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Giornate: 05/08/2007 - “Erevan d’Arte”
Ha chiamato il figlio ad aiutarlo e a fargli esercitare l’inglese che sta imparando a scuola. È giovane, timido, non dipinge. Nonostante il suo inglese sia davvero minimo, dà la possibilità a Caterina di comunicare, visto che Aleks parla soltanto russo. Schiodano la tela dal telaio, trovano un grande tubo col cartone spesso un centimetro, avvolgono tela e disegno insieme, chiudono il tubo che da oggi si posizionerà dietro il sedere di Caterina, subito sotto il baule posteriore. L’amico tassista è entrato, ha aiutato anche lui. Chiudiamo tutto, salutiamo il figlio, torniamo in taxi al Vernissage. Si sono fatte le 18:30!! Andiamo subito al teatro per lo spettacolo folcloristico di cui ieri abbiamo comprato i biglietti. Il teatro dell’Opera è qui dietro ... peccato che non sia quello giusto! Partiamo a caccia del posto, tutti lo conoscono, ma nessuno sa di preciso dov’è. Chiediamo a diverse persone, ci mandano in tante direzioni, avanti e indietro.
Usciamo scossi, il contrasto con quello che ci circonda, alla violenza ed allo scarso rispetto di questi lavori. Chissà cosa le capiterà a fianco, dopo essere stata nascosta in modo così sfacciato. Alla fine troviamo il teatro, siamo in ritardo, lo spettacolo è iniziato da un quarto d’ora.
Passeggiamo nei dintorni dell’Opera, scopriamo un laghetto che non avevamo ancora visto. Mi sembra che qui riescano ancora a godersi il proprio tempo, non si vedono le scene isteriche che quotidianamente mi assillano a Roma. Prendiamo la metro per andare in una zona segnalata dalla guida come la strada dei barbecue. Pare che qui sia pieno di vita e tutti i ristoranti facciano carne alla griglia. Il mio stomaco o meglio il mio intestino, minaccia; i miei piedi soffrono. Fatto sta che mi precipito nel primo ristorante che vediamo. Purtroppo stavolta ci va male. A parte il posto non molto ispirante, anche il cibo è davvero mediocre. Un buco nell’acqua! Ma almeno riesco ad andare in bagno, finisce l’emergenza. Torniamo a casa a piedi, compro dei dolci di nocciole e miele (tipici turchi ... o armeni ... o greci??) e ricostruiamo i bauli fino all’1:30, in vista della partenza di domani. Terzani mi aiuta a rilassarmi. Onestamente non percepisco la tristezza e la malinconia che descrive. Non saranno come gli spagnoli, ma li vedo vivi, vivaci. I ragazzi e le ragazze sono sempre in giro, vestiti in modo ricercato e appariscente, al di là dei nostri diversi canoni estetici. Ci sono molti locali e anche le loro danze tradizionali sono forti, veloci, allegre. Probabilmente chiunque sarebbe stato triste in quel momento: alla fine di lunghi anni di recessione ed all’inizio di una crisi dagli esiti del tutto ignoti. Tra l’altro nessuna delle persone conosciute finora ha mai accennato, nemmeno quando avrebbe potuto a causa dei vari discorsi, al genocidio da parte dei Turchi. Il Nagorno - Karabakh è molto più sentito. Finalmente verso le 2 prendo sonno. 06/08/2007 - “Armenia tra natura, misticismo e follia”
Da oggi il nostro cammello è un po’ più carico: qualche ceramica, un paio di bicchieri da vodka sottratti al ristorante l’altra sera, una Polaroid, 4 libri (la guida storica sovietica di Erevan in francese e tre libri su Kotchar - sculture, quadri e dipinti) e, naturalmente, il grande tubo con il quadro e il disegno di Aleks. Abbiamo previsto molti giri, troppi: Geghard, Garni, Echmiadzin, Khor Virap, il giro del lago di Sevan da sud, la chiesa sul lago Sevan, l’arrivo vicino Dzoraget. Vedremo se e cosa riusciremo davvero a fare! Guardo la cartina e capisco subito che il giro che avrei voluto fare verso sud, unito a tutto quello che vorremmo vedere, è impraticabile. Troppo lungo. Durante la rapida colazione a base di dolci di nocciole e miele che ho comprato nel negozio sotto casa, decidiamo di tagliare. Ci accordiamo su Khor Virap, Geghard, Sevan, chiesa, Dzoraget. Già così ho i miei dubbi! Tanto per metterci subito comodi, partiamo alle 10! Consegniamo le chiavi al vicino, ci industriamo per legare il tubo col quadro. Finalmente ci avviamo verso la periferia di Erevan, schivando delle buche apocalittiche ed alcuni tombini scoperchiati (!). Passiamo davanti alla stazione ferroviaria, con la grande statua equestre riprodotta in molte guide. Per fortuna fuori città le strade tornano normali. Viaggiamo veloci su una strada a 4 corsie. Pianura fertile, coltivata a perdita d’occhio in tutte le direzioni. Alla nostra destra, sullo sfondo, l’Ararat ci segue benevolo. Terra turca, antichi conflitti. Il mondo potrebbe essere così facile e invece... La natura, almeno in questo caso, assiste inerme alle beghe umane che, dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, sta tornando ad essere assetato di sangue, viscere esplose, lacrime, distruzione, sofferenza. Conflitti inesistenti si generano. Tutto diventa motivo di divisione. Le religioni. L’uomo in fondo non è cresciuto. Si è evoluto, ma non è maturato. Conta più l’economia che la vita. Mi immergo in queste riflessioni mentre la strada scorre veloce. Adesso però il sole annuncia vita, tutto è gioia.
