Sommario del sito

SamarCaLda 2007

Tragitto ideato per SamarCaLda 2007
Tragitto

Informazioni utili per SamarCaLda 2007
Info utili

Diario di viaggio di SamarCaLda 2007
Diario

Letture consigliate per SamarCaLda 2007
Letture

Soste previste per SamarCaLda 2007
Soste

Galleria fotografica per SamarCaLda 2007
Foto

 Diario di viaggio SamarCaLda 2007

Pagina precedente
Pagina 7

Pagina 8 (di 11)
(Baku (AZ), traghetto sul Caspio, Turkmenbashi, Ashgabat (TM))

Pagina successiva
Pagina 9

Giornate: 
12 agosto 2007 - “Finalmente a bordo”
13 agosto 2007 - “La dogana infinita”

12/08/2007 - “Finalmente a bordo”
Mi sveglio con un forte mal di testa da tensione. Nel dormiveglia ho pensato di scrivere al Consolato del Turkmenistan di Vienna, dove ci hanno fatto i visti. Forse possono aiutarci. É tardi per riuscire ad avere una risposta, ma forse riusciranno ad avvertire le autorità.
Doccia, chiudiamo i bagagli per l’ennesima volta, colazione. Caterina sfoga nella stanza la sua rabbia per il trattamento ricevuto. Non le chiedo cosa ha fatto, me lo dirà dopo.
Troviamo un Internet Cafè aperto, anche se è domenica. Mando la mail al Consolato e speriamo bene.

 

 

Baku

 

Vicolo cieco ferroviario
(63 KB)

 

