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Giornate: 07/08/2007 - “Monasteri armeni e colline georgiane”
Torna dopo un minuto con una ciotola piena di yogurt fresco. Lo metto con un cucchiaino. Effettivamente mi dà sollievo. La situazione poi è così godibile... Entrando ho visto una signora con delle ciotole piene di frutti di bosco, ne chiedo una. Arriva con una piccola insalatiera colma di more, meravigliose! “Vi fermate a dormire qui stanotte? Ho un B&B di cui non vi pentirete, poi vi faccio io da mangiare!”. Che peccato ... ad averlo saputo saremmo venuti sicuramente qui! “No, ci spiace davvero, ma oggi dobbiamo arrivare in Georgia” rispondiamo a malincuore. Tè, pane e marmellata di amarene fatta in casa. Arriva credo il figlio della signora. Anche lui vede il mio braccio ed esclama: “Ho io quello che fa per te!” e ritorna dopo poco con una specie di alcol. Lo sfrega sopra. Il pizzico, da sfiammato, torna a gonfiarsi. Ora possiamo visitare il monastero!
Tutto intorno, invece, belle montagne coperte di boschi. Un guardiano non vede l’ora di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno che riesce a capirlo. Mi spiega che una volta qui studiavano centinaia di monaci. Mi indica quella che era la mensa, poi un altro edificio con la biblioteca. I vari terremoti e la politica hanno poi svuotato di vita e di attività questo posto, fino a renderlo un guscio vuoto. Tutto sommato, se ripenso al monastero visto in Georgia, trasmette più magia proprio grazie ai monaci che hanno ripreso a infondergli vita e spirito. Nel parcheggio incontriamo una famiglia francese che gira in camper. Scambiamo alcune chiacchiere. Appena sanno che dobbiamo scegliere al massimo un monastero, ci consigliano di andare a quello di Akhatala, lì vicino. Poco conosciuto e molto bello. Torniamo sulla strada principale, proseguendo per alcuni km verso la Georgia. Svoltiamo a sinistra, superando un ponte malandato, in cemento e la ferrovia, poco oltre. Ci facciamo strada tra enormi buche. Dei palazzoni cadenti segnalano l’inizio di un osceno paesino, l’ennesimo scempio a questa natura meravigliosa. Non vediamo nessun monastero, proseguiamo. Superiamo una grande distesa biancastra, un laghetto di liquido di risulta da chissà quale lavorazione. Finalmente avvistiamo la classica cupola poligonale. L’ultimo tratto è sterrato, molto pietroso. Il signore francese di poco fa ci aveva detto di chiedere le chiavi alla signora della casa vicino il complesso. Sta cucinando. Mi affaccio discretamente alla finestra: “Buongiorno, mi scusi! É possibile visitare il monastero? Ha le chiavi?” Senza nemmeno girarsi risponde sì. Mi sembra seccata. Con Caterina mi avvicino alle mura, parzialmente crollate, che circondano la grande chiesa. É enorme. Una cancellata arrugginita, tutta storta, chiude l’ingresso. Dopo un paio di minuti arriva la signora. Spinge il cancello, senza nessuna chiave, ed apre! Non capisco. Ci incamminiamo nel grande prato che circonda la chiesa. Entriamo nel portico. La grande porta è chiusa. Ecco dove servivano le chiavi! La signora apre e resta fuori ad aspettarci pazientemente.
