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 Diario di viaggio SamarCaLda 2007

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(Haghpat, Akhatala (AM), Sighnagh (GE), Seki (AZ))

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Giornate: 
07 agosto 2007 - “Monasteri armeni e colline georgiane”
08 agosto 2007 - “La cornice del Grande Caucaso”

07/08/2007 - “Monasteri armeni e colline georgiane”
Le loro chiacchiere fanno da sfondo a questa nottata altrimenti silenziosissima, rotta solo da qualche sporadico veicolo, ogni 20 / 30 minuti.
Nel cuore della notte sento bussare alla porta. Sono le 4:20. Apro. Mi chiedono per cortesia il cellulare per chiamare un taxi; hanno finito il credito e devono tornare a casa. Mentre mi chiedo che fine abbia fatto la macchina con cui erano arrivati, rispondo sbrigativamente che è un cellulare italiano, qui non funziona.
Mi spiego l’abbigliamento di Zalik, in tiro per questi amici evidentemente attesi.
Ci riaddormentiamo.
Mi sveglio alle 10. La tenda, crollata ieri notte e poi riattaccata alla meglio, non è lunga quanto la finestra, entra molta luce. Il braccio è molto gonfio per la puntura di ieri. Mi sono dimenticato di metterci qualcosa.
Salutiamo Zalik. Prima di partire faccio un giro al pian terreno. Quello che una volta era il ristorante dell’albergo è ormai una specie di magazzino dove Zalik conserva cataste di legna, butta cose rotte e ripone attrezzi vari. Le pareti sono decorate con disegni di bambini. Chissà, forse una volta era un albergo dove andavano i bambini per l’estate, come io da piccolo andavo in Trentino.
Proseguo, arrivo fino alla originaria cucina, oggi rifugio di Zalik. C’è una vecchia televisione, in bianco e nero, che sfarfalla sopra il frigorifero. La stanza è sovraffollata, anche se non riesco a capire bene di cosa. Ci sono un tavolo, alcune sedie, un paio di mobili. Tutto sommato poca roba, ma dà l’impressione di non poterci nemmeno entrare. Invece Zalik praticamente passa lì le sue giornate. Vedo il gatto passeggiare pigramente.
Esco. Faccio caso alla montagna che sovrasta l’albergo. Sono praticamente appoggiati l’uno all’altra. Una frana ha disintegrato, a meno di 5 metri dall’edificio principale, una piccola costruzione, forse un bagno esterno.
Roba di metri. E di tempo, prima che la prossima frana scelga l’albergo.
Alla luce del giorno guardo nuovamente lo sfacelo della facciata principale. Mi accorgo solo adesso che ci sono delle scritte. Una è in armeno, del tutto incomprensibile. Poco sopra, in caratteri latini, enorme, la scritta HOTEL e, ancora sopra, il nome: “HAIK”.
Se ci avessi fatto caso ieri pomeriggio, avremmo capito che non era quello che cercavamo! Ma era buio ... e avremmo perso questa esperienza unica!
Salutiamo Zalik, ci segue con lo sguardo, gatto in braccio, finchè non spariamo dalla sua vista, dopo il sentierino e un pezzo di strada principale. Ci saluta da lontano con grandi gesti.
Ciao Zalik, buona fortuna ... che tu possa conservare la tua allegria e la tua risata infantile ancora a lungo.
Guido svelto e fluido. La giornata è magnifica, il cielo blu brillante, il verde della gola e delle montagne che ci sovrastano è intenso, quasi irreale. Danzo nelle curve evitando le voragini che di tanto in tanto si aprono. I tunnel sono sempre una scommessa. Stavolta trovo un paio di animali ignoti, forse mucche. Evito per un pelo dei crateri. Incrocio un camion, a fari spenti, che da solo occupa praticamente tutta la larghezza. Fortuna che sono in moto e riesco a divincolarmi.
Arriviamo ad Haghpat. Gli orribili complessi industriali si alzano come mostri arrugginiti, offendendo la vallata con la loro semplice presenza. Non contenti cercano di soffocarla con fumi densi, neri. Che cosa orribile, che modello di sviluppo assurdo. Forse qui ci sono tanti terremoti perchè la natura si vendica delle tante ferite inferte dall’uomo.
Superiamo Sanahin ed il suo monastero. Quando ce ne rendiamo conto, vista l’ora, decidiamo di visitare solo quello di Haghpat.
Ci arrampichiamo su una strada malandata, fino in cima dove alcune case, dei piccoli orti e qualche lampione storto ci dicono che siamo arrivati. Si apre una piazza, ombreggiata da piccoli alberi. Sulla sinistra il monastero, sulla destra un caffè con alcuni tavolini. Una coppia di ragazzi sta esaminando minuziosamente la guida.
Arriva una signora corpulenta, dall’espressione allegra, bonaria. Ci fa accomodare. Non fuori, come quei due, ci dice ammiccando.
“Qui sotto si sta più freschi!” esclama.