Alle 10 arriviamo al porto. La strada è bloccata, nell’ultima parte, da una lunga fila di vagoni merci. Li stanno caricando. La nave esiste!!
Appena faccio per varcare il secondo passaggio a livello con la moto, una guardia mi ferma:
“Biglietti?”
“Non si comprano a bordo?”, chiedo stupito.
“No”, è la sua risposta secca e perentoria.
“Devo comprarli alla biglietteria laggiù?” e indico vagamente verso il l’Ufficetto.
“Sì”.
“Grazie ...”
Sono senza parole. Torno indietro in moto. Pare che la nave partirà alle 13. Entro nell’Ufficetto e il solito tipo in uniforme bianca mi dice, veemente:
“Perchè non sei venuto ieri alle 17?! É partita una nave ...”
Rinuncio a capire, non mi faccio altre domande. É però un dato di fatto che non ho più visto, nè ieri nei vari giri nè tanto meno adesso nel piazzale della partenza, il furgoncino dell’ambasciata USA. Forse a Dario hanno detto di tornare il giorno dopo per provare a chiedere dei soldi anche a lui ... e forse davvero parte una nave al giorno. Però mi sembra strano perchè adesso stavano ancora scaricando i vagoni, quindi vuol dire che la nave è arrivata da poco, non può aver fatto andata e ritorno in così poco tempo e non credo che ci siano addirittura due navi per un servizio del genere. Potrebbe anche essere, però ... É letteralmente impossibile capire, questa incertezza mi manda al manicomio!
Rimuginando ancora sul Traghetto, mi siedo davanti al tipo senza capire se mi sta facendo i biglietti o si sta facendo gli affari suoi.
Poi alza lo sguardo e inizia un lungo monologo su quello che sa dell’Italia. Devo dire che è ben informato: mi parla di Licio Gelli, Aldo Moro, poi dei vari cantanti, di Celentano che è un artista completo (canta, balla, recita), non come Toto Cutugno, del quale poi intona un improbabile e stonato “Lasciatemi cantaaaaaaaare”! Poi va col pensiero a Ornella Muti, Marcello Mastroianni. Mi spiega la storia della FIAT in Unione Sovietica, dei vari intrecci tra Torino, Roma e la mafia di Palermo per aprire lo stabilimento a Togliattigrad.
Questo è, purtroppo, uno dei casi in cui non godo di capire 70 parole di russo su 100, ma soffro nel perdere quelle 30 che non mi fanno capire fino in fondo il giro di soldi (parla di 40 miliardi di dollari dell’epoca, gli anni ’60) e soprattutto gli accordi, i sotterfugi, i compromessi per costruire una fabbrica prima a Togliattigrad e poi una, più piccola, in Polonia.
Dopo la lunga digressione, mi chiede 100 dollari per il biglietto della moto.
“Ieri mi aveva detto 85!”, gli faccio notare senza tanti complimenti.
“Sì, ma mi aveva detto che erano 2 metri, invece sono 2 e mezzo!”, puntualizza stancamente.
Poi ci pensa su e propone:
“Facciamo così: 70 il biglietto e 15 per me, che fanno gli 85 che avevo chiesto ieri. Ma non dirlo a nessuno!”
Credo sia una delle prime mazzette che pago in vita mia. In ogni caso, questa storia del Traghetto mi ha annichilito. Accetto senza nemmeno protestare, incredibile.
Con le banconote che ho arrivo a 90$.
“Aspetta, ti dò il resto in Manat”, propone.
“Eh no! Sto lasciando il Paese, non mi servono più i Manat”, pensando, ovviamente, al fatto che i Manat sono quasi carta straccia in confronto al dollaro.
“Va bene ...” risponde iniziando a cercarsi in tasca. Mi dà il resto:
“Ora devi fare i biglietti per le persone. É l’ufficio qui accanto: quando esci, sulla destra”.
“Ok, grazie”, rispondo senza tanto entusiasmo all’idea di entrare in un altro Ufficetto aleatorio.
In effetti trovo un’altra porticina simile all’altra: bassa, dipinta di bianco, nel muro senza finestre. Dentro trovo una donna con una maglia di un arancione acceso e un’altra, in fucsia, grassoccia, flaccida, con gli occhiali e l’arroganza di chi ha un po’ di potere da esercitare.
“Ci sono turisti qui a Baku?” le chiedo cercando di provocarla, visto che tutta la situazione mi ha alquanto stancato.
“Sì!” risponde prontamente.
“Bè, pochi ...”
“No, molti turisti, molti!”
Come no ... Mi guardo intorno: la stanza è ancora più piccola dell’altra, sui 5 mq. Ci sono un paio di sedie sgangherate, oltre alle loro. In terra la formica, su un tavolino la TV perennemente accesa, un ventilatore puntato addosso, una lampadina che penzola da un filo dal soffitto.
Mi chiedono in continuazione cosa scrivo. Quando poi si accorgono che scrivo con la sinistra, scoppiano in una fragorosa risata. Ora che ci penso, in molti fino a oggi hanno riso e mi hanno guardato incuriositi quando hanno visto che sono mancino: prima Nana in Georgia, poi le signore nel parco del Palazzo dello Scià a Seki, ieri il militare vestito di bianco e tanti altri nei giorni scorsi.
Iniziano a parlare tra loro in azero. Questa lingua ha un suono cantilenante, tonale: ricorda il giapponese.
“Dormi?” mi chiede la signora in arancione.
“Sì”, rispondo incerto. Non capisco bene la domanda.
“Allora sono 100 dollari a testa”, esclama soddisfatta.
“No! Scusi, non avevo capito. Non vogliamo la cabina”.
“In questo caso, 55 a testa”.
“Ok”.
Sono curioso di vedere se almeno in questo caso la LP indovina. Dice, infatti, che una volta a bordo ci verrà offerta una cabina a pochi dollari: 20, 30 o poco più.
Nel frattempo è entrata un paio di volte una donna in atteggiamento assolutamente servile, come se si stesse presentando davanti alla Principessa del Reame Portuale, Gran Duchessa del Ducato Marittimo e Contessa dei Traghetti. In effetti l’atteggiamento della signora grassa, in fucsia, è proprio questo, trattando l’altra come una pezza da piedi. Poi questa si calma e riescono a parlare decentemente, come due esseri umani che interagiscono e collaborano.
La signora in arancione finisce di scrivere la ricevuta dei biglietti e me li passa. Pago e faccio per uscire, quando mi chiede:
“Mi dai 1 dollaro?”
“Vallo a chiedere al capitano! Mi ha fatto pagare 85 invece di 70!”, rispondo sarcastico.
“Va bene ... tornate alle 14. La nave partirà alle 17 e arriverà alle 5 del mattino, il 13”.
Il visto turkmeno scade il 14. Impossibile attraversare il Paese in così poco tempo. Un peccato, oltretutto. Ma ormai...
Ringrazio e torno da Caterina. Aspettiamo un po’ vicini alla seconda sbarra, poi cerco di avere una conferma dell’orario, le 14. Entro nella palazzina moderna della dogana. Mi dicono di portare lì la moto. Torno indietro a prenderla, ma appena provo a entrare in sella a Nelik, mi fermano due militari. É un incrocio tra le guardie di “Non ci resta che piangere” (“EH!” “Eh?” “Dove andate?” “In Spagna...” “Quanti siete?” “Due siamo, io e lui...” “E cosa portate??” “Caciotte, altro...” o giù di lì) e i palazzi del potere del “Processo” kafkiano.
Registrano i passaporti.
“Ci sono altri controlli?”, chiedo al militare mentre mi restituisce i passaporti.
“No”
Appena mi giro per andare a prendere la moto, vengo bloccato da un urlo animale:
“Ooooooohh!!”
Mi giro, dicono a me.
“E perchè non me lo dite?! Il suo collega mi ha detto che non c’erano altri controlli!”
Il metal detector, manco a dirlo, suona. Forse ha sentito il coltello. Prevengo un’ispezione più accurata mostrando subito il gruzzolo di monete che ho raccolto per ricordo fino a oggi. Ci sono anche quelle armene, storici nemici degli azeri.
Mi torna in mente il racconto fattoci prima dagli spagnoli, quando alcuni giorni fa, alla dogana azera, una guardia ha afferrato la LP di uno di loro e, vedendo segnato il Nagorno Karabakh, ha iniziato a ripetere: “Big problem!”, col risultato che gli hanno chiesto dei soldi e gli hanno sequestrato le cartine e le guide. Peccato che non sia capitata a me una guardia del genere, mi sarei sfogato per benino!!
Dopo il metal detector si esce dalla palazzina. Chiedo a una guardia se i controlli sono finiti.
“Sì”, risponde pigramente.
Torno indietro, prendo la moto, accendo e inizio a cercare una via d’uscita verso il traghetto. Alcuni poliziotti mi guardano, ma non dicono nulla. Chiedo a due signori che stanno chiacchierando da un lato.
“Da dove si sale sul traghetto?”
“Da lì”, risponde uno, indicando sulla sinistra un’apertura e un viottolo di cemento che sale verso la nave. Faccio per entrarci quando arrivano, contemporaneamente, un urlaccio e un fischietto suonato a pieni polmoni.
“Dove vai?!?” mi chiede la prima guardia che mi raggiunge trafelata.
“Sulla nave”
“Ma non hai finito i controlli!!” risponde alterato.
“Il suo collega”, indico vagamente all’interno della palazzina della dogana, “mi ha detto che avevo finito!”
“Devi controllare i biglietti!”
“Mi poteste dire direttamente tutte le cose che devo fare?!”, urlo alterato a mia volta.
Rientro nella palazzina. Mi indicano il tavolo successivo al metal detector, che suona ancora. Nessuno ci fa caso. Dò i biglietti al militare.
“Dove andate?”
“In Turkmenistan”, rispondo sbuffando.
“Allora questi biglietti sono sbagliati”.
“COSA?!?!”
“Sono per il Daghestan”, mi dice con un tono piatto di voce.
“?!?!”
Sono senza parole ... solo parolacce.
Il militare inizia a parlare con il suo vicino del metal detector. Io ribadisco la destinazione Turkmenistan e non riesco a capire come la signora abbia potuto sbagliare. Forse un altro trucco per provare a spillarmi quattrini.
Dopo qualche istante la prima guardia mi dice di non preoccuparmi.
“Tutto ok, non ci sono problemi”.
Non mi fido più di nessuno, ma in questo micro-mondo alla rovescia che è il Porto di Baku, non so nemmeno cosa fare, l’ordine è sovvertito, cerco solo di restare a galla in questa marea incerta e inquieta.
“Non si preoccupi, però si sbrighi, vada a chiamare sua moglie”, mi esorta il militare.
Vado a cercare Caterina che, come sempre in viaggio, spaccio per mia moglie.
É rimasta indietro, sta chiacchierando con gli spagnoli. Compriamo qualcos’altro da mangiare al mini market del mio amico ingegnere poeta.
Dopo pochi minuti torniamo. Sono le 12:05. La dogana ha chiuso. Riapre alle 14.
Vorrei spaccare qualcosa, ma sono in vacanza. Conto fino a 10 e cerco di calmarmi. Ormai ci siamo, la nave è lì davanti a noi. É solo questione di tempo.
Caterina invece mi fomenta. Ormai odio l’Azerbaijan e tutti gli azeri. Continua a inveire contro tutto e tutti. Mi sembra eccessiva, non mi piacciono queste chiusure totali. In fondo ogni esperienza ha un valore, arricchisce e, a parte questo porto assurdo e l’imbecille di ieri sera, non abbiamo avuto particolari problemi.