Fuori un cane gode pigramente delle carezze della signora che, sempre senza una parola, chiude alle nostre spalle. Anche noi abbiamo fretta, dovendo superare una frontiera e percorrere un discreto numero di km su strade sconosciute. Spero che non siano troppo malandate! In pochi km arriviamo alla frontiera. Passiamo davanti al bar - officina dei nostri amici, lanciamo un saluto veloce. Cambiamo i soldi armeni avanzati nel supermercato a ridosso della dogana. La parte armena è veloce. C’è un pullman con dei turisti giapponesi che nemmeno scendono, incrocio solo la loro interprete col plico di passaporti in mano. Usiamo nuovamente i walkie-talkie, anche se sono sempre timoroso di possibili conseguenze. Dalla parte georgiana, invece, la fila è lunga. Dobbiamo aspettare sul ponte che supera la ferrovia. Il caldo è terribile. Ci ripariamo nell’ombra striminzita di un furgone. Chiacchieriamo con alcuni uomini della fila. Finalmente arriviamo alla sbarra. Il poliziotto, in inglese, mi dice di accostare. In un lampo mi tornano in mente tutti gli episodi in Ucraina, Moldavia e in altri Paesi in cui mi facevano aspettare delle ore solo per chiedermi la mazzetta. Mi irrito in un istante. Provo a parlare inglese, sperando di avere più “peso”. Ancora peggio. Un doganiere, anche lui innervosito, continua a ripetermi di spostare la moto e metterla di lato. Urla. Caterina non capisce, soprattutto il mio stato d’animo, non avendo vissuto le mie stesse esperienze con, sostanzialmente, queste stesse persone. Lascio esattamente la moto dov’è, entro nel gabbiotto dove devo fare gli ennesimi, inutili documenti, e riprendo a parlare in russo: “Perchè dovrei spostare la moto??” “Non si preoccupi, è tutto ok! Passaporto e documenti della moto.” mi chiede conciliante la ragazza dietro il vetro. “Ecco a lei...” rispondo guardando fuori cosa succede. Il tipo si è allontanato. Il resto passa più o meno liscio. Siamo fuori! O meglio, dentro la Georgia. In tutto, le due frontiere hanno portato via circa tre ore. Guido veloce, per qualche decina di km il fondo è discreto e ci sono poche curve. Il pizzico mi dà sempre più fastidio, mi sento abbastanza male: stomaco, testa ... forse anche un po’ di febbre. Verso Tbilisi la strada peggiora notevolmente, danzo tra le buche, ogni tanto inciampo. Fortunatamente trovo subito la strada giusta verso nord. Ovviamente non ci sono cartelli, vado a naso chiedendo conferma di tanto in tanto. Ricominciano le strade dritte, il fondo è accettabilmente malandato. Imbrocco anche le due deviazioni principali, viaggiamo speditamente verso Nord. Il paesaggio, man mano che ci avviciniamo alla catena del Caucaso, torna a muoversi. Dolci colline rigate dalle viti, girasoli a perdita d’occhio. Di tanto in tanto un castello, una torre. Qui l’impatto sovietico è quasi assente, ci godiamo il paesaggio che ricorda molto le campagne italiane più belle. La luce è calda quando il giorno muore. L’ultimo guizzo, l’estremo regalo che fa agli uomini prima di nascondersi. Purtroppo non riesco a godermi in pieno lo spettacolo del tramonto su queste splendide colline, sto sempre peggio. Continuo a ripensare al primo viaggio all’estero che feci con Valerio, nel ’94, nell’Est Europeo. Il pizzico sulla gamba mentre andavamo verso Praga, poi quello sul braccio nel castello del Wavel, a Cracovia, che mi diede febbre e gonfiore e mi costrinse a fermarmi in un Pronto Soccorso in Ungheria. Spero di non dover ripetere. L’ultimo bivio prima di Sighnagh è sorvegliato da dei marziani in tuta bianca. Per terra c’è una grande distesa di segatura, a fianco degli erogatori chimici, quelli da disinfestazione. L’immagine è inquietante. Faccio momentaneamente dietro front per fare il pieno al benzinaio dall’altro lato della strada. Mangio qualche biscotto al volo, anche oggi abbiamo saltato il pranzo. Una macchina della polizia che ha visto la mia manovra entra nell’area di servizio. Ci guardano, li guardo. Con fatica riparto, non riesco a guidare. Di nuovo incrocio, passiamo sulla segatura, i disinfestatori ci guardano da dentro il loro casco, noi li guardiamo da dentro i nostri. Una bella scena di marziani. Per fortuna non ci bonificano a colpi di vaporizzatori.
Arriviamo a Sighnagh. É tutta in rifacimento con i soldi del presidente di una banca locale e forse anche dell’Unesco. Purtroppo somiglia ai tanti restauri “occidentali”: un po’ finto, stile Disneyland. Non si capisce più cosa è originale e cosa rifatto. La storia vissuta da queste abitazioni, piegate dal tempo e dagli eventi è stata edulcorata in un bagno di cemento e una distesa di sampietrini nuovi. Il tutto uniformato e appiattito sotto un abbondante strato di vernice brillante. Che peccato!