 

 

Monastero di Haghpat

 

Colazione ... con yogurt
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Monastero di Haghpat

 

La mitica Sora Lella georgiana
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Chiediamo un tè. Quando vede il mio braccio gonfio a zampogna, dice che sa lei come guarirmi.
Torna dopo un minuto con una ciotola piena di yogurt fresco. Lo metto con un cucchiaino. Effettivamente mi dà sollievo. La situazione poi è così godibile... Entrando ho visto una signora con delle ciotole piene di frutti di bosco, ne chiedo una. Arriva con una piccola insalatiera colma di more, meravigliose!
“Vi fermate a dormire qui stanotte? Ho un B&B di cui non vi pentirete, poi vi faccio io da mangiare!”.
Che peccato ... ad averlo saputo saremmo venuti sicuramente qui!
“No, ci spiace davvero, ma oggi dobbiamo arrivare in Georgia” rispondiamo a malincuore.
Tè, pane e marmellata di amarene fatta in casa.
Arriva credo il figlio della signora. Anche lui vede il mio braccio ed esclama:
“Ho io quello che fa per te!” e ritorna dopo poco con una specie di alcol. Lo sfrega sopra. Il pizzico, da sfiammato, torna a gonfiarsi.
Ora possiamo visitare il monastero!

 

 

Monastero di Haghpat

 

Monastero con vista
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È composto da alcune chiese più o meno grandi. Purtroppo non c’è più traccia di affreschi. La posizione è magnifica, a meno di non guardare verso la vallata, dove si domina Sanahin e la sua orripilante, oscena fabbrica. È un ammasso rugginoso sputazzante fumo grigiastro. Un’offesa che chissà quando sarà riparata.
Tutto intorno, invece, belle montagne coperte di boschi. Un guardiano non vede l’ora di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno che riesce a capirlo. Mi spiega che una volta qui studiavano centinaia di monaci. Mi indica quella che era la mensa, poi un altro edificio con la biblioteca. I vari terremoti e la politica hanno poi svuotato di vita e di attività questo posto, fino a renderlo un guscio vuoto. Tutto sommato, se ripenso al monastero visto in Georgia, trasmette più magia proprio grazie ai monaci che hanno ripreso a infondergli vita e spirito.
Nel parcheggio incontriamo una famiglia francese che gira in camper. Scambiamo alcune chiacchiere. Appena sanno che dobbiamo scegliere al massimo un monastero, ci consigliano di andare a quello di Akhatala, lì vicino. Poco conosciuto e molto bello.
Torniamo sulla strada principale, proseguendo per alcuni km verso la Georgia.
Svoltiamo a sinistra, superando un ponte malandato, in cemento e la ferrovia, poco oltre. Ci facciamo strada tra enormi buche. Dei palazzoni cadenti segnalano l’inizio di un osceno paesino, l’ennesimo scempio a questa natura meravigliosa.
Non vediamo nessun monastero, proseguiamo. Superiamo una grande distesa biancastra, un laghetto di liquido di risulta da chissà quale lavorazione.
Finalmente avvistiamo la classica cupola poligonale. L’ultimo tratto è sterrato, molto pietroso. Il signore francese di poco fa ci aveva detto di chiedere le chiavi alla signora della casa vicino il complesso. Sta cucinando. Mi affaccio discretamente alla finestra:
“Buongiorno, mi scusi! É possibile visitare il monastero? Ha le chiavi?”
Senza nemmeno girarsi risponde sì. Mi sembra seccata.
Con Caterina mi avvicino alle mura, parzialmente crollate, che circondano la grande chiesa. É enorme.
Una cancellata arrugginita, tutta storta, chiude l’ingresso. Dopo un paio di minuti arriva la signora. Spinge il cancello, senza nessuna chiave, ed apre! Non capisco.
Ci incamminiamo nel grande prato che circonda la chiesa. Entriamo nel portico. La grande porta è chiusa. Ecco dove servivano le chiavi! La signora apre e resta fuori ad aspettarci pazientemente.

 

 

Monastero di Akhtala

 

Sacri affreschi (1)
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Monastero di Akhtala

 