 

 

Baku

 

Men at work
(64 KB)

 

 

 

Baku

 

Vespa Dakar
(74 KB)

 

 

Baku

 

Sabbia ... arrivo!
(45 KB)

 

 

 

Baku

 

I predatori del Traghetto Perduto
(45 KB)

Parliamo un po’ con gli spagnoli e i francesi. Aiuto Jaime a cambiare gli pneumatici della Vespa: non li avevo mai visti tassellati! Bellissimi!
Ci “risvegliamo” che sono le 14. Torniamo verso la sbarra e ... sorpresa! La nave attraccata, che mi avevano detto essere diretta in Turkmenistan, è PARTITA! In Daghestan? Abbiamo perso il traghetto e dovremo aspettare un altro giorno casuale?
Ancora non si può entrare, inutile affannarsi. Torniamo dai ragazzi a raccontargli l’ultima novità. Dopo un po’ di tempo arriva un tizio mai visto prima, vestito normalmente, senza divisa:
“Dovete pagare le tasse portuali!”, mi dice direttamente, senza nemmeno chiedermi il nome o altre informazioni.
Lo seguo. Entriamo in un altro palazzo, stavolta vecchio e malmesso, vicino al ristorante. Salgo le scale dietro il tipo. Nella stanza in cui entriamo è seduta una signora simpatica, gioviale. Finalmente una persona con un sorriso.
“Fanno 10 dollari”
“Ah! Nessuno mi aveva detto che dovevo pagare le tasse portuali ...”
“Eh ... vale per tutti! Siete studenti?”
“No, operai”, gli dico, non ricordandomi il termine russo di impiegato. E poi penso gli faccia piacere questo termine sovietico.
“Ah! In giro per il mondo, bene!”, esclama con un sorriso.
“Sì, siamo in ferie”, le spiego.
“Anch’io!”, esclama ridendo, mentre compila la ricevuta.
Torno al molo. É arrivata un’altra nave, la stanno scaricando. La sbarra sulla quale ci stiamo aggirando da un paio di giorni, in realtà è un passaggio a livello. Due binari arrivano fin sotto al molo. Stanno uscendo due convogli, uno per ciascun binario, a pochi centimetri l’uno dall’altro. Due motrici, ancora con i simboli dell’Unione Sovietica e una sfilza di vagoni, qualche decina di metri. Non capisco i movimenti. Prima vengono fuori lentissimamente, per una cinquantina di metri. Poi, sempre al rallentatore, li rimettono dentro.
[Mi piacerebbe molto poter scrivere “The End” al capitolo Azerbaijan! Ma ci vorranno secondo me altre 3 ore! - Nota di Caterina]
Dopo un quarto d’ora, dall’intestino della nave estraggono nuovamente i vagoni. L’enorme bocca nera ha queste due enormi tenie che lentissimamente escono, quasi con sofferenza.
Incontriamo due ragazzi israeliani. Anche loro vanno in Kazakistan. Praticamente nessuno, a parte Dario che ha una guida ufficiale appioppatagli dal governo turkmeno che lo aspetta al porto di là dal mare e che lo accompagnerà per tutta la sua permanenza, nessuno è riuscito ad avere un visto per il mitico Paese di Turkmenbashi, ossia del Capo di tutti i Turkmeni. Come pensavo anche nei giorni scorsi, ancora non so se la nostra è stata una fortuna o una sventura, visto che è ormai sicuro che ci scadrà il visto mentre saremo ancora dentro e dovremo fare una strada diversa da quella scritta sul tagliando adesivo appiccicato nel passaporto.

 

Baku

 

Quando passa il prossimo?
(61 KB)