La casa è bella, dell’architettura tradizionale vista anche a Tbilisi. Molto legno, a partire dai grandi balconi che incorniciano ogni piano. Anche dentro il legno continua a farla da padrone, concedendo poco spazio ai mattoni, il minimo indispensabile. Una scala elaborata sale al primo piano. Il puzzo terribile della vernice che stanno dando alle assi del pavimento appesta il salotto al piano terra, dove si mangia. Nana dice che purtroppo non ha molto spazio, tra una settimana andrà meglio, finirà alcuni lavori, ma ora ha poco da offrirci. Rende abitabile una camera adibita nell’emergenza a magazzino. Dentro è ammucchiato di tutto, ma riesce a liberare quanto meno il letto e un piccolo passaggio dove mettere i piedi. 25 Lari con cena e colazione. Con l’inglese zoppica, ma appena sente che metto in fila due parole di russo, parte a ruota libera! Praticamente salto la cena, non riesco a mangiare nulla. Facciamo la conoscenza di Anders, uno svedese alto e magro come una cavalletta. Sta facendo un lungo giro in bicicletta, starà via qualche mese. Mi dà una crema da mettere sul braccio. Finalmente riesco a rilassarmi. Mi siedo sul divano sistemato nello stretto balcone. Appena Nana vede il mio braccio, mi chiede cosa è successo e subito scappa dentro. Torna dopo poco con un bicchierino pieno di una specie di vodka, molto alcolica. Inizia a passarmela sul braccio. Se penso a quante ne ha passate soltanto oggi il mio povero braccio ... dallo yogurt alla vodka! Sentiamo qualcuno entrare, al piano terra. Una forte voce, poi riconosco l’inglese parlato da un romano. Mi affaccio dalla mia postazione affondata nel divano e vedo un ragazzo, zaino in spalla, salire energicamente le spalle, seguito da Nana che spiega per l’ennesima volta la situazione di emergenza: “C’è posto solo in una stanza, in comune con un altro ragazzo!” “Ok, ok, no problem! Chiediamo a lui se va bene, per me non ci sono problemi!”
É simpatico, esuberante, cordialissimo. Anche lui prende a cuore il mio povero braccio. Ennesima crema. Mi sembra quella più promettente. La fame non mi torna, decidiamo di uscire. Chiediamo dove possiamo bere qualcosa, ci indicano una stradina in salita. Ci infiliamo in un vicolo senza illuminazione. In giro ci sono molti ragazzi. Arriviamo in cima, dove si apre una piazza con una specie di roulotte aperta che funge da pub. Siamo rapiti dalla meravigliosa, intensa stellata che ci protegge dall’alto. Cerchiamo ancora, ma pare che il meglio che possiamo avere per bere qualcosa sia la roulotte. Torniamo indietro, stanno per chiudere, ma li convinciamo a darci almeno un giro di birra. Anders ingolla la sua in pochi secondi. Evviva la Svezia! Ne ottiene una seconda, condita da abbondanti raccomandazioni di fare in fretta che devono chiudere e tornare a casa, a diversi km da qui. Mentre paghiamo ci avvicinano un paio di ragazzi visibilmente alticci che attaccano bottone. Il Cricchio inizia a scherzarci, con le due parole di russo che conosce e un po’ di inglese, completamente ignorato dall’altro. Solite battute sulla mafia da parte del tipo, rimandate al mittente dal Cricchio. Mi sembra che si stia creando un po’ di tensione, il tipo non mi piace, ma non riusciamo a togliercelo di torno. Carlo riesce a ricreare un’atmosfera scherzosa, anche se poco oltre alcuni ragazzi, anche loro ubriachi, giocano a tirarsi dietro sampietrini (!) presi da un grande mucchio in mezzo alla strada. Ci sediamo su delle scale, insieme a tanti altri ragazzi, compresi i “nostri” due ovviamente. Sono a pezzi, mi sgancio, anche Cate mi segue dopo pochi minuti. I letti sono sfondati, sembra di sprofondare in una vasca di gomma. Su una cassettiera sono appoggiati altri due materassi, proviamo a raddoppiare sperando che di guadagnare in consistenza.
