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Giornate: 09/08/2007 - “Finchè c’è la salute ...”
L’indiziato principale per il mio malessere è la solita, classica infezione intestinale. Forse l’acqua che ho bevuto ieri pomeriggio dal venditore di miele, oppure il latte di Nana, ieri mattina. Comunque sono già alcuni giorni che non mi sento in forma. Più o meno dal pizzico in poi, forse le varie medicine al cortisone che ho preso e che abbassano le difese immunitarie. Verso le 10 la Tachipirina fa effetto, la febbre si abbassa. Lo stomaco è in tilt, completamente bloccato, ho le vertigini. Nausea, ma non riesco a rimettere. A mezzogiorno la febbre non è ancora tornata, ma sento lo stomaco concentrato in un punto doloroso, grande come un pugno. Il pizzico è in gran parte sfiammato . L’avambraccio è quasi del tutto sgonfio. Rimane una parte, larga 4 dita, rossa e sensibile. Appena la sfioro si scatena un prurito irresistibile. Le ore passano, mi sento sempre debole, con un malessere generale. Facciamo delle telefonate preparatorie per il traghetto sul Caspio, da Baku. Telefono ad un certo Gurban, che mi ha segnalato Dino qualche settimana fa. Ho la conferma che non sarà un affare semplice da risolvere, vedremo. Ci diamo appuntamento al porto di Baku, domani. In tutta la giornata riesco a mangiare solo uno yogurt. Mi immergo nella lettura di Terzani. A parte la particolare ammirazione che ho per lui, mi colpiscono, oggi più di ieri, le sue deduzioni esatte e lungimiranti, quasi profetiche, 16 anni dopo il suo viaggio in quella che oggi viene chiamata ex Unione Sovietica. Una piccola finestra, un breve assaggio gli avevano già fatto intuire differenze e possibili evoluzioni, poi effettivamente avvenute. Che uomo! E che sofferenza, per me, constatare ogni volta di più le aberrazioni di un sistema, parafrasando Gaber, nato sulle ali di un sogno, di un ideale immenso che voleva volare in alto, ma che ha finito per zoppicare rasoterra. Alle 20:30, con qualche linea di febbre, facciamo una breve passeggiata per prendere un po’ d’aria, cambiare i soldi [150 € = 175,35 AZN] e per controllare su Internet se hanno risposto da qualche albergo o B&B al quale avevamo scritto nei giorni scorsi. Nessuna novità. Cena in albergo: riso in bianco e purè. Tornando in camera vediamo una coppia di ragazzi che mangiano ad un piccolo tavolo dietro la hall. Sono allegri, hanno visi raggianti. Li salutiamo. Sono americani, lui lavora per una NGO mentre lei insegna inglese in una scuola. Lui, incredibilmente, ha il numero del porto di Baku. Un altro rispetto al mio. Domani proveremo anche questo. Per oggi basta, vado a dormire! 10/08/2007 - “Baku, la Napoli del Caucaso”
La strada peggiora, si balla molto, cerco di evitare le buche più profonde. Alcuni km prima che si ricongiunga alla principale che arriva da Tbilisi, l’asfalto praticamente scompare. Fuoristrada tra dossi e avvallamenti, per fortuna per pochi km.