Khor Virap in realtà è un paesino. Un’unica strada che parte dalla superstrada e si inoltra nella campagna e poche cresciute attorno, ordinate. Tutte hanno un piccolo giardino, spesso adibito ad orto. Qualche carretto tirato da un asino ed alcuni asini moderni, a quattro ruote.
Sullo sfondo vedo un pullman che si arrampica sulla bassa collina dove è appollaiata l’antica costruzione. Questa visione mi scuote. Ripartiamo per cercare di evitare l’orda di turisti. Nel piccolo parcheggio sottostante vendono delle colombe bianche. Chi le compra, le dona la libertà. Apre la gabbia e quelle volano via. Biblico simbolo di pace mercificato per alcuni spiccioli, per i pochi turisti che arrivano fin qui. È difficile criticare queste persone che non hanno nulla di cui vivere, però non posso fare a meno di notarlo. Purtroppo arriviamo quasi insieme all’orda di turisti caciaroni. Invadono tutto, urlano. Alcuni litigano. Vecchi dissapori tra anziane coppie. Nonostante la magica aura dell’Ararat sullo sfondo, davvero potente, ispiratrice, nonostante questo non riesco ad avvertire nulla. Il silenzio scompare con l’atmosfera, che si disintegra nelle decine di persone che annusano indiscrete ogni anfratto. Veloci, rapidi. Guardano ma non vedono. “In fretta, dobbiamo ripartire!” Foto a raffica. “Sorridi! Ecco così.” “Ma dove l’hai lasciata la telecamera? In pullman?? Sei il solito, sempre così!” Urla. Mi sento a disagio. Finalmente ripartono. Restano un paio di famiglie, molti bambini. Una vicino a noi, attacco bottone. Vivono negli Stati Uniti, sono tornati nella loro terra d’origine a visitare gli antenati, a vedere da dove erano dovuti fuggire. L’altra famiglia si fotografa sullo sfondo dell’Ararat. Forse è solo il loro modo di posare, ma non gioiscono. Si stagliano solenni, seri. Ecco, forse qui, nei loro occhi, di chi ormai vive lontano da questa Terra, intravedo la malinconia di cui parlava Terzani, come di torto subito, di vita sottratta. E l’Ararat è il simbolo per eccellenza di tutto ciò. Anima armena in terra turca. Siamo pressati dalla tabella di marcia. Abbandoniamo questo luogo incredibile con un vago senso di delusione. Da lontano è magico, unico. Andrebbe visto in solitudine. Torniamo verso Erevan, dall’altro lato della carreggiata incrociamo tre moto! Tutte da enduro, ho la sensazione che siano italiani. Due non ci vedono, il terzo risponde al mio saluto. Seguo la cartina, dovrei girare su una strada grande che intravedo sullo sfondo. Esco prima, immaginando questa sto prendendo si ricongiunga a quella. All’inizio è bella, poi diventa più rovinata. Chiedo a un benzinaio, mi indicano la direzione che sto seguendo, pare sia giusta. Diventa sempre più rovinata. Alla nostra sinistra, in lontananza, oltre un piccolo fossato che sembra fungere da confine naturale, la periferia di Erevan. A occhio è giusta, ma diventa sempre peggio. Arriviamo in uno slargo, all’ingresso di una di quelle fabbriche sovietiche che non sai dire se sono abbandonate o perfettamente funzionanti. Rovinate, lo sono tutte, ma alcune, appunto, nonostante tutto