Sacri affreschi (2)
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L’interno è maestoso, le finestre, dall’alto, fanno piovere una luce suggestiva che illumina grandi affreschi, i meglio conservati ed anche i più belli visti finora.
Fuori un cane gode pigramente delle carezze della signora che, sempre senza una parola, chiude alle nostre spalle.
Anche noi abbiamo fretta, dovendo superare una frontiera e percorrere un discreto numero di km su strade sconosciute. Spero che non siano troppo malandate!
In pochi km arriviamo alla frontiera. Passiamo davanti al bar - officina dei nostri amici, lanciamo un saluto veloce. Cambiamo i soldi armeni avanzati nel supermercato a ridosso della dogana.
La parte armena è veloce. C’è un pullman con dei turisti giapponesi che nemmeno scendono, incrocio solo la loro interprete col plico di passaporti in mano. Usiamo nuovamente i walkie-talkie, anche se sono sempre timoroso di possibili conseguenze.
Dalla parte georgiana, invece, la fila è lunga. Dobbiamo aspettare sul ponte che supera la ferrovia. Il caldo è terribile. Ci ripariamo nell’ombra striminzita di un furgone. Chiacchieriamo con alcuni uomini della fila.
Finalmente arriviamo alla sbarra. Il poliziotto, in inglese, mi dice di accostare. In un lampo mi tornano in mente tutti gli episodi in Ucraina, Moldavia e in altri Paesi in cui mi facevano aspettare delle ore solo per chiedermi la mazzetta. Mi irrito in un istante. Provo a parlare inglese, sperando di avere più “peso”. Ancora peggio. Un doganiere, anche lui innervosito, continua a ripetermi di spostare la moto e metterla di lato. Urla.
Caterina non capisce, soprattutto il mio stato d’animo, non avendo vissuto le mie stesse esperienze con, sostanzialmente, queste stesse persone.
Lascio esattamente la moto dov’è, entro nel gabbiotto dove devo fare gli ennesimi, inutili documenti, e riprendo a parlare in russo:
“Perchè dovrei spostare la moto??”
“Non si preoccupi, è tutto ok! Passaporto e documenti della moto.” mi chiede conciliante la ragazza dietro il vetro.
“Ecco a lei...” rispondo guardando fuori cosa succede. Il tipo si è allontanato.
Il resto passa più o meno liscio.
Siamo fuori! O meglio, dentro la Georgia. In tutto, le due frontiere hanno portato via circa tre ore. Guido veloce, per qualche decina di km il fondo è discreto e ci sono poche curve.
Il pizzico mi dà sempre più fastidio, mi sento abbastanza male: stomaco, testa ... forse anche un po’ di febbre.
Verso Tbilisi la strada peggiora notevolmente, danzo tra le buche, ogni tanto inciampo.
Fortunatamente trovo subito la strada giusta verso nord. Ovviamente non ci sono cartelli, vado a naso chiedendo conferma di tanto in tanto.
Ricominciano le strade dritte, il fondo è accettabilmente malandato. Imbrocco anche le due deviazioni principali, viaggiamo speditamente verso Nord.
Il paesaggio, man mano che ci avviciniamo alla catena del Caucaso, torna a muoversi. Dolci colline rigate dalle viti, girasoli a perdita d’occhio. Di tanto in tanto un castello, una torre. Qui l’impatto sovietico è quasi assente, ci godiamo il paesaggio che ricorda molto le campagne italiane più belle.
La luce è calda quando il giorno muore. L’ultimo guizzo, l’estremo regalo che fa agli uomini prima di nascondersi. Purtroppo non riesco a godermi in pieno lo spettacolo del tramonto su queste splendide colline, sto sempre peggio. Continuo a ripensare al primo viaggio all’estero che feci con Valerio, nel ’94, nell’Est Europeo. Il pizzico sulla gamba mentre andavamo verso Praga, poi quello sul braccio nel castello del Wavel, a Cracovia, che mi diede febbre e gonfiore e mi costrinse a fermarmi in un Pronto Soccorso in Ungheria. Spero di non dover ripetere.
L’ultimo bivio prima di Sighnagh è sorvegliato da dei marziani in tuta bianca. Per terra c’è una grande distesa di segatura, a fianco degli erogatori chimici, quelli da disinfestazione. L’immagine è inquietante.
Faccio momentaneamente dietro front per fare il pieno al benzinaio dall’altro lato della strada.
Mangio qualche biscotto al volo, anche oggi abbiamo saltato il pranzo. Una macchina della polizia che ha visto la mia manovra entra nell’area di servizio. Ci guardano, li guardo.
Con fatica riparto, non riesco a guidare. Di nuovo incrocio, passiamo sulla segatura, i disinfestatori ci guardano da dentro il loro casco, noi li guardiamo da dentro i nostri. Una bella scena di marziani. Per fortuna non ci bonificano a colpi di vaporizzatori.

 

Sighnagh

 

Panettone con vista
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La strada sale ancora un po’. Di tanto in tanto, attraverso gli alberi, il panorama si apre. Dominiamo una vasta piana, chiusa a nord dall’imponenza del Caucaso. Sembra di essere sopra un panettone.
Arriviamo a Sighnagh. É tutta in rifacimento con i soldi del presidente di una banca locale e forse anche dell’Unesco. Purtroppo somiglia ai tanti restauri “occidentali”: un po’ finto, stile Disneyland. Non si capisce più cosa è originale e cosa rifatto. La storia vissuta da queste abitazioni, piegate dal tempo e dagli eventi è stata edulcorata in un bagno di cemento e una distesa di sampietrini nuovi. Il tutto uniformato e appiattito sotto un abbondante strato di vernice brillante. Che peccato!

