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 Diario di viaggio SamarCaLda 2007

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(Bukhara, Shakhrisabz, Samarcanda)

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Giornate: 
16 agosto 2007 - “Pace e serenità a Bukhara”
17 agosto 2007 - “Alla corte dell’Emiro di Bukhara”
18 agosto 2007 - “L’apparizione del Registan”

16/08/2007 - “Pace e serenità a Bukhara”
Alle 3 del mattino mi sveglia il ronzio di una zanzara piantato nelle orecchie come un trapano. Sono esasperato. Cerco di non grattare le decine di pizzichi che ho sul corpo, ma è quasi impossibile. Accendo la luce. Nessuna traccia della maledetta, ovviamente.
Ci svegliamo alle 8. Conto i soldi avanzati dal cambio in nero di ieri mattina. Allora cercavano proprio me, in frontiera! Mentre ero in fila, tra una discussione e l’altra, erano venuti da me un paio di ragazzi, parlandomi di un cambio di soldi. Lì per lì non avevo capito, pensavo mi stessero proponendo un cambio in nero e avevo rifiutato visto che avevo appena cambiato. Hanno insistito, parlandomi di una signora che mi aveva dato troppo, del bar e mi è venuto il sospetto che qualcosa fosse andato storto nel cambio di poco prima, ma per evitare problemi ho continuato a negare. I tipi allora hanno mollato e non sono più tornati.
Ora che conto i soldi, effettivamente me ne ritrovo più di quelli che dovrei avere. La signora ha perso circa 5 dollari, che fatte le debite proporzioni col costo della vita e il potere d’acquisto, equivalgono almeno a una ventina d’euro “europei”. Pazienza, mi spiace!
Andiamo a fare colazione sotto al monumentale colonnato: splendido! La luce è calda, il cielo brillante, l’aria frizzante. Mi ricorda le mattinate della mia infanzia, quando l’estate andavamo in Calabria e l’aria del mattino era così fresca e frizzante...
Torniamo in camera a poltrire e goderci il classico “meritato riposo”, anche perchè, purtroppo, Caterina non sta bene di stomaco.
Ne approfittiamo per cambiare stanza e traslocare i bagagli. Purtroppo i letti sono ancora divisi, ma almeno affacciamo su un patio, anche se non quello principale col colonnato.
A metà mattinata andiamo a caccia di souvenir. Nel 2001 avevo comprato una bellissima riproduzione in ceramica smaltata di un tavolo asiatico con quattro vecchietti che mangiavano frutta e suonavano. Giriamo parecchio, ma non si trovano praticamente più. I pochi che somigliano nella forma, sono di qualità davvero pessima: fattura orribile, brutti colori.
Solo dopo una decina di tentativi infruttuosi, trovo una signora che se li ricorda:
“Sì, me li ricordo... ma tanti anni fa!”
“Bè, l’avevo comprato nel 2001”, le confermo.
“Esatto! Ho capito perfettamente quali sono, non li fanno più!”
“E perchè?”, chiedo incredulo e deluso.
“Perchè erano troppo difficili e lunghi da fare.”
Ecco un altro dei risultati del guadagno facile e veloce. I primi a rimetterci, spesso e volentieri, sono i prodotti di qualità e ricercati che, ovviamente, hanno il “difetto” di richiedere tanto lavoro e impegno.
A suo dire, a Bukhara è rimasto solo un artigiano che li fa.
“Avete un attimo di tempo? Vado da un’amica a chiederglieli.”
“Ok!”
Nel frattempo ci guardiamo intorno. C’è di tutto: piatti di tutte le forme, colori e dimensioni, decorazioni in ceramica, disegni, quadri, tappeti, oggetti di vario tipo, sembra un rigattiere!
Tra tutti, mi colpisce un piccolo busto di Lenin. Ancora una volta, ho la conferma di quanto fosse lontana quella cultura, la cultura bolscevica e socialista di Lenin e compagni, da quella del luogo. Davvero pesci fuor d’acqua.
Nella bottega di fronte, un ragazzino chino su un foglio disegna un classico motivo dell’antica Bukhara: una cupola, un vecchio che conduce un asino, pochi altri dettagli sciolti nell’acquerello e nel ricordo.
Dopo una ventina di minuti torna la signora, affannata.
“Ecco qua, scegliete pure!”, dice sciorinando un paio di pezzi.
Con uno ci prova, è palesemente uno di quelli visti finora, brutto e malfatto. Ma altri due sono effettivamente come quello che comprai 6 anni fa.
“Questo no, ma questi due sì!”, esclamiamo all’unisono. Facciamo un rapido conto:
“Ne vorremmo cinque.”
“Ragazzi, mi spiace, questi sono gli ultimi due rimasti, abbiamo guardato ovunque.”
Parte la contrattazione, lunga e articolata come tutte le volte in cui siamo veramente interessati a qualcosa. Alla fine strappiamo quello che ci sembra un buon prezzo.
“Può farci un pacchetto? Veniamo a prenderlo più tardi, per non doverlo portar dietro tutto il giorno ...”
“Va bene, chiudo alle 20, mi raccomando! Altrimenti potete prenderlo domani, non ci sono problemi.”
Riprendiamo il giro. Ci fermiamo dopo poche botteghe, da una signora simpatica che vende cappotti tipici e tovaglie ricamate. Caterina prova molti modelli di vestiti, tutti lunghi e coloratissimi, ma nessuno le sta davvero bene. Anche le tovaglie ricamate non mi soddisfano, prima vorrei vedere cosa c’è in giro. Di sicuro ne voglio prendere una, ma bella!