Baku si presenta lentamente, con la solita periferia di palazzoni, più fitti via via che andiamo verso il centro. Verso il centro, si fanno moderni: a specchi, vetro e metallo, colorati. Meno di 10 piani non li prendono nemmeno in considerazione! Il traffico è molto caotico. Alcuni semafori, tra grandi strade a 3 o 4 corsie per carreggiata, vengono completamente ignorati. Fiumi di auto bloccate in ingorghi angoscianti. Diversi vanno contromano. La precedenza non esiste, le frecce sono un accessorio arancione da usare con estrema parsimonia, suonano all’impazzata a semaforo rosso, per passare. Guido con mille antenne all’erta, sfrecciano da tutte le parti ancora peggio che a Roma. Arriviamo finalmente al lungomare. Il grande edificio del porto in realtà non ha la biglietteria e il trasporto merci viene trattato da un’altra parte, poco più avanti. Seguo le indicazioni, mi infilo in un vicolo chiuso da una sbarra, sorvegliata da un poliziotto. Chiedo della biglietteria, mi indica una piccola porta di metallo, chiusa. Entro. Trovo un uomo in divisa della marina: è un capitano. Anzi, IL capitano, da come parla e da come lo trattano. Parla con una signora, piuttosto scortese. “Mi scusi, quando parte il prossimo traghetto per il Turkmenistan?”, chiedo speranzoso. In fondo non sono nemmeno le 14: nella mia ingenua mente occidentale immagino che un traghetto che impiega tutta la notte ad attraversare il Caspio, potrebbe anche partire in serata, potremmo farcela! “No, oggi non si parte”, mi liquida all’istante la signora. “Perchè?” “Cattivo tempo.” Si ripete esattamente il copione descritto dalla guida. Il tempo è magnifico, nemmeno una nuvola, ma viene detto che a causa del maltempo non si può partire. Forse il vento così forte alza troppo le onde? “Domani?” “Sì, forse domani parte.” “Forse?” “Dipende dal tempo!”, mi risponde seccamente, col tono di voler chiudere la conversazione. “A che ora devo venire, domani?” “Alle 9” “Ok ... ma a che ora parte, in genere, la nave?” “Non si sa, dipende”, risponde bruscamente. “Va bene, allora ci vediamo domani!” “Sì, alle 10!” “Ma non erano le 9?” “Le 9, le 10, fa lo stesso” Se lo dice lei! “Quanto costa il viaggio?”, chiedo, azzardando un’ultima domanda. “55 dollari a persona. Quant’è lunga la moto?” “2 metri” “Ah! Allora sono 92 dollari.” “92 dollari?!?” “Sì ... dimmi ancora, quant’è lunga la moto?” “2 metri!” “Allora sono 85 dollari” “Ok, posso fare subito i biglietti?” “No, si fanno quando parte la nave” “Va bene, allora ci vediamo domani alle 9?” “Sì!” Torno in strada da Caterina, le racconto le novità. Purtroppo i timori si stanno rivelando esatti: non c’è nulla di certo, solo da sperare di partire il prima possibile. Torniamo mestamente indietro. Decidiamo di restare all’Hotel Absheron. É vicino al porto, è decente e non costa nemmeno troppo (65 AZN). Pretendono il pagamento immediato, pratica che mi infastidisce sempre. Verso le 18 siamo di nuovo fuori. Sono curioso di visitare questa strana città, dalla lunga storia, ma dal presente ignoto. Prima, però, abbiamo appuntamento con Gurban. Non so se dargli buca oppure no, in fondo ho capito dove devo andare. Lo chiamo. “Ciao Fabio! Io sono impegnato, ma verrà Yassin, mio figlio. Sa già tutto, in ogni caso chiamatemi se serve qualcosa!” “Ok!” Dopo alcuni minuti arriva. Giovane, timido, parla poco e male sia inglese che russo. Quasi lo aggredisco, forte delle informazioni che ho raccolto nell’ultima ora. Demorde immediatamente e rimanda a domani, alle 9.
Vediamo Baku! Mentre andiamo verso la metro, noto un tizio che sembra seguirci. Faccio l’errore di chiedergli dov’è la stazione più vicina. “Ci sto andando anch’io, vi accompagno!” Non mi fido per nulla, mi sento a disagio e il tipo non mi piace. Ci fermiamo, un po’ per finta, un po’ seriamente, per fare delle foto. Il tipo si ferma e salta con gli occhi da noi alle persone intorno. Ha un fare sospetto e sospettoso. Decido che dobbiamo liberarci di lui, in un modo o nell’altro. Andiamo ancora avanti, poi ci fermiamo. “Di là, la stazione della metro è laggiù!”, ci esorta. “No, abbiamo cambiato idea, andiamo a piedi.” Il tipo sembra spiazzato, aspetta un po’. Facciamo per proseguire, superando la stazione della metro. Lui dietro. Arriva un gruppo molto numeroso di persone, forse uscite dalla metro. Ne approfittiamo per dileguarci. Entriamo finalmente nella metro. Mi metto in fila per il biglietto, quando un ragazzo con una faccia da coltelli si appoggia sul banco, di fianco a me. Lo guardo malissimo. Lui ricambia senza fare una piega. “Quattro gettoni, per favore”, chiedo alla cassiera. “Ce l’ha la tessera?”, mi chiede a sua volta. “No, non voglio la tessera! Solo quattro gettoni, il biglietto per la metro”, insisto, sempre col timore di spiegarmi male con il mio russo. Il tipo a fianco a me, mi spiega: “Serve la tessera, per ricaricarla”, poi, rivolgendosi alla cassiera, “pago io, viaggiano con me!” Ok, touché ... sembrava un rapinatore, invece ci risolve il problema della metro. Fa strada, inserisce la tessera e paga anche i nostri biglietti.