 

 

Sighnagh

 

Nana & Nelik
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Ci fermiamo da Nana, una donna vulcanica. Anche casa sua è in rifacimento. Problema parcheggio. Prima cerca di convincermi a parcheggiare in un ripostiglio, con porta sulla strada, in cui faccio fatica solo ad entrare per vedere cosa c’è dentro. Decide poi per il cortiletto alle spalle della casa. Per raggiungerlo devo fare una specie di trial tra cumuli di sabbia, secchi di cemento fresco, attrezzi e operai sparsi.
La casa è bella, dell’architettura tradizionale vista anche a Tbilisi. Molto legno, a partire dai grandi balconi che incorniciano ogni piano. Anche dentro il legno continua a farla da padrone, concedendo poco spazio ai mattoni, il minimo indispensabile. Una scala elaborata sale al primo piano. Il puzzo terribile della vernice che stanno dando alle assi del pavimento appesta il salotto al piano terra, dove si mangia.
Nana dice che purtroppo non ha molto spazio, tra una settimana andrà meglio, finirà alcuni lavori, ma ora ha poco da offrirci. Rende abitabile una camera adibita nell’emergenza a magazzino. Dentro è ammucchiato di tutto, ma riesce a liberare quanto meno il letto e un piccolo passaggio dove mettere i piedi. 25 Lari con cena e colazione. Con l’inglese zoppica, ma appena sente che metto in fila due parole di russo, parte a ruota libera!
Praticamente salto la cena, non riesco a mangiare nulla. Facciamo la conoscenza di Anders, uno svedese alto e magro come una cavalletta. Sta facendo un lungo giro in bicicletta, starà via qualche mese. Mi dà una crema da mettere sul braccio.
Finalmente riesco a rilassarmi. Mi siedo sul divano sistemato nello stretto balcone. Appena Nana vede il mio braccio, mi chiede cosa è successo e subito scappa dentro.
Torna dopo poco con un bicchierino pieno di una specie di vodka, molto alcolica. Inizia a passarmela sul braccio. Se penso a quante ne ha passate soltanto oggi il mio povero braccio ... dallo yogurt alla vodka!
Sentiamo qualcuno entrare, al piano terra. Una forte voce, poi riconosco l’inglese parlato da un romano.
Mi affaccio dalla mia postazione affondata nel divano e vedo un ragazzo, zaino in spalla, salire energicamente le spalle, seguito da Nana che spiega per l’ennesima volta la situazione di emergenza:
“C’è posto solo in una stanza, in comune con un altro ragazzo!”
“Ok, ok, no problem! Chiediamo a lui se va bene, per me non ci sono problemi!”

 

 

Sighnagh

 

Cricchio & Nelik
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Sighnagh

 

Anders, il ciclista pazzo
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Anche Anders è d’accordo. Facciamo così conoscenza con Carlo, alias Cricchio, di Frascati. Viaggia da solo, zaino in spalla. É partito stamattina alle 6, si sta fermando adesso, dopo quasi 15 ore.
É simpatico, esuberante, cordialissimo. Anche lui prende a cuore il mio povero braccio. Ennesima crema. Mi sembra quella più promettente.
La fame non mi torna, decidiamo di uscire. Chiediamo dove possiamo bere qualcosa, ci indicano una stradina in salita. Ci infiliamo in un vicolo senza illuminazione. In giro ci sono molti ragazzi. Arriviamo in cima, dove si apre una piazza con una specie di roulotte aperta che funge da pub.
Siamo rapiti dalla meravigliosa, intensa stellata che ci protegge dall’alto.
Cerchiamo ancora, ma pare che il meglio che possiamo avere per bere qualcosa sia la roulotte. Torniamo indietro, stanno per chiudere, ma li convinciamo a darci almeno un giro di birra. Anders ingolla la sua in pochi secondi. Evviva la Svezia! Ne ottiene una seconda, condita da abbondanti raccomandazioni di fare in fretta che devono chiudere e tornare a casa, a diversi km da qui.
Mentre paghiamo ci avvicinano un paio di ragazzi visibilmente alticci che attaccano bottone. Il Cricchio inizia a scherzarci, con le due parole di russo che conosce e un po’ di inglese, completamente ignorato dall’altro. Solite battute sulla mafia da parte del tipo, rimandate al mittente dal Cricchio. Mi sembra che si stia creando un po’ di tensione, il tipo non mi piace, ma non riusciamo a togliercelo di torno.
Carlo riesce a ricreare un’atmosfera scherzosa, anche se poco oltre alcuni ragazzi, anche loro ubriachi, giocano a tirarsi dietro sampietrini (!) presi da un grande mucchio in mezzo alla strada.
Ci sediamo su delle scale, insieme a tanti altri ragazzi, compresi i “nostri” due ovviamente. Sono a pezzi, mi sgancio, anche Cate mi segue dopo pochi minuti.
I letti sono sfondati, sembra di sprofondare in una vasca di gomma. Su una cassettiera sono appoggiati altri due materassi, proviamo a raddoppiare sperando che di guadagnare in consistenza.

 

Sighnagh

 

Sorpresa esplosiva
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Mentre togliamo il primo materasso dalla cassettiera, il secondo, da sotto, cade. Sentiamo un tonfo.
Guardiamo per terra. Due fucili!! Erano nascosti sotto ai materassi. Non ci facciamo troppe domande. Li rimettiamo sulla cassettiera, sotto ad un materasso. Sistemiamo l’altro sul mio letto. La situazione migliora di poco.
In tutto questo movimento perdo la penna. Cerco ovunque, nulla. Tra stanchezza e malessere reagisco bruscamente. Caterina non fa una piega.
É mezzanotte e mezzo quando riusciamo a chiudere gli occhi. Da fuori arrivano i rumori di alcuni operai che spaccano le pietre a colpi di piccozza. Sono senza parole. Prego che smettano presto.