 

 

Bukhara

 

Miniatura di legno
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Bukhara

 

Comoda la colonna!
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Bukhara

 

Merletti di legno
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Bukhara

 

Nelik il Turkmeno
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Bukhara

 

Starà pensando:
“Come gli sta bene!”
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Andiamo verso l’Ark. Prima di entrare, visitiamo la moschea di fronte, dall’altro lato della piazza. Ha un porticato stupefacente, interamente in legno intagliato e dipinto, coloratissimo. Il legno ha un calore ed un’energia vitale, anche quando secco e intagliato da secoli, che nessun altro materiale possiede.
Sotto il pergolato che si stende sulla parte sinistra della piazza, incrociamo un venditore di souvenir. É diverso dagli altri, ha oggetti più ricercati, particolari, tra cui gli immensi copricapo di pelliccia che, nei giorni scorsi, abbiamo visto diverse volte in Turkmenistan.
Siamo di nuovo a corto di soldi. Chiedo di un cambio, ovviamente si offrono di farlo immediatamente! Confronto il tasso con quello dei giorni scorsi, più o meno ci siamo e poi non abbiamo molte alternative, quindi cambio in nero da una signora di un negozietto [Cambio Ark: 1 € = 1600 SUM].
Ci aggancia un tizio che si offre come guida. Tra inglese e russo riusciamo a intenderci decentemente e ci racconta la storia del posto. Non perde occasione per addossare colpe ai russi, la classe dominante della (teoricamente senza classi!) società sovietica. Viene loro addebitata la distruzione dell’Ark, il furto di tesori e altre colpe, senza analizzare minimamente chi era e cosa faceva l’Emiro, che tipo di governo avesse messo in piedi.
Buona parte di quello descritto da Tiziano Terzani, in termini di museo che descriveva appunto il sistema di governo dittatoriale e sanguinario, le terribili condizioni sanitarie, l’economia arcaica, è sparito.
Che peccato, le colpe e gli errori di ieri si ripetono oggi, invariati.
Si cancella il passato per giustificare il presente. La Storia non esiste: chiunque la racconta la adatta a suo uso e consumo e la interpreta secondo i valori dominanti.
Ad esempio, secondo il professore di ieri, incontrato proprio sotto il Grande, il minareto principale di Bukhara, da lassù buttavano solo le donne. Secondo il tizio che ci sta guidando, invece, buttavano i condannati a morte solo prima di Gengis Khan. Dal suo arrivo in poi, più nessuno.
Ci guida attraverso le aree della fortezza. La grande spianata delle udienze, sale e salette dove si riconoscono fino ad un certo punto le belle ricostruzioni storiche di epoca sovietica, dalla Preistoria fino a ... Si interrompono quando si arriva ai tempi moderni! Il periodo sovietico è stato semplicemente cancellato, non esiste un solo, piccolo, minuscolo accenno. C’è, semplicemente, un buco temporale di 100 anni. Sono sconcertato. Anche in Italia abbiamo avuto la dittatura, ma almeno negli excursus storici se ne parla!
Le foto d’epoca, in bianco e nero, sono come sempre interessantissime. Persone vestite nelle fogge più incredibili, grandi cappelli di pelliccia, vestiti elaborati, situazioni curiose.
Ci porta anche in un punto da cui si gode un bel panorama verso le medrese principali. Passiamo su cumuli di macerie. Mi rendo conto che la parte visitabile è infinitesima rispetto alle dimensioni originali dell’Ark. I sovietici, evidentemente, non avevano alcun interesse a ripristinare il centro di un potere così odioso ed hanno semplicemente lasciato un mucchio di calcinacci nel cuore della città. Tuttavia mi stupisce, visto che, di contro, la totalità delle medrese che oggi possiamo ammirare sono state restaurate e in alcuni casi ricostruite proprio da loro, nonostante simboleggiassero la religione, un concetto avverso al loro “illuminismo” che, di fatto, non è stato altro che un sostituire le precedenti divinità con altre divinità pagane. Molto meno attraenti e durevoli, come si è ampiamente capito.