Guardiamo per terra. Due fucili!! Erano nascosti sotto ai materassi. Non ci facciamo troppe domande. Li rimettiamo sulla cassettiera, sotto ad un materasso. Sistemiamo l’altro sul mio letto. La situazione migliora di poco. In tutto questo movimento perdo la penna. Cerco ovunque, nulla. Tra stanchezza e malessere reagisco bruscamente. Caterina non fa una piega. É mezzanotte e mezzo quando riusciamo a chiudere gli occhi. Da fuori arrivano i rumori di alcuni operai che spaccano le pietre a colpi di piccozza. Sono senza parole. Prego che smettano presto. 08/08/2007 - “La cornice del Grande Caucaso”
La strada è quasi sempre fiancheggiata da due filari di alberi: decine e decine di km di viale alberato. Il fondo è piuttosto malandato, ma ancora accettabile. Alla prima cittadina ci fermiamo per cambiare i soldi. Nella banca non cambiano gli euro, solo dollari! Siccome ne ho pochi, vorrei tenere la moneta americana per i Paesi che, lo so per esperienza, la apprezzano infinitamente di più: Uzbekistan e, ancor più, Turkmenistan. Chiedo a un signore dove posso cambiare degli euro, mi indica il mercato, poco oltre sulla destra. Un paio di isolati dopo svolto, come mi è stato indicato. Mi ritrovo in un bazar in miniatura, di quelli moderni però: bassi negozi in muratura, tanta confusione, ma nessuna suggestione particolarmente orientale. Siamo accerchiati da una selva di curiosi, tra cui un paio che ci chiedono se vogliamo cambiare. In queste situazioni l’unica possibilità è fidarsi e cambiare poco per limitare l’eventuale fregatura. Verifico la proposta del tipo con quello che avevo letto poche settimane fa su Internet, tiro un po’ sul prezzo, facciamo l’affare: 55 AZN per 50 €. La strada continua ad emozionarmi, il paesaggio è maestoso, il Caucaso impressionante. Mi vengono in mente i libri letti, ambientati in quelle vallate, su quei picchi, tutto così estremo, assoluto. Il paesaggio continua ad essere verde, contrariamente a quello che dovrebbe essere il Sud del Paese, semi stepposo e desertico. Rispetto alla Georgia, dove i cartelloni del Presidente erano piuttosto pochi, qui la loro presenza è molto più evidente e pervasiva. Decine di cartelloni giganteschi si affacciano un po’ ovunque: sulle facciate dei palazzi, lungo le strade, nei classici formati 16x9. I soggetti sono prevalentemente l’anziano ex Presidente, visto come il Padre della Nazione, oppure suo figlio, attuale Presidente in una sorta di regime dinastico. Più raramente altri uomini di potere. Le pose si somigliano tutte: concentrati al lavoro, mentre stringono la mano ai militari, sorridenti, in gesti imperiosi di incoraggiamento, con dei bambini, in mezzo agli anziani. Sono tutti molto a colori. Molti venditori di immensi cocomeri. Una macchina ci sorpassa col portabagagli spalancato e completamente stipato di angurie, posizionate a piramide. La punta cade in un ondeggiamento più accentuato e si infrange in mille schegge rosso sangue, in una lunga scia. Ci allontaniamo di qualche km dalla catena montuosa, ma continuiamo a fiancheggiarla in lontananza. Facciamo il pieno e prendiamo la deviazione principale per Seki. Cerchiamo il caravanserraglio, l’albergo che ci avevano indicato i ragazzi toscani a Tbilisi. Seki è un’antica città con il centro posizionato sotto delle colline verdissime di boschi. La parte storica, in pietra, è bella e ben tenuta. Troviamo l’albergo Kervanseray, ricavato appunto in una porzione dell’antico caravanserraglio, anch’esso sulla mitica Via della Seta. Appena spengo il motore davanti all’ingresso un tipo ci avvicina: “Tutto pieno, tutto pieno, non c’è posto!” “Ok, chiediamo ugualmente, magari nei prossimi giorni ...”, cerco di neutralizzarlo così. Il tipo non è dell’albergo e questo episodio non mi piace. Caterina entra, io aspetto sulla moto. “Non puoi stare qui, devi mettere la moto nel parcheggio!” mi suggerisce lo stesso tipo, indicando l’altro lato della strada. “Si paga?”, chiedo sospettoso. “No!” “Ok”, acconsento, visto che dietro di me c’è una macchina della