Scendiamo dopo alcune fermate, vicino al centro storico. Questo è completamente circondato da mura in buone condizioni. I palazzi intorno sono ben tenuti, hanno l’aspetto ottocentesco. I vari soviet-mostri non hanno contaminato questa parte di città. Ci addentriamo nei vicoli. É un misto tra Napoli, col suo caos di vicoli intricati e il mare a pochi metri e una città orientale, con il tipico stile delle finestre, dei palazzi, compreso quello dello Scià. Temiamo sia chiuso, è quasi sera e l’orario di chiusura è passato da un pezzo, ma la signora all’ingresso ci fa entrare senza problemi. Forse intasca i pochi soldi che ci chiede (2 AZN a testa e 2 per fare fotografie). Mi aggiro tra le rovine di questo palazzo, cercando di indovinare l’atmosfera di un tempo. C’erano anche dei bagni termali, la ovvia moschea privata, l’ancor più ovvio harem e tanti altri locali. La sensazione generale è di un restauro persino eccessivo, tanto è bianco e immacolato. In ogni caso è piacevole e ci regaliamo un’oretta di relax, chiacchierando e sfruttando la calda luce del crepuscolo per fare un po’ di foto. Usciamo e proseguiamo il giro nei vicoli. Compriamo qualcosa da mangiare, poi usciamo dalla città vecchia. Ci sediamo in un parchetto con panchine, giochi per bambini, aiuole fiorite, venditori di gelati e semi. Un quadretto piacevolissimo che potrebbe trovarsi in molte parti del mondo. Anche i palazzi che vediamo sono decisamente europei, nulla tradisce che siamo al confine con l’Iran, affacciati sul Mar Caspio. É una sensazione curiosa, che da un lato può essere piacevole, dall’altra ti fa tristemente toccare con mano la globalizzazione, per usare questo termine ormai abusato. Penso alle tante differenze annullate nel nome di una comune idea di sviluppo, con tutto quello che comporta in termini di culture locali, usanze. Proseguiamo la passeggiata verso il lungomare. Gli alberi sono sofferenti, cresciuti piegati dal vento furioso. Anche la parte del centro vicino la Torre della Vergine è carino. Cerchiamo un posto dove mangiare, ma nessuno ci attira particolarmente. Finiamo per cedere alle sirene di uno pseudo fast-food dove prendiamo i piatti più fritti e unti, come di consueto. La lunga passeggiata verso l’albergo è punteggiata dai cartelloni illuminati del Presidentissimo. Avrei proprio voluto vedere com’era ai tempi dell’URSS, in termini di propaganda “stradale”. Ci addormentiamo all’1. 11/08/2007 - “Il Traghetto dei Desideri”
Yassin, con cui ci eravamo dati appuntamento ieri pomeriggio, non c’è. Meglio così, mi toglie un imbarazzo. Torniamo nell’ufficetto scrostato e angusto di ieri. “Mi spiace, stamattina non parte sicuramente, il tempo non è buono ...”, mi annuncia la solita signora. “Ma ... è sereno!”, obietto senza troppa convinzione o speranza. “Questo è quello che ha deciso il capitano!”, chiude categoricamente. Caterina, ovviamente e prevedibilmente, reagisce male. Non è in grado di affrontare gli imprevisti, tutto è negativo e contro di lei. Potremmo cambiare itinerario, sarebbe solo un problema diverso. Non più la scadenza del visto, ma una diversa uscita. In ogni caso ci sarebbe qualcosa che non quadrerebbe.