 

 

 

Bukhara

 

Eppure non è Pisa!
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Bukhara

 

Genius at Work
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Bukhara

 

Panorama turchese
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Bukhara

 

Il pensatore
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Bukhara

 

Carne fresca
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Bukhara

 

Famiglia con cocomeri
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Bukhara

 

Rosa tra le rose
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Bukhara

 

Ciotto al tramonto
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Bukhara

 

Simmetria luminosa
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Bukhara

 

Frescura serale
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In ogni caso, gli uzbechi che adesso esaltano e valorizzano persino una figura poco edificante come l’Emiro, negli oltre 15 anni dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, non hanno toccato una pietra.
Diamo una piccola mancia al nostro Cicerone e lo congediamo. Resta seduto a chiacchierare con noi ancora un po’, poi va a cercare altri turisti da agganciare.
Usciamo, ci perdiamo nei vicoli polverosi della città vecchia. Il tono dominante è beige chiaro, di tanto in tanto si aprono delle piccole piazze, talvolta con una vasca vuota al centro, con scuole coraniche ad affacciarsi.

 

 

Bukhara

 

Medresa vanitosa
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Bukhara

 

Pronto per l’Uzbekistan!
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Bukhara

 

Ritratti della serenità
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Bukhara

 

Uva! Uva frescaaa!
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Bukhara

 

Il Grande Cocomero
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Bukhara

 

Frutti del Sole
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Bukhara

 

Mura panciute
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Bukhara

 

Preghiera serale
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Bukhara

 