continuano a funzionare. Questa sembra tra quelle. Me lo fa pensare un signore anziano, menomato ad un braccio, che ha attrezzato una bancarella con un po’ di merce sul cofano della sua auto, parcheggiata da una parte. Immagino che attenda l’uscita degli operai. Chiedo la strada, anche lui mi dice di proseguire. Poi ci ripensa e aggiunge: “Andando dritto la strada peggiora per qualche km ma in moto si può fare - qui il mio istinto mi mette in allarme, tutte le volte che mi hanno detto così mi sono immancabilmente infilato in strade da incubo - poi si unisce a quella principale che va verso Geghard, altrimenti puoi girare qui - indica una strada che scende verso Erevan - poi giri lì, là, destra sinistra...”. Si dilunga in una lunghissima e non memorizzabile serie di indicazioni. Scelgo la strada breve: proseguire. Si fa per dire... Nel giro di pochi metri la spazzatura chiude tutto in una morsa. Provo ad avventurarmi ugualmente. La strada, da piccola che era, si trasforma in un sentiero sul fianco della collina. Impossibile proseguire. Torno indietro, saluto il signore e mi butto nella periferia di Erevan. Ovviamente non c’è l’ombra di un cartello, chiedo e iniziamo a girare in tondo. Ci infiliamo in una zona di villette a un piano, povere ma tutte col giardino, non mi sembrano male. Soprattutto confrontati ai palazzoni che svettano in lontananza. Dopo mille giri approdiamo finalmente alla strada principale verso Geghard. Di nuovo alcuni tratti semi distrutti, difficili. L’asfalto spesso scompare. In alcuni casi la strada letteralmente sprofonda, collassa. A volte, di nuovo, è quasi bloccata dalla spazzatura di discariche abusive, sempre che il termine “abusivo” qui abbia il nostro stesso significato. Arriviamo al bivio per Geghard. L’asfalto ci inganna, sembra fantastico, poi di nuovo il carosello di sterrati improvvisi, buche. Comunque è migliore di prima, penso di aver fatto una strada quasi abbandonata, considerato anche il numero quasi nullo di auto incrociate. Il panorama diventa man mano più bello. Si alzano colline, poi montagne. Ignoriamo la deviazione per Garni, la strada pessima ci ha fatto perdere altro tempo prezioso. Quasi sotto al monastero la strada si chiude in una gola spettacolare. Ci fermiamo in un ristorante. Dall’esterno sembra quasi un magazzino, solo una scritta scolorita indica che è un ristorante, ma potrebbe anche non esistere più da anni. Invece funziona, veniamo accolti da una signora che ci fa accomodare all’esterno, su un balcone. Dall’arredamento, di un’eleganza antica, logora, capisco che si tratta di uno dei ristoranti di “lusso” di epoca sovietica. Marmi ovunque, tavoli eleganti, architettura ricercata, panorama spettacolare. Il balcone è come un nido d’aquila proiettato su una gola. Sembra di volare in mezzo alle montagne. Poco dopo arrivano altre persone. Padre e figlio piccolo. Il padre deve un favore al tizio dall’ aria importante che li accompagna e che tutti riveriscono: padre, figlio, cavalier servente e anche le signore che servono sembrano conoscerlo e rispettarlo oltremodo.
