. Al limite, posso lasciarla in un angolo, ma poi domani mattina alle 9 la dovrei portar via. Non se ne parla! Riprendiamo a discutere sul garage del vicino. Alla fine ottengo di poterla parcheggiare “normalmente”, non schiacciata sul fondo. 10.000 DRAM per due notti, quasi come l’appartamento! Sono stanchissimo, cedo, torno in casa. Andiamo a dormire, sono le 2 e mezzo del mattino... 04/08/2007 “Erevan Relax”
I lavori furono interrotti l’anno in cui ci fu un gravissimo terremoto, per poi essere ripresi un paio di anni fa, dopo quasi 10 anni, per dimostrare il ritrovato ottimismo e benessere. Ovviamente la finalità è cambiata, come il lontano obelisco che vedo in cima. La parte bassa è abbellita da fontane e aiuole. Ogni piano può essere raggiunto dalla scalinata esterna, oppure da una scala mobile. Il gran caldo e la prospettiva delle centinaia di gradini spingono Caterina all’interno, mentre io proseguo all’esterno, guardandomi intorno, in basso e soprattutto le sculture e le fontane sempre diverse. Ad ogni piano c’è un ombrellone che dà un po’ di riparo ad un sorvegliante che controlla che nessuno danneggi la struttura o chissà cos’altro. I turisti sono molto pochi, ancora meno quelli che sembrano provenire da fuori Erevan. Verso l’alto la struttura è sempre meno rifinita a causa dei lavori ancora in corso, finchè non si arriva ad un cratere aperto. La scalinata è interrotta, manca ancora il raccordo tra la parte bassa del monumento, appoggiata al terreno e quella alta, sulla ripida collina. Dovrà essere una struttura sospesa nel vuoto, ma per il momento c’è solo un enorme cantiere a cielo aperto, tipo miniera. Mi dicono che gli ascensori e le scale mobili non funzionano più da un paio di piani. Chissà dov’è Caterina. Proseguo l’arrampicata, il percorso previsto passa fuori dal cantiere, lungo passerelle che corrono a fianco delle eleganti villette che punteggiano la collina. Si arriva sotto all’enorme basamento della terrazza che domina Erevan, sovrastata dall’obelisco con in cima un simbolo che vuole significare la ritrovata libertà dell’Armenia. La vista è ampia, ma finisco per impressionarmi più per il lavoro immenso che per il panorama, visto che l’Ararat è incappucciato e la città dall’alto non ha grandi spunti. A fianco dell’obelisco c’è un basso mausoleo, ora chiuso, che sicuramente in passato ospitava qualche reliquia sovietica o più semplicemente un classico memoriale delle vittime della Grande Guerra Patriottica.
Anche l’interno è progettato come un museo, ad ogni piano ci sono statue, sculture e quadri alle pareti. Tutto è in marmo, molto curato. Nessuna traccia di Caterina, arrivo alla base, poi la vedo seduta su una delle panchine. Mi seguiva dal basso, in lontananza. Il caldo è intenso. Compriamo un paio di bevande gelate, poi andiamo verso il Teatro dell’Opera. La struttura rotonda, classicheggiante, è circondata da bei giardini pubblici e piazzette. Facciamo alcuni giri intorno, poi proseguiamo ad anello nelle strade intorno. Passiamo davanti ad un Internet Cafè. Entriamo nella piccola sala con 4 file di 5 pc ciascuna, sembra di essere nella pancia di un aereo. Con noi, altri 4 o 5 ragazzi. Navighiamo, facciamo alcune ricerche, annotiamo degli indirizzi, iniziamo a mandare qualche email per i prossimi giorni. Mi preoccupa soprattutto Baku: nelle settimane passate non sono riuscito a trovare granchè e la guida dice esplicitamente che è difficile dormire a prezzi economici. Restiamo un’ora, accompagnati da una sola ed unica canzone suonata ripetutamente, in maniera ossessiva, dal pc della ragazza del Cafè. Chissà chi canta. Compriamo il pranzo in un supermercato con cambiavalute annesso [1 € = 460 AMD]: rustici ripieni