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08/08/2007 - “La cornice del Grande Caucaso”
Nella notte mi sveglio due volte. L’ultima alle 5. Il braccio è gonfissimo, il prurito una tortura. Metto nuovamente la crema del Cricchio.
Mi sveglio definitivamente alle 9:15, avvolto da rumori di ogni tipo, in questa cittadina in totale ricostruzione.
La colazione è abbondantissima: latte fresco appena munto, frutta, tanti piatti a base di verdure, compresa una specie di parmigiana, patate fritte, uova, marmellate e pane fatti in casa e molto altro. Nana mi raccomanda:
“Poi scrivi tutto sul tuo sito!”
Il latte ha un sapore molto diverso da quello a cui sono abituato, più ricco, “animale”. Nana mi assicura che è stato bollito, speriamo bene!
Salutiamo Anders che, secco e scattante come una cavalletta, pedala verso le montagne. Lasciamo anche Carlo che, schietto e aperto come la sua terra, resta a godersi ... i lavori di Sighnagh.
Ci muoviamo verso mezzogiorno. Scendiamo dalla parte opposta, su una stradina che ci ha indicato Nana, non segnata sulla cartina. Scopriamo così che Sighnagh ha delle lunghe e ben conservate mura di cinta. Da questo lato l’“effetto panettone” è ancora più evidente: siamo su una collina che emerge improvvisa e rapida da un’ampia, perfetta pianura. La vista delle imponenti montagne del Caucaso è emozionante. Mi spiace non avere tempo per andare verso nord, in una stretta vallata che sale verso la Russia.
Panorami d’altri tempi: piccole case di legno, cavalli, mucche ovunque, maiali, carretti, uomini e donne con falci e forconi.
Arriviamo alla dogana, lato georgiano. Ci mettiamo in coda. Dopo un po’ consegno i passaporti nella solita baracchetta al solito poliziotto annoiato e scortese. Nel frattempo un doganiere giovane inizia a parlare con Caterina facendo sfoggio del suo inglese. Passa quasi un’ora e il ragazzo torna:
“Ma ... avete fretta? Dovete dirglielo, altrimenti vi fanno aspettare anche due ore!”
Pensavo che il mio stare a fianco della finestrella fissando il doganiere che nel frattempo faceva tutti gli altri passaporti, fosse un chiaro segnale. Evidentemente no. Il ragazzo entra nella baracchetta, parla col poliziotto. A mia volta lo guardo e gli chiedo, cortesemente, se fa i nostri passaporti.
Il tipo sbuffa, dice che deve farne prima degli altri. Ne fa un paio, poi sbuffando nuovamente passa ai nostri, che mi riconsegna nel giro di 5 minuti.
In tutto un’ora. Ora il lato azero, chissà!
Sono molto gentili, senza paragoni rispetto ai georgiani che, a questo punto, mi paiono i più “sovietici” delle tre Repubbliche.
Il caldo è notevole, mi invitano ad accomodarmi nel loro ufficio, rinfrescato dall’aria condizionata. Caterina fa per entrare, ma viene respinta. Solo l’interessato! Stanno esaminando i documenti della moto. Fino ad oggi nessuno mi aveva ancora detto nulla, ma me l’aspettavo:
“Come ti chiami?” mi chiede, con i miei documenti chiaramente aperti sotto al naso.
“Fabio Bertoldi” rispondo, avendo già capito dove stava andando a parare.
“E Giancarlo Bertoldi chi è?”
“Mio padre”
“Ce l’hai la delega?”, mi chiede per la millesima volta, da quando ho Nelik intestata a mio padre dal lontano 1994.
“No! Non sapevo servisse, è mio padre ...” rispondo mentendo spudoratamente. Anche quest’anno non ho fatto la delega per risparmiare i soldi del notaio, ben sapendo che, molto probabilmente, avrei perso tempo in qualche frontiera.
Anche stavolta sembra un problema insormontabile. Aspetto paziente. Girano nell’ufficio, parlano tra loro, chiamano altri colleghi.
“Non può entrare in Azerbaijan senza la delega del proprietario!”
Rispondo al solito modo, che non sapevo, non capivo, non credevo, mio padre, la famiglia, in Italia non serve, abitiamo allo stesso indirizzo, abbiamo voglia di entrare nel loro meraviglioso Paese, sù ragazzi fateci andare!
Altri dialoghi serrati in azero, poi il ragazzo torna da me, si apre in un sorriso ed esclama:
“D’accordo! Compilo il documento, poi devi fare l’assicurazione che costa 5 dollari e poi potete andare!”
Si mette a scrivere rapidamente, compila i moduli e i documenti che dovrò custodire gelosamente.
Mi offrono dell’acqua. Anche a Caterina, che aspetta fuori, all’ombra, dopo essere stata ripresa da un poliziotto mentre scattava delle fotografie.
Siamo fuori! In tutto è passata un’ora, di cui 40 minuti persi per la storia del proprietario della moto.