Ci sediamo in attesa sotto una tettoia in cemento, un po’ più grande di quelle classiche delle fermate dell’autobus. Assieme a noi ci sono una quindicina di persone. Alcuni fumano, molti mangiano, tutti parlano. Vengo a sapere da un paio di loro che il biglietto che noi abbiamo pagato 55 dollari, in realtà dovrebbe costarne 30. Ormai rinuncio a capire, non essendoci nessuna tabella almeno per sapere quanto ci hanno rubato. Poi mi dicono che il percorso del traghetto è Daghestan, Azerbaijan, Turkmenistan. Forse la nave partita stamattina andava davvero in Daghestan e stavano per farcela prendere visto che avevamo quei biglietti. Forse abbiamo pagato l’intera tratta, non solo Azerbaijan - Turkmenistan, in modo che le signore intascassero senza colpo ferire la differenza. Mi fa male la testa a pensare a tutte le incertezze e i punti oscuri che ci hanno avvolto come una nebbia gommosa da quando siamo entrati nella realtà parallela del Porto di Baku.
Ormai ragiono che l’importante è arrivare in Uzbekistan. É il nostro obiettivo, visto che anche il Turkmenistan, così rigido e burocratico, mi preoccupa molto per il discorso del visto in scadenza.
Dopo un tempo incalcolabile, i treni scompaiono all’orizzonte, verso la città. Caldo, rade persone che passano, di tanto in tanto, da un ufficio all’altro, attraversando la spianata del porto.
Dopo un altro tempo incalcolabile arrivano altri due treni, che al rallentatore del rallentatore scompaiono inghiottiti dalla bocca nera della nave.
La sbarra del passaggio a livello si alza. Sembra di nuovo tutto pronto per la partenza.
“Ok?”, chiedo alla guardia lì a fianco.
“Ok”, mi risponde senza nessuna espressione sul viso.
Ci riprovo con la tecnica di prima: visto che non è possibile avere delle indicazioni in modo “normale”, vado avanti finchè non mi urlano dietro e capisco qual è il prossimo passo di questa danza misteriosa, di questo gioco assurdo e grottesco a cui si dedicano con dedizione le guardie portuali.
Accendo il motore. Nessuno mi dice nulla. Ingrano la prima. Nulla. Attraverso le rotaie e mi dirigo, lentamente, verso la nave. Ancora nulla. Faccio per entrare nell’ultima parte della banchina che entra direttamente nella nave.
“Ooooooohh!!”, un urlaccio mi raggiunge da non so dove.
Mi giro, esce un tipo che mi urla di fare la registrazija.
Scendo, mi indirizzano ad uno sportello sotto una piccola tettoia. Compilo un paio di fogli, firmo, chiedo se posso andare.
“Sì”, la risposta inespressiva del ragazzo dietro al vetro.
Con la medesima filosofia di poco fa, risalgo in sella. Imbocco quella che mi sembra la stradina che arriva dentro la nave, ma, come nei migliori labirinti, è sbagliata. Ovviamente, nessuno di quelli che incontro durante il mio breve avvicinamento, mi avvisa che è un vicolo cieco. Faccio inversione in un fazzoletto di spazio. Mille manovre. Nervoso. Caldo. Occhi puntati su questo stupido europeo affannato, io. Imbocco il passaggio giusto.
“Ooooooohh!!”, l’ennesimo urlo che mi blocca.
Mi giro, arriva un altro soldato. Ma quanti sono?!
“Che c’è”, chiedo seccato.
“Controllo passaporti!”, si limita a declamare il tipo, indicandomi di nuovo la piccola tettoia di un minuto fa.
Dovevo fare il controllo dei passaporti, ma il ragazzo della registrazija, che si trova esattamente a fianco del controllo passaporti, non mi ha detto nulla. Per lui era tutto. Avevo firmato la registrazija, il suo mondo finiva lì. Invece per me no, devo far controllare i passaporti, visto che finora li hanno ispezionati solo 10 volte. Il tutto a 50 cm dalla registrazija.
Scendo, vado dall’omino con un misto di rassegnazione, indignazione ed incazzatura vera e propria, di fronte a tanta ottusità e imbecillaggine. Quest’atmosfera di incertezza kafkiana, di ottusità burocratica è assolutamente snervante. Non c’è verso di sapere cosa, dove, quando, chi.
Il ragazzo sfoglia svogliatamente i passaporti. Me li restituisce con gesto di sufficienza. D’altronde è già stato fatto tutto prima, in almeno altri due uffici. Che ci sta a fare? Forse se lo chiede anche lui. O forse no.
Mi dicono di entrare alla sinistra della nave. Quando arrivo sotto, mi dicono che devo entrare da destra. Mi ritrovo quindi ad attraversare le rotaie dei treni. Sono vere trincee, profonde e larghe. Non sono state pensate per essere attraversate da mezzi precari quali le moto. Ho un po’ di ansia addosso, devo produrmi in un numero di equilibrismo su una stretta lastra di ferro. Per salire devo invece passare di traverso di un pezzo di ferro lungo mezzo metro e largo una spanna. Ai lati, due aperture molto grandi che arrivano fino all’acqua, che vedo sciabordare in basso.
Decido di attraversare il tutto di slancio. Lentamente non ci riuscirei, non avrei inerzia a sufficienza.
Per fortuna, riesco ad atterrare nella stiva, sano e salvo.
Sistemo la moto di lato, nella pancia semi-vuota della nave. Arriva un marinaio.
“Se mi dai 2 dollari, evito che balli durante il tragitto”, mi propone.
Mi chiedo se ha intenzione di tenerla per tutto il tragitto!
Non ci sono passaggi diretti per andare nella parte superiore. Devo fare un salto di un metro buono, sempre col mare che mi sorride da sotto, tra la stiva ed una passerella mobile. Il tutto con i due bauli che ad occhio pesano una quindicina di kg ciascuno.
Nessuno ci dice dove dobbiamo salire per andare sul ponte, verso le cabine. Ovviamente prendiamo la scala sbagliata. Dobbiamo invece andare molto oltre, su un’altra scala sbilenca, lunghissima, faticosissima.
Appena saliamo, ci accoglie un signore in borghese che ci chiede biglietti e passaporti.
“Volete la cabina?”, ci chiede gentilmente.
“Sì, ma vorremmo prima vederla!”, controbatto.
Ci precede in corridoi tutto sommato standard, già visti.

 

 

Traghetto tra Azerbaijan e Turkmenistan

 

Suite del Capitano
(37 KB)

 

Entriamo in una cabina molto grande con divano, tavolo, un quadro alla parete, un letto di una piazza e mezzo, un armadio, bagnetto e, incredibile, una finestra vera al posto del solito oblò sigillato!
“Va bene, ma ... quanto costa?”, gli chiedo minaccioso.
“20 dollari”
“In tutto, giusto?”, gli chiedo ancora più minaccioso.
“Sì, 20 dollari la cabina!”, risponde un po’ perplesso.
Ottimo, abbiamo risparmiato 80 dollari rispetto al biglietto che voleva farmi la signora che poi ha emesso i biglietti per il Daghestan.
Mi butto sotto la doccia. Mi sento subito meglio.
Andiamo in esplorazione. Arriviamo sul ponte esterno, saliamo fin dove possiamo. Prendiamo un po’ di sole. Siamo completamente soli, la nave è deserta. C’è molto vento. Sistemiamo una sdraio dietro una delle bocche che escono dai ponti inferiori, ma non si riesce a stare. Mangio qualche biscotto osservando Baku dall’acqua. Vista da qui è soltanto caotica di case e grattacieli, non particolarmente affascinante. La linea dell’orizzonte è punteggiata, in mezzo al mare, di piattaforme petrolifere. Intravedo, nella bruma della lontananza decine e decine di tralicci che si elevano sulla linea dell’acqua. Acqua che, qui davanti a Baku, è terribilmente sporca e inquinata. Nera con riflessi di idrocarburi e rifiuti galleggianti in quantità. Che delitto!
Torniamo in cabina. Faccio un po’ di bucato al ritmo degli Stadio.
Voglio controllare la moto. Esco dalla cabina, incrocio un ragazzo a cui chiedo come posso scendere in garage. Mi guida per un bel pezzo della nave, poi mi lascia ad un suo collega. Arriviamo sul ponte posteriore, ci sono tavoli e sedie fissate al suolo. Le sedie in realtà sono panche con assi di legno. Acrobazia per entrare nella botola, scale strettissime. La moto è tranquilla, fissata con un paio di corde.
Torno su, stavolta giro da solo, il tipo mi saluta e mi abbandona all’istante. Una volta questa nave era migliore, le finiture testimoniano un’antica eleganza ormai abbandonata a sè stessa. Una targa in metallo ricorda l’anno di costruzione, il 1985 e il luogo: la Yugoslavia, nei cantieri di Pola.
Al tramonto facciamo un’altra passeggiata perlustrativa. É tutto aperto, nessuno ci blocca, tutte le catene sono aperte. Arriviamo fino alla cabina di pilotaggio. Ci accolgono 7 ragazzi, tutti tra i 23 e i 26 anni (ci viene indicato come “il Vecchio”!). Frequentano l’ultimo anno della scuola di Marina. Parlano pochissimo inglese e quasi per niente russo, a parte un paio di ragazzi. Il capitano, quello vero, è di là che dorme.
“É ubriaco!”, dice un ragazzo ridendo. Poi si corregge:
“No, scherzo, è di là che gioca a Nardi”, ossia il nostro backgammon.
Quale sarà la verità?
Ci mostrano il radar, poi le carte nautiche. Scopro così che il fondale attorno a Krasnovodsk (l’odierna Turkmenbashi) è bassissimo: 2 metri, al massimo 4. Passeremo quindi attraverso un canale dragato dai sovietici anni fa. Strana scelta costruire un porto così! Considerando anche il fatto che il Caspio si sta alzando, vuol dire che in passato era anche peggio!
Torniamo in cabina e ascoltiamo un po’ di musica italiana: Circo Fantasma, Vero, Underground Life, Subsonica.