Sarà che c’è meno gente, sarà la cornice naturale ad effetto, ma qui avverto la spiritualità, il misticismo, seppur scomparso. Anche le piccole chiese scavate nella roccia mi colpiscono. Annerite dal fumo delle candele, qualche affresco, ormai quasi scomparso e, all’esterno, molte croci scolpite nella pietra. Ci facciamo fare una foto e in quel momento, me lo aspettavo, mi punge un’ape sul braccio destro. Forte dolore. Mi aspetto una bella reazione allergica, già lo so. Purtroppo non ho nulla da metterci sopra. O meglio, avrei, ma dovrei smontare mezza moto, non mi va. Tornando alla moto incrociamo le moto di prima. Sono italiani! Scambiamo qualche chiacchiera, come sempre la vista del mio CBR li sconvolge, attrezzati come sono da grande avventura nel deserto con moto e attrezzatura specialistica. Percorriamo all’inverso la strada tra Erevan e Geghard, riprendiamo la principale e proseguiamo per il lago di Sevan. Paesaggio piatto, non particolarmente interessante. Arriviamo a Sevan a metà pomeriggio. Il lago non si vede dalla strada. Solo la chiesa, la tipica costruzione poligonale in pietra rossastra che ci osserva da lontano in cima ad una collina, ci fa intuire di essere arrivati. Percorriamo la sottile lingua di terra che fino a non molti decenni fa era sommersa dal lago. Poi le politiche energetiche sovietiche, a caccia di acqua per far funzionare alcune centrali elettriche ne ha abbassato il livello in maniera irreversibile. Da anni una strada la percorre consentendo di arrivare comodamente sotto la costruzione. Lungo la costa si allineano campeggi, molti fanno il bagno o prendono il sole. Alcune moto d’acqua saettano davanti alla riva. Un paio di barche a vela si avventurano al largo. Nè più nè meno che da noi. Anche qui la bellezza del silenzio, la solennità della natura, il piacere della sua integrità si sono persi da molto tempo. Tutto ricorda le varie aree balneari occidentali. Peccato, perchè il lago è davvero unico. La posizione, così elevato, il paesaggio circostante di solenni montagne, il colore così incredibilmente e intensamente blu, la solennità della piccola chiesa che ne sovrasta un angolo, la dimensione, più simile ad un mare che ad un lago.
Il giorno volge al termine e siamo ancora lontani dalla meta odierna. Ripartiamo, infilandoci nelle montagne del Centro - Nord. Cittadina interna, incrocio con molte strade. Imbocco quella che mi pare giusta, ma mi fermo al lato della strada per guardare la cartina stradale con più attenzione. Si affaccia un signore dalla casa alla nostra destra: “Serve qualcosa?” chiede gentile. “Stiamo cercando la strada per Dzoraget!” “Sempre dritto, non potete sbagliare!” “Ottimo, grazie!” rispondo sollevato. “Ma perchè non salite a bere un tè??” “No grazie, è tardi...” In effetti il sole è quasi tramontato e mancano ancora molti km. Esce anche la moglie che rinnova a sua volta l’invito. “Salite, venite a prendere un tè! Poi ripartite, c’è tempo!” Solita differente percezione del tempo...e dire che penso di essere una persona piuttosto rilassata in questo senso! “No davvero, dobbiamo arrivare a Dzoraget entro sera, non sappiamo nemmeno dove andare a dormire” “Fermatevi qui, ripartite domani mattina!”
Qualche contadino vende poche verdure a lato della strada. Carote incredibilmente grandi. La ricomparsa di costruzioni annuncia l’approssimarsi della città. Una brutta periferia interrompe definitivamente l’idillio. Siamo quasi a secco. Mi fermo al primo benzinaio e chiedo dell’albergo indicato dalla guida. Ci indicano la direzione, mancano meno di 10 km. Incrocio, semaforo, rotonda, strada, ponte. Alla fine del ponte per sicurezza chiedo ancora. Un signore di mezza età mi propone: “Lo conosco, sto andando anch’io in quella direzione, seguitemi!” e parte al volo sulla sua vecchia Mercedes. Fatico un po’ a stargli dietro, va veloce su questa strada stretta che si infila nuovamente in mezzo ai monti. Curve strette tra gobbe e buche dell’asfalto. Torniamo all’interno di montagne selvagge, qui più strette, alte, ci sovrastano mentre le assecondiamo tra tornanti e giravolte. A un certo punto il tipo mette la freccia e accosta. “Mi fermo qui, voi seguite la strada, tra 8 km c’è l’albergo!” Si è fermato, col suo amico, in corrispondenza di quello che sembra un piccolo cimitero. “Ok, grazie!” Ripartiamo. Siamo stanchi. Per distrarmi negli ultimi faticosi km, inizio un gioco con Caterina: “Non preoccuparti, tra esattamente 8 km da adesso, comparirà l’albergo!” Ripartiamo. “7...” “6...” “5...” Curve, controcurve, saliscendi a picco sul fiume che ha scavato tutto ciò. “4...” “3...” Nel frattempo entriamo sempre più nelle montagne. Solo il riflesso della luce morente del giorno illumina debolmente il paesaggio. In ogni caso sono contento, siamo praticamente arrivati con la luce e con tutto quello che abbiamo fatto e visto oggi, non è male! “2...” “1...” “Vai amore, preparati, tra 500 metri esatti apparirà l’albergo!” Sembra incredibile, in queste montagne così selvagge, fitte di boschi impenetrabili. E invece restiamo a bocca aperta quando dopo esattamente 500 metri spaccati, cioè gli 8 km annunciati dal tipo pochi minuti fa, sulla sinistra si apre uno slargo e una bassa, tozza costruzione si staglia proprio sotto il ripido fianco della montagna. Da lontano sembra chiuso, abbandonato. Ma non può che essere questo, tutt’intorno non c’è altro e il signore di prima lo conosceva, ce l’ha indicato molto precisamente. Non possiamo stupirci di trovare un simile albergo fatiscente, in Armenia! Proseguo qualche metro e sulla sinistra trovo una stradina sterrata che va verso la costruzione. Rovi occludono il passaggio, l’asfalto è sbriciolato dai decenni, sopraffatto dalla natura. È palesemente abbandonata. Ricordo che arrivando, poco fa, avevo fatto caso ad una stradina sulla sinistra, forse viene usata solo quella.