 

 

Verso Seki

 

Andiamo in montagna?
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Corriamo su una pianura perfetta. La vista si rompe, di tanto in tanto, in un bosco. La temperatura è piacevolissima. Case di legno colorate, piccoli orti, grandi campi coltivati, tantissime mucche, anche dei bufali immersi fino al collo in pozze fangose. E intanto, a chiudere l’orizzonte alla nostra sinistra, una scenografia immane di montagne: il Caucaso che funge da quinta nella nostra corsa verso Est. Emozionante, esaltante!
La strada è quasi sempre fiancheggiata da due filari di alberi: decine e decine di km di viale alberato. Il fondo è piuttosto malandato, ma ancora accettabile.
Alla prima cittadina ci fermiamo per cambiare i soldi. Nella banca non cambiano gli euro, solo dollari! Siccome ne ho pochi, vorrei tenere la moneta americana per i Paesi che, lo so per esperienza, la apprezzano infinitamente di più: Uzbekistan e, ancor più, Turkmenistan. Chiedo a un signore dove posso cambiare degli euro, mi indica il mercato, poco oltre sulla destra.
Un paio di isolati dopo svolto, come mi è stato indicato. Mi ritrovo in un bazar in miniatura, di quelli moderni però: bassi negozi in muratura, tanta confusione, ma nessuna suggestione particolarmente orientale.
Siamo accerchiati da una selva di curiosi, tra cui un paio che ci chiedono se vogliamo cambiare.
In queste situazioni l’unica possibilità è fidarsi e cambiare poco per limitare l’eventuale fregatura.
Verifico la proposta del tipo con quello che avevo letto poche settimane fa su Internet, tiro un po’ sul prezzo, facciamo l’affare: 55 AZN per 50 €. La strada continua ad emozionarmi, il paesaggio è maestoso, il Caucaso impressionante. Mi vengono in mente i libri letti, ambientati in quelle vallate, su quei picchi, tutto così estremo, assoluto.
Il paesaggio continua ad essere verde, contrariamente a quello che dovrebbe essere il Sud del Paese, semi stepposo e desertico.
Rispetto alla Georgia, dove i cartelloni del Presidente erano piuttosto pochi, qui la loro presenza è molto più evidente e pervasiva. Decine di cartelloni giganteschi si affacciano un po’ ovunque: sulle facciate dei palazzi, lungo le strade, nei classici formati 16x9. I soggetti sono prevalentemente l’anziano ex Presidente, visto come il Padre della Nazione, oppure suo figlio, attuale Presidente in una sorta di regime dinastico. Più raramente altri uomini di potere. Le pose si somigliano tutte: concentrati al lavoro, mentre stringono la mano ai militari, sorridenti, in gesti imperiosi di incoraggiamento, con dei bambini, in mezzo agli anziani. Sono tutti molto a colori.
Molti venditori di immensi cocomeri. Una macchina ci sorpassa col portabagagli spalancato e completamente stipato di angurie, posizionate a piramide. La punta cade in un ondeggiamento più accentuato e si infrange in mille schegge rosso sangue, in una lunga scia.
Ci allontaniamo di qualche km dalla catena montuosa, ma continuiamo a fiancheggiarla in lontananza.
Facciamo il pieno e prendiamo la deviazione principale per Seki. Cerchiamo il caravanserraglio, l’albergo che ci avevano indicato i ragazzi toscani a Tbilisi.
Seki è un’antica città con il centro posizionato sotto delle colline verdissime di boschi. La parte storica, in pietra, è bella e ben tenuta. Troviamo l’albergo Kervanseray, ricavato appunto in una porzione dell’antico caravanserraglio, anch’esso sulla mitica Via della Seta.
Appena spengo il motore davanti all’ingresso un tipo ci avvicina:
“Tutto pieno, tutto pieno, non c’è posto!”
“Ok, chiediamo ugualmente, magari nei prossimi giorni ...”, cerco di neutralizzarlo così. Il tipo non è dell’albergo e questo episodio non mi piace. Caterina entra, io aspetto sulla moto.
“Non puoi stare qui, devi mettere la moto nel parcheggio!” mi suggerisce lo stesso tipo, indicando l’altro lato della strada.
“Si paga?”, chiedo sospettoso.
“No!”
“Ok”, acconsento, visto che dietro di me c’è una macchina della polizia e vorrei evitare il pretesto per una multa in divieto di sosta.
Faccio inversione, vado dall’altro lato della strada, faccio per entrare nel grande parcheggio quando vengo bloccato all’ingresso:
“Dove va?”
“Parcheggio!”
“Sì, ma deve prendere la ricevuta, deve pagare!”
Mi innervosisco in un istante, non gli rispondo nemmeno, rifaccio inversione e torno a mettermi esattamente nello stesso posto di un minuto prima, a lato della strada di fronte all’albergo. Aspetto che i poliziotti mi dicano qualcosa, poi deciderò eventualmente se spostarmi!
Il tipo mi piace sempre meno, lo classifico come il classico maneggione che cerca di spillare quattrini ai turisti sprovveduti.
Caterina esce dopo qualche minuto. Leggo la tristezza sul suo volto. Non dice una parola.
“É pieno?”
“Sì ...”, risponde quasi seccata. Sembra arrabbiata con me, mi innervosisco di nuovo.
Il tipo si fa sotto nuovamente.
“Pieno, vero? Io comunque ho una casa bellissima proprio qui dietro, vi affitto una stanza! Venite!”