 

Traghetto tra Azerbaijan e Turkmenistan

 

Lauta cena
(66 KB)

Ceniamo con quello comprato ieri sera: verdura e carne in scatola, patatine, biscotti. Poi ci perdiamo in chiacchiere tra il nostalgico e l’intimo: noi da bambini, i nostri genitori, i nonni.
Stiamo attraversando il Caspio. Mi incuriosisce. Mi piacerebbe ancora di più risalirlo, fino alla mitica città di Astrakhan e da lì proseguire sul Volga. Mitica per il suo passato rivoluzionario e per la lana conosciuta in tutto il mondo. Ben consapevole, comunque, che quasi sicuramente sarebbe una delusione appiattita dalla “sbiadente” cultura sovietica.
Verso le 22:30, ore azera, più o meno la serata finisce. Caterina si addormenta sul divano. Leggo Terzani seduto al tavolino. Dall’oblò aperto entra un’aria tiepida, familiare. Intravedo nella luce del crepuscolo dei gabbiani che incrociano la nave. Mi addormento nella piccola alcova della cabina.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

13/08/2007 - “La dogana infinita”
Verso le 5 mi sveglio per il freddo. L’aria che entra dall’oblò ancora aperto è fresca, frizzante. Non voglio chiuderlo.
Esco. All’orizzonte, nella notte, rifulgono fuochi. Piattaforme petrolifere. Silenzio assoluto. Sulla nave, oltre all’equipaggio, quasi invisibile, ci saranno altre 5 persone, ancora mai incrociate, chissà dove saranno. Torno in cabina, mi addormento di nuovo.
Alle 8:45 mi sveglio, dall’oblò si vede terra. Sistemo le valigie mentre Caterina dorme ancora e salgo. Incrocio il tipo che ieri ci aveva ritirato i passaporti:
“Potrei averli indietro?”, gli chiedo un po’ preoccupato di lasciare un documento così importante in mani altrui.
“Non si preoccupi”, mi risponde fermo, “li riavrà a terra.”
Il canale non si vede. Ci sono boe e bandierine per seguirlo, ma dall’alto non si distingue, è completamente sommerso, non c’è nulla che emerge.

 

 

Turkmenbashi

 

Turkmenistan, arriviamo!!
(53 KB)

 

 

Turkmenbashi

 

Navi da crociera
(64 KB)

Confronto a quello di Baku, il porto di Turkmenbashi è minuscolo. Sono attraccate molte navi completamente arrugginite. Dal profilo della città emergono alcuni grattacieli moderni e nello stile lussuoso locale: grandi cupole, colori chiari, vetri riflettenti.
La costa è regolare, basse montagne completamente spoglie, di un marrone chiaro, arrivano fino all’acqua che qui è verde azzurra, molto diversa dal marrone scuro di ieri.
Scorgo in lontananza il primo faccione che copre l’intero lato di un palazzo. Non riesco a distinguere, però se è di Lui, il “mitico” Saparmurat Niyazov, o del Nuovo Lui, di cui non ricordo nemmeno il nome che, a giudicare dalla politica dei visti così restrittiva, sembra addirittura più chiuso e dittatoriale.
Quando passai di qui nel 2001, facevamo a gara a trovare un angolo di Ashgabat in cui non si vedesse un busto, un’immagine, un poster, una statua, un qualcosa senza la sua faccia. Era un gioco difficile, quasi da ogni angolazione, in qualunque punto della città, spuntava il suo faccione da una vetrina, dalla cima di un palazzo, in un angolo di giardino, in un incrocio, davanti a un palazzo. Incredibile.
Alle 10:50, ora azera, attracchiamo. Liberiamo la cabina e ci spostiamo, con tutti i bagagli, sul ponte posteriore. Qui incontriamo, finalmente, altri passeggeri. Quasi tutte donne, molto allegre. Un paio sono chiare di carnagione, probabilmente di origini russe. Tre o quattro sono più scure, immagino turkmene, e una giovane ragazza di colorito olivastro, sembrerebbe iraniana.
Ci chiamano per i documenti. Dalla pila di passaporti scopro che siamo una quindicina.
Una signora mi chiede cosa porto sulla schiena. Inizio a spiegare, prima in russo, poi a gesti per compensare le parole che non conosco, a cosa serve il paraschiena rigido che per comodità ho già indossato. Ride:
“Me lo dai, che serve anche a me?”, mi chiede aprendosi in un sorriso di denti d’oro.
Ci invitano da loro, vicino Merv:
“Se passate vi ospitiamo!”, propone.
Purtroppo dovremmo fare un’altra strada e poi c’è il solito problema del tempo che stringe, soprattutto qui dove, mi ricordo con una morsa allo stomaco, abbiamo il visto che scade domani e siamo a oltre mille km dalla frontiera più vicina. Spero di poter estendere il visto ad Ashgabat, ma che io sappia il visto di transito non si può estendere.
Siamo in fila per entrare in uno stanzino da cui sento arrivare spesso una voce femminile irritata e litigiosa. Non capisco cosa dicono, ma già immagino il solito clichè del funzionario arrogante che si rivale sulle varie persone che arrivano. E le facce di quelli che stanno per entrare o che escono me lo confermano. Sono quasi l’ultimo. Quando entro trovo una giovane signora, di carnagione chiara, in camice bianco, che compila una scheda chiedendomi alcuni dati anagrafici e se ho delle malattie. Mi chiede di firmare un modulo. Quando lo faccio usando la sinistra, mi guarda con un sorriso incredulo. Si guarda attorno come a dire: “ma state vedendo cosa fa??”. Anche le altre persone presenti ridacchiano. Alla fine mi restituisce il passaporto.
Esco di nuovo sul ponte. Siamo tutti riuniti sulle panche. Vado in un angolo ombreggiato per proteggermi dal sole rovente, accecante. Ovviamente nessuno dice nulla, ma il fatto che tutti aspettano da un lato mi tranquillizza, vuol dire che ancora non siamo vittime di tentativi di estorsione da parte di qualche ufficiale o funzionario.