Che fai tu Luna, in ciel?
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L’hauz è magnifica, rilassante. Il concetto di una vasca colma d’acqua al centro di una piazza ombreggiata da grandi gelsi è meravigliosa. Siamo soli, tra la medresa dalla splendida e luminosa facciata che ospita mille laboratori d’artigianato, negozi e ristorantini ed un altro edificio religioso, chiuso.
Il vagabondaggio prosegue. Finiamo in mezzo ad un gruppo di ragazzini che passa la giornata sotto ad una medresa tra un tiro al pallone e corse in bicicletta.
“Volete vederla? Abbiamo le chiavi!”, ci chiedono in 5, tutti intorno, indicando l’edificio chiuso.
Ci penso un attimo, guardo Caterina e accetto. Scappano urlando di gioia come rondini. Tornano dopo un paio di minuti con un grosso mazzo di chiavi ad aprire un lucchetto come si vede nei fumetti: grande, con la toppa dove entrerebbe un dito, l’arco perfetto sopra ad un corpo massiccio, borchiato.
Il posto è molto grande. La classica corte centrale, le decorazioni sono quasi completamente scomparse. Ovunque detriti ed abbandono. Ci portano sul tetto. La vista è interessante. Ad un certo punto, mentre loro continuano a giocare tra loro e a darci notizie sul posto, arrivano delle urla da sotto. Si affacciano, si spaventano.
“Venite, ora dobbiamo uscire!” esclamano trascinandoci via.
Troviamo una coppia molto arrabbiata.
“Sono vostri figli?”, mi informo dalla signora.
“No! Sono i figli dei vicini. Non possono prendere le chiavi, è vietato!”, esclama sgarbatamente, chiudendoci la porta dietro le spalle.
Allunghiamo 200 Sum al ragazzino più sveglio che ha condotto l’intera operazione. Scappano felici, ridendo.
Ci sediamo ad un bel letto di un ristorantino nella bella piazza davanti all’Ark. Mi concedo un manti, ovviamente carico di cipolle per la gioia di Caterina.
Alla nostra destra c’è una madre con la figlia. Ci sorridono. Quando faccio loro una foto mi accorgo che la figlia è incinta. Ha l’aria estremamente serena. Dopo qualche minuto arriva un gruppo di donne una più anziana dell’altra. Si accomodano su un letto, ordinano insalate ricolme di cipolle, spiedini e tè verde. Passa un signore che spinge una bicicletta. Davanti e dietro porta due cassette piene d’uva nera. Le signore lo fermano, comprano alcuni grappoli. Una scena d’altri tempi.
Ci avviamo verso un mausoleo e finiamo per caso in mezzo ad una fiera del Cocomero. Troviamo anche un gruppo di italiani. Ai lati di una spianata al centro di un parco pubblico si susseguono espositori con un numero incredibile di varietà di cocomeri. Dai più piccoli a quelli incredibilmente grandi, dal verde scuro, intenso a quelli più chiari con striature gialle. La polpa è rosa, rossa, arancione, bianca. Ne fanno assaggiare alcuni.
Un gruppetto che espone ci chiama. Ci facciamo volentieri spiegare le diverse specie, le peculiarità. Facciamo un paio di foto di gruppo. Il tipo alla mia destra, con mio grande sgomento, appena ci mettiamo in posa davanti alla macchina, afferra la mia mano sinistra e la tiene nella sua, intrecciando le sue dita alle mie. Che impressione! Non voglio essere scortese e sopporto l’invasione di campo, una confidenza impensabile da noi. Alla fine ci regalano due meravigliosi, immensi cocomeri.
Ringraziamo e ci infiliamo nel parco che circonda il mausoleo che stavamo cercando. Il posto, di nuovo, è magnifico. Una rilassante vasca d’acqua al centro, attorno un roseto, vialetti e panchine, aiuole, innamorati che si baciano, altri che si guardano offesi da qualche contrasto. Ci sediamo e assaporiamo la vita, il momento, il saporitissimo cocomero. Mi alzo, lo offro ai ragazzi delle panchine a fianco che accettano volentieri.
Mi lavo le mani, imitato da un senza tetto un po’ fuori di testa, di quelli che, appunto, vagano nei parchi.
Il mausoleo è bellissimo nella sua semplicità di mattoni e decorazioni geometriche. Nessuna decorazione, nessun colore a parte quello dei mattoni stessi, marrone chiaro. Trasmette serenità, eleganza e rigore allo stesso tempo. Mi perdo nelle circonvoluzioni dei labirinti delle facciate e della mia mente.
Il pomeriggio sta finendo. Torniamo verso il centro, costeggiando l’Ark. Un gruppo di ragazzi gioca a pallone sotto le mura. Non so perchè, ma provo una grande nostalgia. Li osservo, ripenso a quando andavo in bicicletta sempre e ovunque, in pomeriggi infiniti sotto al sole.
Una ragazzina sta tornando a casa, piegata sotto al peso di una latta più grande di lei. La saluto. Si mette in posa, sorridente. Un’altra piccola lezione di vita.
Al tramonto siamo di nuovo sotto al Grande, ribattezzato il Ciotto, un termine campano che ben descrive il minareto panciuto. La luce è calda, godiamo e ci abbeveriamo della grande serenità di cui finalmente riusciamo a godere, dopo i faticosi giorni trascorsi.
Torniamo un attimo in albergo, prima di concederci una rilassante cena a bordo della Lyabi Hauz.
Un’ultima passeggiata, buonanotte!