Caterina non spiccica parola, io sono stanco e sto male per il braccio, voglio trovare un letto al più presto. Lo seguo.
Arriviamo davanti a un piccolo cancello di metallo, dipinto di bianco. Lo apre, entriamo, Caterina si impunta, non vuole seguirci. Il tutto senza dire una parola. Alla fine entra anche lei nel piccolo cortile pieno di piante. Alla base della scala che porta in casa ci togliamo le scarpe. Legno e vetro, non è male. Arriva la moglie del tipo, ci guidano in una stanza ridipinta di fresco. La puzza di vernice è forte, la faccia di Caterina disgustata. Inizia la trattativa.
“Quanto viene?”, chiedo.
“20 Manat”, risponde lui.
“Ma è pazzo!”, esclama Caterina.
Restiamo tutti in un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Lui torna all’attacco:
“Qui si sta benissimo, la casa è bella, siamo in centro! Seki è tutta piena, non troverete altri posti.”
Nella mia situazione accetterei di buon grado, Caterina invece non ne ha la minima intenzione. Non è nemmeno questione di prezzo, è un semplice “No” incondizionato.
I due discutono tra loro:
“16 Manat è il minimo”, propone la moglie.
“No”, la risposta definitiva di Caterina che si avvia verso la scala per andarsene.
Il tipo mi insegue chiedendo spiegazioni, non capisce. Mentre apriamo il cancello riguadagnando la strada, mi urla dietro:
“Non troverete nulla a questo prezzo!”
Io sono davvero irritato, non mi sento compreso da Caterina, la mia situazione di fatica e debilitazione.
“E ora?”, le chiedo sconsolato.
“Chiediamo in giro”, fa lei.
Risaliamo in moto, scendiamo verso la parte moderna. Pochi metri dopo, sulla destra vedo una bancarella di frutta. Mi fermo.
“Mi scusi, sa di qualcuno che affitta una stanza?”, gli chiedo sperando di trovare un posto a poco prezzo.
“Sì, aspetta che ti ci porto!”, risponde.
“Ma quanto costa?”, chiedo sospettoso.
“20 Manat la camera e 1 Manat per me!”
I favori a pagamento non mi piacciono e lo liquido subito con un:
“No, grazie!”
Pochi metri ancora, ci fermiamo in una piccola bottega, ricavata sempre all’interno del grandissimo caravanserraglio, che vende miele. Chiedo di nuovo di una stanza. La faccia del tipo sembra simpatica, forse riesce davvero ad aiutarci.
“Sì, c’è un mio amico che ha una casa bellissima, in mezzo al verde! É a 5 km da qui, aspetta che lo chiamo”, dice avviandosi verso un telefono pubblico lì vicino.
Restiamo in attesa. Torna, ci dà le indicazioni e un foglietto di carta col nome del tipo. Sto morendo di sete, gli chiedo se ha da bere. Tira fuori da dietro la porta una vecchia bottiglia di Sprite riempita chissà quante volte, opaca dal lungo utilizzo. É quasi vuota, decido di scolarmi ugualmente il poco fondo rimasto.
Saliamo di nuovo verso la parte vecchia. Superiamo antiche mura di cinta ben conservate. Il fondo acciottolato è in condizioni disastrose. Chiediamo conferma, ci dicono di proseguire. Svoltiamo in un viottolo sulla destra. Un ruscello rende insidioso il fondo, scivoloso come sapone in una serie di buche e avvallamenti. Dopo un po’ la strada si restringe ancora, chiediamo informazioni a un ragazzino che ci dice di proseguire. La strada diventa sterrata, impreco, inverto la marcia.
Figurati se vado a dormire in mezzo ai lupi, con km da fare in queste condizioni ogni volta che vogliamo andare in centro!
In corrispondenza del ruscello e di quei metri dissestati faccio scendere Caterina.
Leggiamo la guida, che parla di un triste e brutto Intourist nel centro moderno di Seki.
Superiamo il caravanserraglio, il fruttivendolo, il negozietto di miele. Siamo nel caos del piccolo centro. Parcheggio sotto il palazzone dell’Intourist. Ovviamente scendo io e vado a chiedere il prezzo.
Apro la squallida porta di alluminio e vetro, entro in un salone spoglio e triste dove un impiegato svogliato mi liquida con un:
“30 Manat, la doppia senza colazione.”
Pensa e spera che la questione sia finita lì, invece gli chiedo di mostrarmi una camera.
Si alza controvoglia, prende una chiave e mi dice di seguirlo. Entriamo nell’ascensore, saliamo al 4° piano.
Apre una stanza in tono con l’albergo: squallida. Mentalmente impreco, ma mi rifiuto di dormire in un posto del genere pagando di più della camera rifiutata poco fa, lontano dalla parte antica e senza colazione!
Scendo, Caterina è nascosta da decine di persone che hanno accerchiato la moto. Fendo la folla, rispondo a qualcuna delle solite domande (“quanto costa?”, “quanto fa?”, “che cilindrata?”, “da dove venite?”, ecc). Mi accorgo che gli occhiali da sole sono spariti! Spero di averli messi in qualche borsa, ma mentalmente so già che non è così. Bene, proprio prima del vero deserto!
Facciamo il giro della piazza e veniamo folgorati dal Seki Saray Hotel: bellissimo! Entro col solito imbarazzo di quando mi ritrovo in un posto elegante vestito di polvere e sudore.
80 Manat per un 5 stelle: possiamo farcela!