di patate o altre verdure o formaggio, dolci di miele e nocciole. Torniamo a mangiare all’Opera. Questa è inserita in una piazza circolare, pedonale, poco più grande, tappezzata da una lunga, unica panchina di forma anch’essa circolare. Ci sediamo per mangiare e intanto osserviamo la varia umanità che bazzica. I soliti venditori di sementi, più o meno poveri. Questi ultimi hanno poca varietà e pochi semi, a volte anche solo 2 o 3 cartocci che sperano di vendere a qualcuno. I primi, più benestanti, hanno banchetti più grandi e grande varietà di semi, più formati di cartocci da vendere. In entrambi i casi, questi ultimi sono in genere ricavati da pagine di libri. Poi ci sono alcuni ragazzi che affittano biciclette o automobiline elettriche. Arrivano due bambine mano nella mano con la nonna. Puntano alle biciclette. La più grandicella senza rotelle, quella più piccola sceglie un modello, tra quelle con rotelle, più femminile, tutta rosa, molto carina. Iniziano a girare intorno alla nonna e ad un paio di statue cinguettando felici come rondini, è bellissimo, gioisco con loro. I maschietti sono più attratti dalle automobiline elettriche. I modelli base in realtà hanno la batteria fuori uso e vengono spinte dai ragazzi stessi che li affittano. Quelle lux, funzionano da sole e lasciano mano e soprattutto piede libero al pilota di turno. Vogliamo andare al teatro, vederlo all’interno. Andiamo al botteghino, una signora di mezz’età, molto gentile, ci spiega che le ferie sono anche per loro. Vedo però una locandina di uno spettacolo, domani. “E questo” le chiedo, tra il sospettoso e il timoroso di non aver capito le lunghe spiegazioni di poco fa. “Sì, c’è domani! É un bello spettacolo!” Poi mi perdo nel chiedere dove sia l’ingresso del Teatro dell’Opera, convinto che sia la sede dello spettacolo pubblicizzato dalla locandina. “Ok! Prendo due biglietti!” Ce ne andiamo felici per la fetta di “vita comune” che faremo domani, per l’assaggio più approfondito della città. Domani dovremmo andare in giro per monasteri. Nei dintorni ce ne sono moltissimi, più o meno remoti, più o meno famosi. L’idea però di riprendere la moto dopo un solo giorno di stacco non mi attira molto, soprattutto dopo tutte le giornate appena passate in sella. Ne parliamo e decidiamo di stare a Erevan anche domani e di rimandare i giri a dopodomani, andando via dalla città e allungando in due o tre posti. So già che quindi la tappa si trasformerà in qualcosa di impraticabile, ma almeno domani ci riposiamo ancora.
Passo davanti a dei venditori di vecchie banconote in rubli, con i simboli del passato governo. Proseguo, ripromettendomi di comprarli più tardi. Voglio raggiungere Caterina che si è infilata svelta tra le bancarelle. Finalmente può cercare qualcosa per sè e gli amici!
Caterina ha un rigurgito adolescenziale quando intravede una vecchia Polaroid. “La voglio! Chiedigli quanto costa!” mi chiede accennando al vecchietto lì a fianco. Inizia una trattativa che ben presto riduce di 1/3 la richiesta iniziale. “Ma dove trovo il rullino?” chiedo preoccupato. Penso infatti che in Italia siano nella migliore delle ipotesi dispendiosi, se non direttamente introvabili. “Dove vuoi, è pieno di negozi che li vendono!” mi rassicura, convinto ma poco convincente, il signore. Ok, affare fatto, per circa 10 euro la macchina è nostra e un sorriso a 32 denti si apre nel viso di Caterina. Su un lenzuolo intravedo una guida sovietica su Erevan, in una traduzione francese, in cui mi ero già imbattuto nelle mie ricerche su Internet prima della partenza.
Cambiamo qualche euro [1 € = 460 AMD], curiosiamo in una libreria. Caterina mi impedisce di comprare l’ennesima, bellissima cartina di Erevan.