Torno dentro la biglietteria, istigato anche da Caterina, per cercare di capire meglio di che morte dobbiamo morire. La signora si irrita. “Le ho detto che non so quando parte la nave, torni alle 15!!”, risponde aggredendomi. Torno a chiacchierare piacevolmente con l’ingegnere. La mia mente, però, continua a pensare al traghetto e a tutti i problemi che stanno nascendo e che aumenterebbero esponenzialmente col passare del tempo. Infatti per il Turkmenistan abbiamo un visto di transito (l’unico ottenibile senza troppi problemi, attesa e soldi) che dura 5 giorni. Ci stiamo giocando la possibilità di attraversare il Paese in tempo. All’improvviso, il terrore. Mica avranno capito che vogliamo andare in Kazakistan?! Da alcune battute a cui ripenso, potrebbe anche esserci questo dubbio. Torno dentro. La signora mi fulmina. “Signora, stia calma per favore. Vorrei solo essere sicuro che ci siamo capiti, noi dobbiamo andare in Turkmenistan, non in Kazakistan o da altre parti!” Un uomo in divisa, diverso da quello di ieri, mi chiede il passaporto. Osserva attentamente il visto, me lo restituisce con un gesto tranquillo, sicuro: “Va bene ... dov’è la moto?” “Fuori” Lo seguo. La misura: 2,5 metri. Ieri avevo detto 2 metri. Mi guarda, rassicurante: “Ok, tornate alle 17!” Ci capisco sempre meno. Sapevo che sarebbe stato problematico, ma non immaginavo tanta incertezza. I camionisti con cui parlo vanno in Kazakistan. Tutti. Avere il visto del Turkmenistan è un grande problema. Mi chiedo se averlo avuto sia una fortuna oppure no. Siamo indecisi su cosa fare. Non vorremmo andar via dalla, malgrado tutto, rassicurante posizione di fronte alla biglietteria. Seguo l’esempio di Nana e stringo con la pinza la cerniera della borsa da serbatoio. Miracolo!! Mi sento un cretino: saranno almeno 3 o 4 anni che funziona male e ogni volta perdo un bel po’ di tempo per fissare la borsa alla base. Dopo 13 anni di duro utilizzo, potevo pure pensarci ...
Ovviamente la Nave è il centro dei discorsi: partirà? Cosa ci nascondono? Si aspettano dei soldi, ma non lo dicono esplicitamente? É meglio chiamare Gurban? Quando torniamo alla biglietteria, alle 15 come ci avevano detto stamattina o alle 17 come mi ha detto il secondo personaggio? Ci sono cabine passeggeri? Avrà anche il ristorante oppure è solo trasporto merci? In tutto questo, aver perso il mio cellulare in Turchia, con molti numeri utili tra cui quello di Dino a cui potrei chiedere alcune informazioni, aggiunge incertezza e ansia. Nella piazza più animata del centro incrociamo di nuovo la coppia iraniana di stamattina. Per loro qui è già Europa: più liberta di costumi, apertura. Per ingannare il tempo decidiamo di andare al Tempio del Fuoco. Già che ci siamo, però, visto che passiamo davanti alla traversa della biglietteria, deviamo un attimo per sentire che aria tira. Sono le 13. La stradina è intasata di TIR. Fermo la moto e proseguo a piedi. Arrivo davanti alla biglietteria, saluto il mio amico ingegnere. Cerco di capire se sta succedendo qualcosa, con tutti quei TIR che sembrano dover partire da un momento all’altro. Non sa nulla. Mentre guardo imbarazzato la porta della biglietteria, indeciso se entrare o meno, vedo uscire un ragazzo. Sulle prime nè lui nè io capiamo le rispettive nazionalità. Alla fine mi decido per l’italiano: “Ciao!” “Ciao!” mi risponde un po’ sorpreso, “sai qualcosa del traghetto per il Turkmenistan?” “Ahah! Chiedi alla persona sbagliata, sono 2 giorni che sto cercando di capirci qualcosa ...”, rispondo tra il divertito e l’affranto. “Sei da solo?”, mi chiede. “No, c’è la mia ragazza più indietro, sta guardando la moto.” “Ah! Sei in moto??” “Sì ... tu?” “No, io sono a piedi.” “Che giro fai?”, gli chiedo incuriosito. “Pensavo di star via un anno, fare un giro in Asia.” “Senti, magari ne parliamo dopo con la mia ragazza. Ho visto che sei uscito dalla biglietteria, cosa ti hanno detto?” “Mi hanno detto che oggi sicuramente non partono. Devo tornare domani alle 9.” “É la stessa cosa che mi hanno detto ieri!”, rispondo, iniziando a deprimermi. “Ah!” “Va bene, dai, torniamo dalla mia ragazza, è da sola.” “Ok!” Ci