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17/08/2007 - “Alla corte dell’Emiro di Bukhara”
Nottata abbastanza tranquilla, anche se non mi sveglio mai particolarmente riposato. Facciamo colazione sotto al magnifico colonnato. Il cielo è azzurro intenso, brillante, vivo. L’aria è fresca, rinvigorente, rigenerante. Mi sento più vivo, mi solletica il cervello, mi fa correre nel mio passato, certe mattinate vacanziere della mia infanzia in Calabria.
Tè, succhi di frutta, frutta fresca, crêpes che qui si chiamano blini, alla russa, marmellate fatte in casa. Ora siamo circondati da turisti che parlano inglese, francese, italiano. Non mi sento più “in viaggio”, dove per me “viaggio” è l’essere lontano in tutto e per tutto dal mio mondo. Le espressioni, le frasi che sento mi fanno sentire a casa, in un ambiente noto. Cerco di scacciare questi pensieri, torniamo al volo in camera ed usciamo immediatamente.
Andiamo nell’unico Internet Point di Bukhara o almeno del centro città, per quanto abbiamo visto e quanto dice la guida. Trovo una email dell’agenzia contattata nei giorni scorsi. Vogliono 8 € per prenotare il bed & breakfast di Samarcanda, il Bahodir. Sono pazzi! Ovviamente non rispondo nemmeno. Proviamo a cercare gli indirizzi email di altri B&B, ma non si trova nulla. Praticamente tutto è controllato da poche agenzie turistiche. Un po’ come ai tempi dell’Unione Sovietica. Pazienza, vorrà dire che a Samarcanda gireremo, come al solito, per trovare una sistemazione.

 

 

Bukhara

 

Eleganza orientale
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Oggi abbiamo in programma una gita poco fuori città, al Palazzo dell’Emiro. Troviamo una serie di edifici dal poco al molto kitsch, padiglioni dalle vetrate eccessivamente colorate ed i soffitti intarsiati e dipinti con colori improbabili. Sono esposte le collezioni dell’Emiro e i doni ricevuti, soprattutto vestiti e vasi cinesi. Troppi colori, troppe decorazioni, nessun gusto particolare. Non mi piace.
Il parco però è bello, molto rilassante, verdeggiante e, come si conviene nell’immaginario di un palazzo orientale, con alcuni pavoni che corrono liberi tra le aiuole fiorite.
Torniamo verso la città. Ci fermiamo in un bazar indicato sia dalla guida che da un paio di persone nei giorni scorsi come “IL” bazar di Bukhara. Caterina confida di trovare altro artigianato da acquistare. Io, conoscendo un po’ di più l’Uzbekistan, so che “bazar” qui viene inteso nel senso letterale del termine, cioè mercato e che quindi si trovano le merci dei mercati con bancarelle di vestiti e scarpe prevalentemente cinesi, accessori per la casa, la cucina, il bricolage. Difatti è così. L’unica parte più interessante è quella dove si concentrano i venditori di accessori per i matrimoni. Usano ancora lunghi e decorati vestiti tradizionali, tuniche multicolori, turbanti scintillanti, piccoli copricapo ricamati per i bambini. Per certi versi il gusto è nuovamente eccessivo, però affascinante. Siamo gli unici stranieri e presto abbiamo la sensazione che tutto il mercato sappia di noi. Ci indicano, ci chiamano, ci salutano. Caterina è interessata ad un copricapo per il figlio di 1 anno di una coppia di amici. Diventa presto un caso di tutto il mercato. Si avvicinano persone da molte bancarelle offrendo cappellini più o meno grandi, ricamati a mano, a macchina, colorati, bianchi, in cotone, seta, misti. Non ci siamo, Caterina li fa correre, impazzire.