“Cosa cercate?” Al rallentatore mi giro, alzo lo sguardo. Dal primo piano, più indietro rispetto a noi, si affaccia una testa dai capelli rossi. Sembra abbastanza giovane. Il viso è truccato in maniera pesante, eccessiva. “Ma l’albergo è aperto?” chiedo a mia volta, senza sapere bene cosa dire, tanta è la sorpresa e assurda e paradossale la situazione. “Sì!” esclama, quasi stupita. La testa scompare all’interno, la mia bocca resta aperta mentre abbasso gli occhi di nuovo al piano terra fatiscente, alla parte sinistra della costruzione, semi-crollata, alle panchine coperte dai rovi alla nostra sinistra, allo sfacelo generale.
Tutto è inquietante, anche il suo aspetto. Ha lo sguardo un po’ folle, ma è simpatica, gioviale. “Dovete dormire?” “Sì...” rispondo, senza molte alternative. Mentalmente insulto la LP e mi riprometto di scrivergli una mail al vetriolo una volta in Italia: affascinante rifugio un corno! Questo è un tugurio abbandonato da anni e anni! “Posso vedere la camera?” chiedo per capire a cosa stiamo andando incontro, pronto ad una soluzione d’emergenza dell’ultimo istante. “Certo, vieni!” Caterina resta alla moto, nella penombra. Seguo Zalik rispondendo in automatico alle varie domande che mi fa. Andiamo verso la scala, sul fianco destro dell’albergo. Inutile dire che è totalmente arrugginita. Alla base della scala c’è un lavandino col rubinetto immagino rotto, che butta un getto potentissimo d’acqua dentro un secchio messo per evitare schizzi ovunque. La porta al piano terra verso quello che una volta era il ristorante è sfondata, crollata. Saliamo. La porta d’ingresso al primo piano è mezza rotta. Entro in uno stretto corridoio. La carta da parati è staccata in molti punti, in terra un linoleum da poco. “Qui dormo io!” esclama indicandomi la prima stanza a sinistra. Anche in questo caso il vetro della porta è rotto. Intravedo, sul fondo, una specie di brandina sfondata.
Mi viene da ridere per l’assurdità della situazione. Mi dico che possiamo farcela, sarà anche un ricordo divertente. Mi affaccio con questi pensieri e saluto Caterina dall’alto: “Amore, è bellissima!” e scoppio a ridere. Lei è tranquilla, sollevata che finalmente ci fermiamo. Mi prende un ultimo dubbio: “Ma il bagno?” chiedo, già sapendo cosa aspettarmi, ben conoscendo certe realtà ex sovietiche. “Sì, di qua!” Torniamo verso l’ingresso, poi sulla sinistra, di fronte alla sua camera, in un piccolo corridoio, apre una porta: “Quello delle donne è rotto, funziona solo questo!” e spalanca la sbilenca porta di legno.