avviamo, continuando a chiacchierare di viaggi e del Traghetto. Si chiama Dario, è giornalista. Passiamo di nuovo la sbarra sorvegliata da un ragazzino in divisa che si diverte ad abbaiare a quelli che si avvicinano. La fila di TIR è sempre ingarbugliata, facciamo fatica a passare a piedi. La stradina, stretta tra bassi capannoni quadrati in cemento, è ormai un bivacco. Un budello intasato che aspetta di evacuarci in mare. Nel frattempo un furgone s’è parcheggiato dietro la moto. Mi saluto col ragazzo alla guida. Dentro, al posto del passeggero, c’è un signore che dorme. Dopo qualche minuto il ragazzo mi offre uno di quei tipici beveroni russi alla frutta o altri aromi artificiali, leggermente frizzanti. “Dove andate?”, gli chiedo, anche se sono quasi sicuro che anche loro stanno andando in Kazakistan, come tutti gli altri. “In Turkmenistan.” “Ah! Anche noi! Siamo gli unici ... e non si hanno notizie del traghetto.” “Lo so ... abbiamo molta fretta, viaggiamo per conto dell’Ambasciata degli Stati Uniti.” Mi sembrano le persone giuste da tenere sotto controllo: hanno fretta e un “protettore” molto potente. “Comunque mi hanno detto di provare alle 16”, conclude il ragazzo.
Il caldo si fa sentire. Ci appoggiamo alla parete cercando un filo d’ombra. Chiacchieriamo, bevo la brodaglia marroncina, dolciastra. Passa un’ora. Ormai il Tempio del Fuoco è uscito completamente dalla nostra mente. Dalla strada principale arriva un poliziotto in divisa bianca. Quando ci passa davanti, ci squadra, mi indica e mi dice, perentorio: “Prendi i tuoi documenti, quelli della moto e vieni con me.” Poi, senza aspettarmi, riprende a camminare verso la sbarra e gli ufficetti. Gli altri mi guardano, il ragazzo del furgone fa il gesto dei soldi, mi dice “dollari!”, con un sorriso furbetto. Prendo i documenti e mi metto a seguirlo. É avanti di una trentina di passi. Supera la sbarra, devia a sinistra ed entra nel cortile di quella che sembra essere una caserma. Non mi aspetta, non si guarda indietro, non mi cerca. Faccio finta di niente e proseguo. Supero la porticina bianca, sempre chiusa, della biglietteria. Vado in esplorazione del resto del porto, che ancora non ho visitato. La stradina si apre. I capannoni ci seguono, ma a maggiore distanza. Fa capolino anche una fila di alberi stentati che almeno alleviano l’opprimente aria post-industriale. Sulla destra compare addirittura un ristorante scalcagnato. C’è un mondo qui! La strada finisce contro una sbarra molto più seria della precedente. Gli uffici della dogana! Mi avvicino ad una vetrata. Vedo un soldato. “Mi scusi, sa dirmi quando parte il prossimo traghetto per il Turkmenistan?”, gli chiedo con un riflesso condizionato. “Oggi no, domani! Alle 10!”, mi risponde aggressivo. Perfetto, aggiungo un altro orario all’elenco: 13, 15, 17, domani alle 9, alle 10. Secondo me se chiedesse anche Caterina, sparerebbero ancora altri orari. Inizio a innervosirmi. Mi intercetta un altro militare bianco vestito. Forse lo stesso di prima, non ricordo, non li riconosco. Superiamo la sbarra della dogana. In lontananza, sulla destra, intravedo il mare: allora esiste! Entriamo nel basso e tutto sommato moderno edificio della dogana. Il suo ufficio è una piccola stanza con una scrivania, un computer, un paio di sedie ed alcune belle cartine appese alla parete. “Passaporto, documenti della moto e dichiarazione, quella che le hanno dato all’ingresso nel Paese”, mi chiede gentilmente. Ancora non riesco a capire se si sta davvero muovendo qualcosa, se stiamo per partire, oppure se è tutta una manovra per iniziare a chiedermi soldi. O entrambi. Sbatte un po’ di tasti al computer, sfoglia i documenti, apre un cassetto, infila tutto dentro, lo chiude. “Porti qui la moto”. “Ok, torno subito”, rispondo uscendo. Continuo ad essere perplesso. Faccio la strada a ritroso, tutto sommato contento che qualcosa si stia muovendo. Finora sembrava quasi che stessimo chiedendo di un traghetto fantasma, del risultato di una fantasia notturna o di un sogno di bambino. Prendo anche Caterina, salutiamo Dario e il ragazzo del furgone USA. L’altro tizio all’interno dorme ancora. Riesco