 

Turkmenbashi

 

Fateci scendereee!
(99 KB)

Tutto è immobile, tutto è fermo. Ampi binari, vuoti, arrivano fino all’imboccatura della nave. Sotto, nessuno. Siamo qui, in attesa di non si sa che cosa. Nessun movimento, nessuno ci dice qualcosa.
Fortuna che siamo pochi, speriamo che si sbrighino.
Passa un’ora, poi un’altra. Finalmente scendiamo, ma è solo l’inizio. Sbarco la moto per portarla poche decine di metri oltre, sotto un basso palazzo. Gli uffici della dogana.
Uffici molto moderni, puliti, rassicuranti. Gli impiegati sono gentili. Un giovane militare ci riconosce come stranieri e sfoggia il suo inglese, indicandoci cosa dovremo pagare e cosa ci serve. Ne approfitto per chiedere se posso estendere il visto. Si informa da un superiore e mi dà le indicazioni per Ashgabat, il nome dell’ufficio dove dovrò presentarmi, gli orari e l’indirizzo. In una bacheca ci sono alcune tabelle, molto chiare e addirittura in inglese, che spiegano documenti e procedure. Sono meravigliatissimo, ma ancora non mi fido. Infatti, dopo un rapido ambientamento inizio ad individuare altri impiegati arroganti e muti, i soliti tipi che ti fanno perdere ore.
L’impiegato che deve compilare i documenti per la moto sta mangiando. In ogni stanza è appeso un quadro con il faccione del nuovo presidente e fanno mostra di sè una o più copie del Runhama, il Libro Sacro scritto da Turkmenbashi, nella sua orrida copertina rosa. Il suo studio e la sua conoscenza è obbligatoria nelle scuole e negli uffici pubblici. In quelle pagine sono condensate le indicazioni e i precetti del defunto Presidente a Vita Saparmurat Niyazov, detto Turkmenbashi, ossia Capo e Guida di tutti i Turkmeni.
Gli ci vorrebbe una bella pernacchia dissacrante alla Totò. Sono comunque curiosissimo di sapere cosa contiene, ma purtroppo non capisco una parola di turkmeno e poi non saprei come entrarne in possesso.
L’inizio così promettente si dissolve rapidamente. Inizio a passare da un ufficio all’altro. Siamo in un grande stanzone tappezzato su tre lati di piccoli uffici, una dozzina in tutto. Quando sono entrato mai avrei creduto di farli tutti, alcuni più volte, in momenti diversi. Nemmeno nelle peggiori barzellette sulla burocrazia idiota e asinina o negli incubi kafkiani di incomprensibili labirinti burocratici si arriva a tanto. A ogni tappa di questo giro dell’oca il nervoso e l’irritazione per tanta imbecillità aumentano.
In uno dei tanti uffici in cui mi siedo, il tipo mi chiede 20 $, “più 1, per me!”
“Non ce l’ho”, gli rispondo sgarbatamente e irritato.
“Allora vai a cambiare e me lo porti, va bene?”, mi chiede con un sorriso disarmante, come se stesse chiedendo un favore ad un vecchio amico.
Alcuni pagamenti vanno effettuati esclusivamente in dollari ed esclusivamente allo sportello della cassa. Il tipo non c’è quasi mai. Non capisco dove possa andare in un ambiente così piccolo. Fatto sta che nei vari momenti in cui mi presento al suo sportello perchè qualcuno mi ha dato una ricevuta da pagare, non c’è. Vado a cercarlo sempre più irritato, riportandolo all’ordine con strette parolacce in romanesco sibilate tra i denti.
Altri pagamenti, invece, vanno fatti esclusivamente in valuta locale, non c’è verso di usare i dollari. Non mi dicono dove devo cambiare. I militari non rispondono o sono vaghi. Le persone in fila mi dicono dei nomi che lì per lì non capisco. Poi mi illumino. Sono un paio di uomini che effettuano il cambio in nero, tollerati da funzionari e militari. Si aggirano nella sala d’aspetto a fianco del labirinto d’uffici. Vorrei cambiare da loro, ma mi dicono che non posso farlo in quel momento, poichè serve la ricevuta ufficiale del cambio. Quando (quando?) avrò finito tutte le procedure della dogana e starò per uscire, allora potrò cambiare quello che voglio.
Vado quindi nell’altro sportello dove cambiano i dollari in Manat. Ovviamente non poteva essere lo stesso della cassa, troppo facile. Si trova in un’altra ala dell’edificio. Naturalmente non c’è nessuno. Torno indietro, inizio a sbraitare. Nessuno sa dove siano. Pesco un militare che si aggira pigramente fuori dalla palazzina. Quasi lo trascino per la manica. Entra nell’ufficio e dopo poco ricompare, seguito da due signore. Finalmente cambio.
Torno nel labirinto. Timbri su timbri, ricevute, quietanze, tagliandi. Colleziono quasi 20 pezzi di carta, nei vari passaggi in non meno di 10 uffici diversi. Pazzesco. Tutto per uscire da una dogana. Ad uno sportello vedo la stessa signora dolce, con la figlia piccola, in attesa sconsolata. Le chiedo cosa c’è che non va. Mi dice che il funzionario vuole una tangente di 10 dollari. Non hanno tutti quei soldi. Controllo, ma purtroppo ho finito i tagli piccoli. Mi restano 500 dollari in tagli da 100.
“Non preoccuparti, tra una o due ore si stancherà e ci manderà via ...”, mi dice rassicurante.
Mi sento impotente, vorrei aiutarle e allo stesso tempo mi monta una rabbia immensa.
Tra le varie attese decido di cambiare in nero da uno dei tipi.
Nessuno mi dice più nulla.
“Ho finito?”, chiedo a uno dei militari.
In risposta alza le spalle, come a dire “che ne so?”.
Bene, mi dico, riprendo la tecnica del “forzamento lieve”: provo ad andarmene e se manca qualcosa, arriverà qualcuno urlando e scoprirò così cos’altro devo fare.
Rintraccio Caterina che nel frattempo si era rifugiata, invitata da una delle signore conosciute sulla nave, in una stanza al piano di sopra a farsi un tè. Le trovo a chiacchierare, non so come perchè la signora parla solo russo e turkmeno e Caterina ignora completamente entrambe. Miracoli dei viaggi ...
“Dai andiamocene”, le dico sbrigativo.
“Finito?”
“Non lo so, lo scopriremo tra poco ...”, le rispondo poco rassicurante.
Esco, saliamo in moto, tutti i cancelli sono chiusi. Inizio a urlare per cercare qualcuno nel piazzale assolato, deserto. Esce il militare stanco di prima.
“Apri il cancello, da dove si esce?”, gli chiedo incazzato.
“Ma hai finito?”, mi chiede mentre scappa dentro per capire cosa deve fare.
Tempo 30 secondi ed escono due ufficiali urlando a loro volta che mancano ancora dei documenti.
“MA PERCHÉ NON ME LO DITE COSA DEVO FARE??!!??”, gli chiedo aggredendoli. Ormai non ho più freni, ho superato la soglia della sopportazione. Entro sbattendo la roba da un lato. Un altro sportello! Altri due tagliandi! Poi un altro sportello!
In tutto ho speso quasi 150$.
Finalmente pare che abbia finito. Esco di nuovo nel cortile rovente. Il cancello si apre. Siamo fuori, ma come sempre in questi casi quasi non ci credo, mi aspetto ancora sbarre, controlli, gabbiotti dove mi chiedono uno o più dei tanti tagliandi che riempiono una mia tasca.
Invece no. Dopo un paio di tentativi tra i vari viottoli dove non si capisce nulla, nè il senso di marcia nè se la direzione è giusta, riesco a risalire sull’unica statale che porta più o meno direttamente ad Ashgabat. Sono le 15 e 30 passate, non ce la faremo mai.
Supero un benzinaio che mi fa ricordare che devo fare il pieno. Spero di trovarne un altro all’uscita della città. Le case finiscono, la steppa si apre davanti a noi a perdita d’occhio, nessun benzinaio in vista. Devo tornare indietro, altra mezz’ora persa.
Nel tratto iniziale siamo chiusi tra basse, brulle montagne a sinistra ed il mare azzurro verde a destra, che si avvicina o si allontana alle spalle di lagune ed appezzamenti incolti, stepposi. All’orizzonte il cielo si fonde con il mare in un azzurro incerto e brumoso.