“Signora, con quel tubo è impossibile lavarsi, non si riesce a prendere l’acqua!” “Nessun problema!” e fa per togliere il tubo. Appena lo sfiora il rubinetto le esplode addosso. Acqua ovunque, su di noi, sulle pareti, tutto bagnato. Scoppia a ridere, di una risata strana, tra il fanciullesco e il folle. Si copre la bocca, come intimidita. Mi guarda con uno sguardo ingenuo, imbarazzato, gli occhi che ridono. Nonostante tutto mi suscita simpatia, più che timori o altri sentimenti. Mi getto sul rubinetto, stringo come posso, con le dita, il mozzicone di rubinetto che chiude l’acqua, dove una volta era infilata la manopola. Riesco a bloccarlo, tranne la perdita ovviamente, che continua imperterrita, quasi avvertendomi di non provare più a toccarlo. Accetto la tregua, torno da Caterina ormai completamente avvolta dall’oscurità. La avviso della camera, anche se le parole servono a poco, in confronto a quello che vedrà. Con Zalik mi accordo per 3000 DRAM in tutto, circa 6 euro. Se ne va, se vogliamo parlarle la troviamo in quella che una volta era la cucina del ristorante, al pian terreno. Mentre si congeda, arriva un gatto, le si strofina contro. Si illumina e ce lo presenta, è la sua unica compagnia qui. Valigie in camera, Caterina resta a bocca aperta per lo sfacelo del posto, ma siamo troppo stanchi anche solo per pensare a qualcosa di diverso. Improvvisamente penso che Zalik non mi ha dato la chiave della camera. Guardo la porta, la serratura non c’è! Scendiamo. “Per la chiave?” chiedo con poca convinzione. “Non c’è!” ... me lo aspettavo... “Ma non dovete preoccuparvi, lasciate tutto, qui ci sto solo io, state tranquilli!” “Per mangiare, dove possiamo andare?” “Proseguite sulla strada, più avanti trovate un ristorante che ha tutto!” A malincuore dobbiamo riprendere la moto. Ci risparmiamo la tortura del casco. Usciamo dalla stradina più battuta, imbocchiamo nuovamente la strada principale, un paio di curve e ... ecco l’albergo che cercavamo!! Non possiamo crederci, siamo senza parole. Nuovo, bello, tutto in legno e pietra, elegante. Entriamo a bocca aperta, ora dobbiamo almeno vederlo! Ci accoglie gentilissimo un signore. “Possiamo mangiare?” “Certo, c’è il ristorante! Vi serve anche una stanza?” Non sappiamo cosa rispondere. Gli spieghiamo brevemente l’accaduto. “E quindi siamo a dormire nell’albergo qui dietro, a 500 metri.” “Ah...la signora è un po’...” e si punta l’indice alla tempia, nel segno internazionale della pazzia. Ormai però siamo lì, non ci va per nulla di riprendere tutta la roba e spostarci. Poi la signora ci è simpatica, nella sua eccentricità. Ci sediamo al ristorante. È una terrazza a picco sul fiume Debed, lo sentiamo mugghiare sul fondo. Davanti, le nere fronde del bosco. Tutto in mezzo, milioni di insetti. Arriva una tavolata di ragazzi chiassosi, mangiamo tranquilli, ancora increduli per quanto accaduto e con alcuni interrogativi sulla nottata che stiamo per trascorrere. Paghiamo, sfruttiamo il bagno del ristorante, torniamo alla casa degli Addams.
Come tappa finale, invece, ci fidiamo del consiglio dei ragazzi incontrati a Tbilisi giorni fa. Andremo quindi a Sighnagh, per entrare in Azerbaijan dal nord. Ci aspettano due monasteri, un passaggio di frontiera e 250 km su strade ignote, ma presumibilmente dissestate. “Ma secondo te Zalik ha amici?” “Boh, è così strana...” “Ma ... per come è vestita ... secondo te fa la prostituta? Sennò come campa, chi ci viene qua!” “Chissà, potrebbe darsi... Magari qui ci vengono le coppiette illegali di Dzoraget, forse è un albergo a ore!” Mi torna in mente in un lampo un altro posto orripilante, peggiore di questo, dove ero stato nel 2001, in Ucraina, poco fuori Leopoli. Là la notte era un viavai di ragazzi che venivano a scopare. Ancora ricordo il casino che facevano, fuori a ridere e urlare e dentro di gemiti e colpi. Il tempo di finire queste riflessioni, arriva una macchina. Mi affaccio, vedo scendere un uomo e una donna. Zalik gli corre incontro, si conoscono. Sento la nuova arrivata salutare Zalik come una vecchia amica, dice che era un’infinità che non si vedevano più. Si guardano, si abbracciano di nuovo. Abbiamo assistito casualmente all’unica visita degli ultimi 10 anni? Entrano. Se c’era una cosa che mi consolava, era la constatazione della dormita formidabile che avrei fatto, in un posto abbandonato in mezzo a un bosco. Invece no. I tre iniziano a ridere e urlare, la notte diventa sempre più fonda, loro sempre lì, sicuramente a bere. La faccenda diventa sempre più surreale. Ci infiliamo nei sacchi lenzuolo, tappi nelle orecchie e proviamo a dormire, tra le risa, le urla, la musica a tutto volume che hanno messo per festeggiare meglio. |
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