polizia e vorrei evitare il pretesto per una multa in divieto di sosta. Faccio inversione, vado dall’altro lato della strada, faccio per entrare nel grande parcheggio quando vengo bloccato all’ingresso: “Dove va?” “Parcheggio!” “Sì, ma deve prendere la ricevuta, deve pagare!” Mi innervosisco in un istante, non gli rispondo nemmeno, rifaccio inversione e torno a mettermi esattamente nello stesso posto di un minuto prima, a lato della strada di fronte all’albergo. Aspetto che i poliziotti mi dicano qualcosa, poi deciderò eventualmente se spostarmi! Il tipo mi piace sempre meno, lo classifico come il classico maneggione che cerca di spillare quattrini ai turisti sprovveduti. Caterina esce dopo qualche minuto. Leggo la tristezza sul suo volto. Non dice una parola. “É pieno?” “Sì ...”, risponde quasi seccata. Sembra arrabbiata con me, mi innervosisco di nuovo. Il tipo si fa sotto nuovamente. “Pieno, vero? Io comunque ho una casa bellissima proprio qui dietro, vi affitto una stanza! Venite!” Caterina non spiccica parola, io sono stanco e sto male per il braccio, voglio trovare un letto al più presto. Lo seguo. Arriviamo davanti a un piccolo cancello di metallo, dipinto di bianco. Lo apre, entriamo, Caterina si impunta, non vuole seguirci. Il tutto senza dire una parola. Alla fine entra anche lei nel piccolo cortile pieno di piante. Alla base della scala che porta in casa ci togliamo le scarpe. Legno e vetro, non è male. Arriva la moglie del tipo, ci guidano in una stanza ridipinta di fresco. La puzza di vernice è forte, la faccia di Caterina disgustata. Inizia la trattativa. “Quanto viene?”, chiedo. “20 Manat”, risponde lui. “Ma è pazzo!”, esclama Caterina. Restiamo tutti in un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Lui torna all’attacco: “Qui si sta benissimo, la casa è bella, siamo in centro! Seki è tutta piena, non troverete altri posti.” Nella mia situazione accetterei di buon grado, Caterina invece non ne ha la minima intenzione. Non è nemmeno questione di prezzo, è un semplice “No” incondizionato. I due discutono tra loro: “16 Manat è il minimo”, propone la moglie. “No”, la risposta definitiva di Caterina che si avvia verso la scala per andarsene. Il tipo mi insegue chiedendo spiegazioni, non capisce. Mentre apriamo il cancello riguadagnando la strada, mi urla dietro: “Non troverete nulla a questo prezzo!” Io sono davvero irritato, non mi sento compreso da Caterina, la mia situazione di fatica e debilitazione. “E ora?”, le chiedo sconsolato. “Chiediamo in giro”, fa lei. Risaliamo in moto, scendiamo verso la parte moderna. Pochi metri dopo, sulla destra vedo una bancarella di frutta. Mi fermo. “Mi scusi, sa di qualcuno che affitta una stanza?”, gli chiedo sperando di trovare un posto a poco prezzo. “Sì, aspetta che ti ci porto!”, risponde. “Ma quanto costa?”, chiedo sospettoso. “20 Manat la camera e 1 Manat per me!” I favori a pagamento non mi piacciono e lo liquido subito con un: “No, grazie!” Pochi metri ancora, ci fermiamo in una piccola bottega, ricavata sempre all’interno del grandissimo caravanserraglio, che vende miele. Chiedo di nuovo di una stanza. La faccia del tipo sembra simpatica, forse riesce davvero ad aiutarci. “Sì, c’è un mio amico che ha una casa bellissima, in mezzo al verde! É a 5 km da qui, aspetta che lo chiamo”, dice avviandosi verso un telefono pubblico lì vicino. Restiamo in attesa. Torna, ci dà le indicazioni e un foglietto di carta col nome del tipo. Sto morendo di sete, gli chiedo se ha da bere. Tira fuori da dietro la porta una vecchia bottiglia di Sprite riempita chissà quante volte, opaca dal lungo utilizzo. É quasi vuota, decido di scolarmi ugualmente il poco fondo rimasto. Saliamo di nuovo verso la parte vecchia. Superiamo antiche mura di cinta ben conservate. Il fondo acciottolato è in condizioni disastrose. Chiediamo conferma, ci dicono di proseguire. Svoltiamo in un viottolo sulla destra. Un ruscello rende insidioso il fondo, scivoloso come sapone in una serie di buche e avvallamenti. Dopo un po’ la strada