a districarmi tra i TIR, superiamo la prima sbarra col ragazzino abbaiante, che ci scruta con uno sguardo attento, ma ottuso. Superiamo anche la seconda sbarra, quella “seria”. Ci fanno passare. Evidentemente hanno già ricevuto ordini. Siamo entrambi, io e Caterina, di nuovo davanti al militare bianco vestito, nel suo ufficio, in piedi. Scrive, telefona, lavora al computer. Non capisco se per la nostra pratica o per altre persone. Non capiamo e non ci fa capire. Ormai siamo in balia degli eventi, non ci lamentiamo nemmeno più. Lasciamo solo che tutto accada, prima o poi gli eventi prenderanno il loro flusso, tra un ostacolo e l’altro, come un ruscello di montagna tra rapide, pietre e cascatelle. Provo a immaginare a vivere in un simile sistema, dove non capisci, non ti fanno capire mai cosa sta succedendo. Mi perdo in una cartina al muro. Traccia le moderne Vie della Seta. Sono i tracciati commerciali delle merci, attraverso Turchia, Mar Nero e provenienti da Romania, Bulgaria, Moldavia, Ucraina. La Russia, non troppo stranamente, è bianca. Nessun canale proviene dai recenti oppressori. Tutte le linee convergono nel Caucaso e, nel Caucaso, tutto si raccoglie in un unico punto: il porto di Baku. A giudicare dalla fila qui fuori, una ventina di TIR ingarbugliati a dovere, qualche macchinario e poco altro, sembrerebbe che queste rotte siano semi abbandonate. E ci credo! Con tutte queste frontiere, complessità, incertezze! Mi riprendo dai miei viaggi mentali e chiedo chiarimenti al militare. “Stiamo ancora aspettando la nave dal Turkmenistan, c’è stato un problema con un treno che portava delle auto e delle merci. Anche il mare ... è stato molto agitato”, ci spiega, sempre in tono gentile, “ho registrato tutti i documenti della moto. La nave partirà sicuramente domani”, dice sottolineando la parola “sicuramente”. Sull’orario, però, è di nuovo incerto: “Alle 9 ... massimo alle 10 di domani, la nave parte.” “I biglietti?” “Non vi preoccupate, si fanno sulla nave”. E la biglietteria? mi chiedo tra me e me.Per il momento siamo saturi, vogliamo uscire da questo posto e pensare ad altro. “Potrebbe ridarci i documenti? Andiamo in città, dobbiamo trovare un albergo per la notte”. “Ecco! Allora a domani”. “Sì, grazie!” Salutiamo tutti, anche Dario. Andiamo all’albergo che ci ha indicato, il Canub. Fuori sono parcheggiate un paio di auto, una con targa francese e l’altra spagnola, con gli adesivi del Mongol Rally. Non so cosa sia, ma sembra interessante! Costa meno dell’Absheron e si capisce anche il motivo. Ci lanciamo in una lunga contrattazione. Il ragazzo della reception è simpatico, ma non cede di un Manat. Nel frattempo scendono un paio di ragazzi francesi. Gli chiedo informazioni e mi dicono di prendere una camera “lux” perchè le “standard” sono improponibili. Ci fidiamo, non fosse altro per la stanchezza fisica e mentale. Proseguiamo la trattativa. Chiedo di poter vedere una “lux”. Salgo le ampie scale. Il logoro tappeto rosso arriva fino al primo piano, poi solo la classica pavimentazione a graniglia. Ad ogni piano la solita scrivania della dejurnaia. Arrivo al terzo piano, come mi aveva detto il tipo della reception. Intercetto la signora del piano che mi precede fino al presunto “ufficio”, che altro non è una stanza come le altre, ma piena di lenzuola, asciugamani, sedie, un tavolo apparecchiato con un paio di persone che mangiano e una parete piena di chiavi. Ne sceglie una. Mi fa strada, sempre senza dire una parola. La porta si apre in un forte cigolio. Vengo investito da un intenso odore di stantio. Sembra a posto e la desiderio di riposo fa il resto. “Ok”, le dico. La signora nemmeno mi guarda. Aspetta che io esca dalla stanza, chiude la porta dietro di me e mi segue. Sempre senza spiccicare parola. Torno alla reception. Ci accordiamo per 50 AZN, camera “lux”, colazione inclusa. Prima di salire incrociamo i ragazzi spagnoli del Mongol Rally. Scambiamo due chiacchiere al volo, ripromettendoci di vederci più tardi. Facciamo una doccia, riposiamo un po’. Paolo Conte mi rilassa la mente e il cuore. Note calde, di casa. Almeno questo albergo è più centrale.