Questo, invece, è un toro, costruito anch’esso con resti di auto e moto. Arriviamo nella piazza dell’Opera, iniziamo a cercare il ristorante per la sera. Vorremmo trattarci bene. Quelli che vediamo, di cui avevamo preso gli indirizzi su Internet, non ci piacciono. O troppo turistici o non ci ispirano. Oppure non li troviamo del tutto. Un altro matto, ubriaco, ci si mette alle costole. I piedi sono lessi, decidiamo di prendere un taxi. “Dove?” “Via ...”, gli dico l’indirizzo di un altro ristorante trovato su Internet. “?”, non sa dove sia. “Il ristorante ...”, gli dico il nome. “?”, non lo conosce. “Dovrebbe essere vicino Piazza della Repubblica!” Un altro scherzo di Internet? Comunque dopo avergli detto il nome della zona, sembra illuminarsi, chiama la sua agenzia per una conferma e parte a razzo. Dalle parti della piazza inizia a girare in tondo, in traverse e deviazioni. Non lo sa, ha bluffato! All’ennesimo passaggio, l’insegna di un ristorante lo convince a fermarsi: “È questo!” esclama inchiodando. Scendiamo e paghiamo, poco convinti. Il posto è comunque carino, entriamo. All’ingresso c’è un acquario, forse per scegliere i pesci da mangiare freschi. L’interno è come una lunga cantina: soffitto a botte, stretto e lungo, pietra grezza. Ai lati, molte porte, tutte chiuse! Nessuno ci accoglie, sembra di essere entrati in un sotterraneo privato. Apriamo una porta sulla destra, a caso. Tavoli, persone sedute, stanno cenando. Chiudiamo immediatamente, come se fossimo entrati di nascosto a casa di qualcuno. Nel corridoio, nessuno in vista. Proviamo un’altra porta sulla sinistra, qualche passo più avanti. Stavolta la sala è molto più grande e sul fondo riconosciamo un paio di camerieri. Uno ci viene incontro, gli dico che siamo in due e ci fa accomodare ad un tavolo sul lato opposto della sala. Escono, restiamo soli. Lo stile è identico: soffitto a botte e mattoni a vista, grezzi. Un’eleganza sobria. Il cameriere torna col menu, poi esce. Sempre chiudendo la porta. Silenzio. Un posto incomprensibile, ma i piatti proposti sono interessanti. Prendiamo un paio di zuppe tipiche armene, verdure e altro. Tutto buono. Caterina chiacchierando gioca con affarino di legno, posato sul tavolo. Arriva il cameriere: “Serve qualcosa?” chiede gentilissimo. “No grazie!” Altre chiacchiere, dopo nemmeno un minuto torna: “Sì?” chiede nuovamente. “Davvero, nulla!” rispondiamo felicemente sorpresi da tanta assiduità. Esce, sempre chiudendo la porta. Dopo un paio di minuti, di nuovo: “Tutto a posto?” “Perfetto!” “Signorina ... quello serve per chiamare il servizio!” ci dice, svelando finalmente l’arcano, indicando lo strano soprammobile di legno che Caterina maneggia da alcuni minuti. Scoppiamo a ridere, in effetti la figurina del cameriere ed alcuni segni tipo onde avrebbero dovuto insospettirci! Brandy armeno, dolcetto e siamo di nuovo in strada. La foto della Repubblica illuminata è suggestiva. Mi fermo a pensare ai terremoti sofferti da questa terra, alla sua storia, a quel marmo così simile a quello del mausoleo di Lenin sulla piazza Rossa, non so se sia lo stesso. All’Unione Sovietica, ai turchi ed il loro genocidio, alle tante disgrazie, umane e naturali sofferte da questo popolo. Continuo a non percepire la tristezza e l’amarezza di fondo trovate da Terzani nel 1991. Spero di non sbagliare gioendo. Forse 16 anni sono bastati a risollevarsi un minimo. Quello che vedo e che ho visto arrivando fin qui, sembrerebbero confermarlo. Torniamo nel negozio di souvenir dove eravamo stati nel pomeriggio, qui vicino. C’è lo stesso ragazzo, che ci saluta cordialmente. C’è anche un suo amico moscovita, di origini armene, che è andato a trovarlo. Si sono conosciuti durante il militare. Mi racconta alcuni episodi di razzismo subiti nell’esercito. Sempre russi ai danni delle altre etnie del vasto calderone ex sovietico: caucasici, asiatici, Sud Ovest europeo. Solita amarezza nel constatare che i valori di tolleranza, di essere un unico popolo si siano disciolti nel giro di poco. Restiamo a chiacchierare del più e del meno fino all’1 di notte. Proviamo ancora a strappare i souvenir che ci piacciono ad un prezzo per lui inaccettabile. Deve chiudere il negozio, usciamo tutti in strada. Siamo stanchissimi, chiamiamo un taxi per tornare a casa. Se ne ferma uno con un ragazzo ... strano alla guida. Entriamo comunque, attraverso la musica ad alto volume urlo l’indirizzo, parte a razzo senza una parola. In un lampo arriviamo. Il tassametro segna 2600, prende 3000. Aspetto il resto, invano. Scendo, non ho voglia di discutere. Non con lui, non qui, non a quest’ora. Sotto il palazzo incontriamo quell’altra bella faccia da matto del nostro vicino che ci tiene la moto. Rapido saluto, buona notte! |
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