si restringe ancora, chiediamo informazioni a un ragazzino che ci dice di proseguire. La strada diventa sterrata, impreco, inverto la marcia. Figurati se vado a dormire in mezzo ai lupi, con km da fare in queste condizioni ogni volta che vogliamo andare in centro! In corrispondenza del ruscello e di quei metri dissestati faccio scendere Caterina. Leggiamo la guida, che parla di un triste e brutto Intourist nel centro moderno di Seki. Superiamo il caravanserraglio, il fruttivendolo, il negozietto di miele. Siamo nel caos del piccolo centro. Parcheggio sotto il palazzone dell’Intourist. Ovviamente scendo io e vado a chiedere il prezzo. Apro la squallida porta di alluminio e vetro, entro in un salone spoglio e triste dove un impiegato svogliato mi liquida con un: “30 Manat, la doppia senza colazione.” Pensa e spera che la questione sia finita lì, invece gli chiedo di mostrarmi una camera. Si alza controvoglia, prende una chiave e mi dice di seguirlo. Entriamo nell’ascensore, saliamo al 4° piano. Apre una stanza in tono con l’albergo: squallida. Mentalmente impreco, ma mi rifiuto di dormire in un posto del genere pagando di più della camera rifiutata poco fa, lontano dalla parte antica e senza colazione! Scendo, Caterina è nascosta da decine di persone che hanno accerchiato la moto. Fendo la folla, rispondo a qualcuna delle solite domande (“quanto costa?”, “quanto fa?”, “che cilindrata?”, “da dove venite?”, ecc). Mi accorgo che gli occhiali da sole sono spariti! Spero di averli messi in qualche borsa, ma mentalmente so già che non è così. Bene, proprio prima del vero deserto! Facciamo il giro della piazza e veniamo folgorati dal Seki Saray Hotel: bellissimo! Entro col solito imbarazzo di quando mi ritrovo in un posto elegante vestito di polvere e sudore. 80 Manat per un 5 stelle: possiamo farcela!
Pare che in Azerbaijan ci siano solo due hotel a 5 stelle: questo e un altro nella capitale, Baku.
Saliamo di nuovo verso il centro storico. Poco prima del caravanserraglio entriamo in una piccola bottega di un artigiano che costruisce scatole decorate. La base in legno è abbellita da placche di metallo incise. Si mette al lavoro, mostrandoci come decora il metallo battendolo con un piccolo martello. In pochi istanti sulla superficie liscia si crea un ricciolo di piccoli punti, poi un altro, alla fine appare un fiore.
Ci aggiriamo nei piccoli e piacevolissimi giardini all’interno delle mura. Su alcune panchine sono sedute alcune anziane signore del luogo. Una mi squadra con sguardo severo, ma appena mi rivolgo a lei si apre in un sorriso. Completamente d’oro. Se ne vedono molti di più da qualche giorno a questa parte: uomini, donne, giovani, anziani. Tutti sfoggiano con orgoglio uno o più denti d’oro. In questa zona del Caucaso il russo non è molto parlato, inizio ad avere anch’io dei problemi di comunicazione. Salutiamo, torniamo al caravanserraglio. Almeno il ristorante avrà posto! É ricavato in uno degli ampi cortili dell’antica struttura. Le stanze dell’albergo si affacciano tutte sul primo patio. Al centro delle fontane di pietra, canaline dell’acqua, in pietra scolpita, disegnano labirinti e rinfrescano l’aria. Ancora rose ed altri fiori.
Molti tavoli, nonchè le stanze dell’albergo (Caterina ancora non ha digerito l’assenza di posti letto), sono occupati da una numerosa comitiva di coreani che festeggiano non so cosa. Eccellenti costolette alla brace, verdure grigliate, insalata, due bottiglie d’acqua, arbus: in tutto 6 Manat, ossia meno di 7 euro!
Ho un attacco di mal di pancia, mi rifugio nel bagno del locale. Rientriamo nell’oscurità più totale, schivando buche, tombini scoperchiati, tubi di scolo dell’acqua crollati, crateri nell’asfalto. Arrivati all’albergo mi chiedono di spostare la moto dal giardino davanti all’ingresso (“Altrimenti si fermano tutti a guardarla, poi vogliono entrare, creano confusione!”) nel garage sul retro. Mi corico all’1:30, in forma scarsa: lo stomaco e la testa sono KO. |
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