Leggiamo sulla guida di un hotel di lusso con un bar in cima al grattacielo, con una terrazza panoramica. Troviamo il posto. L’edificio è di lusso. Niente di nuovo, comunque: il classico vetro e acciaio, altissimo nei suoi oltre venti piani. Moquette, porte a vetri automatiche, batteria di ascensori che si alternano come pistoni, in questo grande motore a 5 stelle. Penso di avere un aspetto orribile, in ogni caso ci trattano con ogni riguardo. Siamo clienti in fondo. Quanto meno potenziali, ma questo lo sappiamo solo noi. Il bar è ampio, elegante, luminosissimo nelle sue ampie vetrate che occhieggiano sulla città a 360 gradi. Usciamo sulla terrazza. Iniziamo a girare in tondo, osservando tutto dall’alto, stupiti e affascinati come bambini. Ho sempre amato le viste dall’alto. Danno un’altra prospettiva, sia verso il basso facendoti cogliere dettagli altrimenti invisibili e sia verso l’alto, dandoti una sensazione di potenza. Capisco Icaro. Si libera un tavolino esterno. Ci sediamo. Agguanto un menù, mi spavento. Prezzi occidentali, ma le nostre finanze sono allineate a quella della gente del posto. In altre parole, non riusciremmo nemmeno a comprare una birra. Ci alziamo con nonchalance, tornando a godere del tramonto appoggiati alla ringhiera. Intorno a noi gente elegante, alcuni in abito da sera. Alcune sembrano “dame di compagnia”, ma c’è da aspettarselo in un posto del genere. Torniamo rasoterra, in mezzo alle formiche che vedevamo dall’alto. Ci concediamo un sapore conosciuto, uguale in tutto il mondo: Mc Donald’s. In ogni caso rubo solo qualche patatina a Caterina e chiudo con un gelato. Lo stomaco non è ancora a posto. Nella passeggiata notturna di ritorno in albergo, scendiamo in un supermercato ricavato nel seminterrato di un palazzo. É aperto tutta la notte. Facciamo la spesa in previsione del lungo passaggio in traghetto. Cerchiamo di finire tutti i soldi. Il gestore è un immenso palestrato. Iniziamo a parlare, vuole prima vendermi dei super alcolici, poi dei profumi. Usciamo carichi di biscotti, verdure in scatola, succhi di frutta. Lungo la strada escono tutti i nostri dubbi sul traghetto, se e quando riusciremo a partire, sul tempo che abbiamo perso e, soprattutto, sul visto di transito del Turkmenistan, di cui abbiamo già “bruciato” 2 dei 5 giorni disponibili. É ancora presto quando mettiamo piede in albergo, ma ho sonno e ho voglia di godermi un paio d’ore tranquillo. Leggere, scrivere. Caterina lascia alla reception un messaggio per Dario e uno per gli spagnoli. Ci chiamano. Non ho per niente voglia di parlare con altre persone, ma mi lascio convincere per una chiacchierata veloce in corridoio. Ci sistemiamo su uno dei divani logori posti di fronte alle scale. Quattro per ogni piano. Siamo Cate, Dario e io. Parliamo un po’ dell’idea di Dario, delle prossime tappe, del suo lavoro e, ovviamente, del Traghetto. Dopo una mezz’oretta sale un tipo mai visto prima. “Di chi è la moto qui fuori?”, chiede in un inglese stentato, con un tono che non mi piace per niente. Sono indeciso se dire che è mia, perchè già prevedo rogne. O meglio, soldi. Comunque, per capire dove vuole arrivare, rispondo: “Mia, perchè?” “Devi pagare per tenerla lì”. “Per tenerla sul marciapiede