 

 

Verso Ashgabat

 

Quale sarà la strada giusta?
(79 KB)

 

 

 

Verso Ashgabat

 

Corri che è tardi!
(45 KB)

 

Ci allontaniamo definitivamente dal mare entrando nella steppa desertica che ci accompagnerà per centinaia di km. Mi sento carovana, cammello sulla Via della Seta.
La strada rovinata ci fa ballare molto, è piena di buche e avvallamenti. Ad ogni grande incrocio c’è sempre un posto di blocco fisso, con casupola dove i militari vivono per non so quanti giorni l’anno. Immancabilmente ci fermano. Ufficialmente per registrare i documenti, in realtà per chiacchierare e guardare questi due marziani solitari su un’insolita navicella spaziale. Già vedranno poche moto in viaggio, immagino ancora meno CBR ...

 

Verso Ashgabat

 

Fertile terra d’Oriente
(42 KB)

La strada costeggia da lontano piccole cittadine accanto alle quali spesso vediamo piccoli appezzamenti coltivati che lottano contro il sole impietoso. Spesso ci troviamo a correre su piani infiniti, chiusi all’orizzonte da basse montagne. Sperimentiamo tutte le tonalità di marrone, dalle più chiare, a quelle intermedie, grigiastre, a quelle scure, quasi nere. Suggestivo.
Di tanto in tanto attraversiamo agglomerati spontanei di case, a volte veri e propri paesini. Un servizio che non manca mai, in questi posti, è quello di vendita di acqua alla spina e di meloni.
Nel primo, solitamente si viene ingannati da attraenti insegne della Coca Cola o altre bevande universalmente note. In realtà sono piccoli chioschi dove un ragazzo sciacqua al volo il bicchiere appena restituito dal cliente precedente in un lavello, senza cambiare mai l’acqua, lo riempie sotto un erogatore e lo passa all’avventore. Quando il bicchiere è unico, a volte si forma una piccola coda, altrimenti si riesce a servire anche più persone alla volta.
Il secondo servizio, invece, consiste in piccole piramidi di frutta, quasi sempre meloni gialli, a lato della strada. Ci si ferma, da qualche parte sbuca fuori il proprietario che lo valuta a occhio e spara il prezzo.
In preda all’arsura, a causa del gran caldo, decidiamo di fermarci da uno di questi. Veniamo subito avvicinati da alcuni curiosi, altri invece, in fila per l’acqua, ci ignorano, forse per paura di perdere il posto.
“Di chi sono i meloni?”, chiedo ad un ragazzo dall’aria apparentemente sveglia.
Fa un cenno indicando un negozio che tutto sembra fuorchè un alimentari.
Superiamo la doppia porta taglia-caldo. Normalmente ho sempre visto i doppi ingressi per non far entrare il freddo, ma qui il problema è decisamente opposto. Ci ritroviamo in un piccolo ambiente ghiacciato dall’aria condizionata tenuta al massimo. Dentro c’è una ragazza, sola. Ci guardiamo intorno e scegliamo un melone da un’altra pila sotto al bancone. Lo dò alla tipa, che fino a quel momento non ha detto una parola. Lo prende, lo guarda, decide di darcene un altro.
“É più buono?”, le chiedo in russo indicando il nuovo frutto.
Fa sì con la testa. Sembrano tutti muti in questo villaggio.
Finalmente apre bocca al momento di dire il prezzo. Pago ed usciamo. Ci sistemiamo all’ombra, sotto una tettoia che sembra la fermata di un pullman. Faccio appena in tempo a tirare fuori il coltello che ci avvicina un ragazzo:
“Venite a mangiare dentro!” e indica di nuovo il negozietto.
Non capisco, ma insiste. Lo seguiamo. Entriamo nuovamente, scosta una tenda scoprendo così una seconda stanza arredata con un paio di tappeti da poco, con altri meloni e confezioni di acqua impilate.
“Cosa volete da bere?”, chiede con un ampio sorriso dorato.
Stavolta siamo noi ad esserci ammutoliti. Davanti alla nostra indecisione, va dalla ragazza, le bisbiglia qualcosa.
Torna da noi e iniziamo a parlare. Nel frattempo la ragazza porta la Coca, un paio di bicchieri ed un coltello molto più grande del mio a serramanico. Solite domande di dove siamo, dove andiamo, quanti anni abbiamo, se siamo sposati, quanti figli abbiamo. C’è una variazione quando non so come, il discorso finisce sulle monete. Gli mostro dei centesimi di euro.
“Belli, io faccio collezione di monete!”, esclama rigirandoli tra le mani.