 

Seki

 

Lanterne magiche
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Seki

 

La curiosità è femmina
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Seki

 

La rosa più bella del reame
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Seki

 

Decorazioni del Khan
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La hall è decorata con bassi lampadari in vetro colorato, tenuti da lunghe catene di metallo. Ampie vetrate sul retro, dove un piccolo patio accoglie alcuni tavolini per il bar e il ristorante. Ariosa struttura di vetro e metallo. Le stanze sono eleganti e comode.
Pare che in Azerbaijan ci siano solo due hotel a 5 stelle: questo e un altro nella capitale, Baku.

 

 

Seki

 

Minareto a cipolla
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Ci facciamo una doccia al volo e usciamo a passeggiare nella calda luce del tardo pomeriggio. Case antiche, decorazioni in mattoni e balconi in legno intagliato. Mi colpisce un minareto, islamico, sormontato da una piccola cupola a cipolla, ortodossa. Può essere letto sia in chiave ecumenica che egemonica.
Saliamo di nuovo verso il centro storico. Poco prima del caravanserraglio entriamo in una piccola bottega di un artigiano che costruisce scatole decorate. La base in legno è abbellita da placche di metallo incise. Si mette al lavoro, mostrandoci come decora il metallo battendolo con un piccolo martello. In pochi istanti sulla superficie liscia si crea un ricciolo di piccoli punti, poi un altro, alla fine appare un fiore.

 

 

Seki

 

La pecora nera
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Superiamo il caravanserraglio, ci arrampichiamo fino alle mura che racchiudono il palazzo del Khan. A quest’ora è chiuso, ma riusciamo ad entrare ugualmente nel parco chiedendo la cortesia al poliziotto di guardia. Ampio roseto, impressionanti alberi plurisecolari. Il palazzo, almeno da fuori, è abbastanza anonimo, almeno per quello a cui mi hanno abituato i vari khan! Decorazioni geometriche di mattoni e piastrelle colorate sulla facciata e poco altro.
Ci aggiriamo nei piccoli e piacevolissimi giardini all’interno delle mura. Su alcune panchine sono sedute alcune anziane signore del luogo. Una mi squadra con sguardo severo, ma appena mi rivolgo a lei si apre in un sorriso. Completamente d’oro. Se ne vedono molti di più da qualche giorno a questa parte: uomini, donne, giovani, anziani. Tutti sfoggiano con orgoglio uno o più denti d’oro.
In questa zona del Caucaso il russo non è molto parlato, inizio ad avere anch’io dei problemi di comunicazione.
Salutiamo, torniamo al caravanserraglio. Almeno il ristorante avrà posto! É ricavato in uno degli ampi cortili dell’antica struttura.
Le stanze dell’albergo si affacciano tutte sul primo patio. Al centro delle fontane di pietra, canaline dell’acqua, in pietra scolpita, disegnano labirinti e rinfrescano l’aria. Ancora rose ed altri fiori.

 

 

Seki

 

In che secolo siamo?
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Un’arcata comunica con il secondo patio, in realtà un grande giardino, dove si trovano i tavoli del ristorante. L’atmosfera è magica, da Mille e Una Notte, tanto per usare un’espressione abusata. Ci sediamo all’aperto, sotto un gazebo che ripara dall’umidità. Le mura illuminate e le sagome di alcuni cammelli donano un’atmosfera decisamente orientale, da sogno.
Molti tavoli, nonchè le stanze dell’albergo (Caterina ancora non ha digerito l’assenza di posti letto), sono occupati da una numerosa comitiva di coreani che festeggiano non so cosa.
Eccellenti costolette alla brace, verdure grigliate, insalata, due bottiglie d’acqua, arbus: in tutto 6 Manat, ossia meno di 7 euro!

 

Seki

 

Il meritato riposo
dei carovanieri
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Nel patio principale, oltre all’albergo è ospitata anche una scenografica chaikhana, una sala da tè. Prendiamo un intero samovar per il tè, una porzione di torta con miele, noci, sfoglie di riso, aroma di rosa e delle nocciole glassate. 7 Manat, più dell’intera cena!
Ho un attacco di mal di pancia, mi rifugio nel bagno del locale.
Rientriamo nell’oscurità più totale, schivando buche, tombini scoperchiati, tubi di scolo dell’acqua crollati, crateri nell’asfalto.
Arrivati all’albergo mi chiedono di spostare la moto dal giardino davanti all’ingresso (“Altrimenti si fermano tutti a guardarla, poi vogliono entrare, creano confusione!”) nel garage sul retro.
Mi corico all’1:30, in forma scarsa: lo stomaco e la testa sono KO.

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