devo pagare??” chiedo in russo, sperando di fargli capire che non sono uno sprovveduto totale. “Sì”, mi risponde, sempre in inglese. Quindi, ovviamente, capisce il russo, ma continua in inglese. Mi innervosisco in un attimo. Non ho intenzione di pagare questo imbecille per una guardia che non farà, poi sono nervoso e mi sono anche stufato di foraggiare questi personaggi. “Non ti dò un dollaro per tenere la moto all’aperto!”, gli rispondo, di nuovo in russo. Si innervosisce anche lui e controbatte, stavolta in russo: “Hai 10mila dollari di moto ... e mi dici che 2 Manat non vanno bene??” Questa minaccia non troppo velata mi fa perdere le staffe. Gli mostro il portafogli appena svuotato al supermercato. Sbotta a ridere, sarcastico e mi fa la carità, mettendomi in mano 10 Manat. Lo guardo carico di astio. Contraccambia. Scende. Mi rimetto a sedere. Sono nero, ho un gatto furibondo che si agita nello stomaco, una tigre che urla nella testa. Continuo a pensare alle sue minacce, a cosa potrebbe facilmente fare alla moto. Dopo 10 minuti non resisto e scendo. Alla reception c’è lo stesso ragazzo del pomeriggio. Sembrava gentile. Agitato come sono parlo in inglese, faccio molto prima e sono più preciso. All’inizio fa finta di non capire di cosa e chi sto parlando, poi arriva l’energumeno, quasi urlando: “Cosa c’è che non va?!”, rivolgendomi un’espressione truce. “Eccolo, è lui!”, esclamo indicandolo. Il receptionist capisce che non può più far finta di niente: “Non si preoccupi, non c’è nessun problema” ed inizia a parlare in azero col tipo, in modo che non possa capirli. L’energumeno si zittisce, capisce che è inutile discutere ora. Ha tutta la notte a sua disposizione. “Sì, ma sto tranquillo per la moto? Non mi fido di lui”, chiedo ansiosamente. “Sì, stia tranquillo”. Ovviamente, non sto tranquillo. “Sa dove si trova un parcheggio custodito?”, gli chiedo, preferendo non dare i miei soldi ad un bandito. “Sì, è vicino alla metropolitana”. Esco, inizio a camminare velocemente, accecato dall’ira. Non trovo nessuna stajanka. All’incrocio vicino alla metropolitana vedo un banchetto tenuto da un paio di tipo. Chiedo informazioni: “Mi hanno detto che qui vicino c’è un parcheggio, sapete dov’è?” “Parcheggio per cosa? Auto?” “No, moto”. “Puoi lasciarla qui allora!” “Quanto?” “2 Manat!” Neanche gli rispondo, ormai è una questione di principio. Torno in albergo. Passo davanti al receptionist senza salutarlo. Non vedo più l’energumeno. Trovo così come li avevo lasciati, Caterina e Dario. Gli racconto brevemente l’accaduto. Dopo altri 10 minuti non resisto e scendo nuovamente. Sorpresa! L’energumeno è il portiere di notte!! Ora mi sento davvero INsicuro! Salgo di nuovo, prendo le chiavi della moto e la lego alle sbarre di una finestra del seminterrato dell’albergo stesso. Doppio bloccadisco e allarme. É tutto quello che ho, spero basti. Mi corico all’1 di notte. Alla mia irritazione si aggiunge il pensiero che se non fossimo usciti sul corridoio starei già dormendo da almeno 2 ore e non avremmo incontrato lo spregevole individuo, che avrebbe rinunciato al pizzo. Mentre ora è irritato anche lui e potrebbe vendicarsi in mille modi. |
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