 

 

Verso Ashgabat

 

Sorriso d’oro - 1
(76 KB)

 

 

 

Verso Ashgabat

 

Gemelli diversi
(51 KB)

 

 

Verso Ashgabat

 

Sorriso d’oro - 2
(61 KB)

 

 

 

Verso Ashgabat

 

Prendiamo questa!
(58 KB)

Gli regalo quelle che ho. Nel frattempo divoriamo l’ottimo melone, dolcissimo. Ci idratiamo ancora con un paio di bicchieri di Coca, poi purtroppo dobbiamo congedarci, non prima di un paio di foto.
Ripartiamo.
Sul finire del pomeriggio mi ritrovo di nuovo senza benzina. Sto superare un sidecar che vedo svoltare a destra su una strada secondaria e dirigersi verso una basso edificio con a fianco dei grandi serbatoi. Potrebbe essere un benzinaio. Torno indietro, mi infilo anch’io nel breve sterrato sulle tracce del sidecar. Mi rendo subito conto però che è solo un deposito disabitato. I ragazzi della moto però ci vedono e tornano indietro.
“Sapete dov’è un benzinaio?”, chiedo preoccupato.
“Mah ... ”, si guardano, confabulano in turkmeno tra loro, poi di nuovo in russo a me, “indietro a 50 km, nella città precedente”
L’idea di fare 100 km per fare benzina mi blocca. “E verso Ashgabat?”
Di nuovo parlano tra loro e sentenziano: “Manca un po’ di più, circa 80 km al prossimo”.
Faccio i conti e dovremmo farcela. Al limite chiederemo aiuto a qualcuno.
Il tramonto si annuncia lentamente, dà tutto il tempo per metabolizzare che un’altra giornata sta finendo. Nulla, oltre la naturale linea ricurva dell’orizzonte, nasconde il sole, che quindi ha l’opportunità di spegnersi lentamente in mille tonalità rosse, arancioni, rosate, violette. Il cielo acquista forza dall’azzurro chiaro al blu via via più scuro, per essere infine trafitto solo dalle piccole gemme delle stelle. Centinaia. Migliaia.
Ci fermiamo per assaporare il momento. Le auto, su questi rettilinei lunghi decine di km, si sentono da lontanissimo, i fari interrompono la magia, ma sono talmente rare che riusciamo ad immergerci nell’Assoluto per diversi minuti.
Dobbiamo ripartire, è notte fonda e mancano ancora centinaia di km ad Ashgabat.
Il benzinaio arriva, pieno, chiacchiere con i ragazzi della stazione di servizio.
“Manca molto ad Ashgabat?”, chiedo già sapendo la risposta.
“No ... un duecento km”
La mia faccia dev’essere molto eloquente perchè subito mi consolano:
“Bè ma tra un centinaio di km la strada migliora molto!”
Riparto con quest’idea in testa, un obiettivo intermedio da raggiungere, qualcosa per cui lottare e resistere alla tentazione di fermarmi nel primo posto utile e dormire. Primo posto utile ... in fondo quale potrebbe essere? Forse nessuno, ma il pensiero è costante, di fermarsi a cercare. Pensiero contrastato dall’altro, più forte, pressante, del visto che scade domani.
Dopo un tempo incalcolabile, la strada si apre improvvisamente su quattro corsie, il fondo diventa incredibilmente liscio, una sensazione dimenticata. Mi fermo quasi subito ad un caffè lungo la strada, nonostante la contrarietà di Caterina che vorrebbe arrivare il prima possibile, ma sono troppo stanco. Ordino della carne alla brace e Coca Cola per tenermi sveglio. Il posto è molto spartano. Pochi tavoli con delle sedie, tutto scalcinato. Siamo all’esterno, a fianco della bassa casupola che sembra quasi di fango, tanto è storta e malmessa e a pochi metri dalla statale, dove passa di tanto in tanto un’auto, qualche camion.
Ripartiamo che è mezzanotte passata. Dopo altro tempo incalcolabile inizio a vedere all’orizzonte lunghi filari di perle luminose, gialle. Sono i lampioni delle arterie che entrano nella capitale. Un arco che sovrasta la strada annuncia la città. Mi sembra di perdermi nella periferia, ma forse Passiamo sotto un albergo. Riconosco il nome di uno di quelli che avevo segnato in Italia. Il palazzo è nuovo o quanto meno restaurato di recente. Almeno questa è l’impressione che ne ho, nel cuore della notte dopo una giornata di guida. L’ingresso è elegante, la signora alla reception gentile. Ci dà una stanza.
“É sulla strada?”, chiedo preoccupato di avere rovinate le poche ore di sonno che ci aspettano.
“Sì”, ammette.
“Potremmo cambiare? Vorremmo una stanza tranquilla, siamo stanchi”.
“É meglio quella sulla strada. Sul retro dell’albergo si sente una discoteca che chiude tardi, c’è meno rumore sulla strada”.
Mi fido e prendo la chiave. L’ascensore si chiude e ... si riapre in un ambiente completamente diverso. Orribili moquette, carte da parati in rovina, una scrivania scalcinata e cadente sulla quale è seduta una signora di mezza età ancora più cadente in corpetto fucsia e giarrettiera in tinta! A fianco una ragazza con la medesima aria equivoca, meno discinta. Le guardo a bocca aperta, stupefatto.
Sul corridoio si affacciano porte cadenti, chiuse non più dalle serrature e dalle maniglie ormai rotte, ma da ganci, anelli, lucchetti oppure direttamente aperte con altre ragazze fuori dalle stanze o dentro, sedute.. Un bordello in piena regola. Apro la porta della camera: fa schifo. Rotta, sporca. Caterina, sconsolata, mi chiede:
“Ma dove mi hai portato ...”. Me lo dice così, con rassegnazione e tanta stanchezza.
Sono mortificato, se lo avessi saputo avrei proseguito!
Riusciamo a metterci a letto, ben avvolti nei nostri sacchi lenzuolo per non avere il minimo contatto con lo schifo che ci circonda, alle 2 passate.
Mi addormento col pensiero del visto che scade tra meno di 22 ore e dobbiamo ancora dormire. Non vedo l’ora di essere a Bukhara ...

Pagina precedente
Pagina 7

Pagina successiva
Pagina 9

Torna all'inizio della pagina

Torna all’inizio
della pagina

Torna all'inizio della pagina