 

 

Bukhara

 

Falli tra le fronde
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Bukhara

 

Sotto la cupola - 2
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Bukhara

 

Affare fatto - 2
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Bukhara

 

Bellezza alla medresa
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Bukhara

 

Tutto questo un giorno
sarà tuo!
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Bukhara

 

Caccia all’asino
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“Questo colore non mi piace!”
“Sì, ma di che colore ha i capelli?”
“Non mi ricordo!”
“Come non ti ricordi?!?”
“Non è mio figlio!”
E poi di nuovo: questo è troppo grande, questo è piccolo! Il disegno è brutto, questo è fatto a macchina. Alla fine, tra le risate generali, troviamo quello che fa per noi. I nostri amici saranno contenti!
Torniamo in albergo, sono intontito dal sonno.
Usciamo di nuovo, passeggiamo fino al Chor Minor. Nei vicoli siamo intercettati da diversi ragazzini.

 

Bukhara

 

Sotto la cupola - 1
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Bukhara

 

Cheeeeese!
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Bukhara

 

Affare fatto - 1
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Bukhara

 

Il Pensatore
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Bukhara

 

Leggero aroma di cipolla
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Arriviamo a quella che era una porta di una moschea, ora rimasta a far da guardia a bassi edifici color sabbia. É bello, ma non trasmette la pace e non raggiunge la grazia del mausoleo di ieri. All’ingresso è stato ricavato un piccolo negozio di souvenir, dove incontriamo una coppia di italiani, simpatici. Si sale in cima da una piccola scala. Paghiamo il biglietto al proprietario del negozio. Sembra quasi di entrare a casa sua, di dover chiedere il permesso, invece di essere un monumento accessibile a chiunque. Non c’è una gran vista dal tetto, ma le quattro piccole torri sormontate da cupole azzurrissime sono molto belle, uniche.
Torniamo alla Lyabi Hauz, vado nella medresa - mercato e torno immediatamente dall’artigiano del rame che avevo ammirato l’altro giorno. Riprendo in mano il piatto con inciso il Minareto e le medrese della piazza di Bukhara. É bellissimo. Contratto col tipo, alla fine troviamo un prezzo che soddisfa entrambi: 45 dollari. Sono dell’umore di fare acquisti, mi infilo immediatamente nella bassa bottega di una pittrice. Crea degli acquarelli suggestivi, la stessa tecnica pittorica, così acquosa, onirica, richiama in maniera più netta un passato ormai perduto, ma che nei suoi tratti sembra tornare in vita. Compro un piccolo disegno, anche stavolta il criterio di scelta è guidato dalle dimensioni, visto che la moto è ormai carica praticamente al massimo e l’ammortizzatore è sempre sfondato.
Corriamo al Grande, ci arrampichiamo. Ammiriamo il tramonto, scattiamo molte foto, rapite dal paesaggio che arriva anche oltre i confini della città, spaziando nel deserto circostante. O forse lo vedo nella mia mente, mi perdo tra passato e presente, sento ancora le grida dei condannati, vedo l’Emiro che passeggia protetto dalla sua Corte, in lontananza vedo l’arrivo di una lunga carovana di commercianti a bordo di cammelli carichi all’inverosimile. Vengono a trattare materie prime qui assenti, come i metalli o altri beni di consumo e ripartono carichi di seta e ... schiavi.
Torniamo a gravitare attorno alla Lyabi, ceniamo ottimamente.
Ho voglia di dolce, compro delle mandorle glassate in un negozietto, uno dei pochi ancora aperto alle 10 di sera. Ci sdraiamo a chiacchierare e a sgranocchiare sull’unico letto rimasto nella piazza, sotto alla statua di Nasreddin.
Ad un certo punto arriva un gruppo di ragazzini. Ridono. Iniziano a giocare attorno alla statua. Il più coraggioso si arrampica, per far vedere chi è il più forte. Gli altri strillano da sotto. Arriva la polizia. Sgombrano tutto, facendo tornare la pace ... o la morte?
Questa piazza, da quando non ci sono più i ragazzini che si tuffano in acqua dai gelsi, da quando hanno tolto praticamente tutti i letti dove si riunivano i vecchietti della città a giocare, chiacchierare e bere tè, da quando hanno invaso tutto con ombrelloni Coca Cola dei ristoranti tutti uguali, ha perso il poco soffio vitale che aveva per diventare l’ennesimo museo all’aria aperta, imbalsamato. Peccato!
Crolliamo a letto presto, spero di riposarmi!

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18/08/2007 - “L’apparizione del Registan”
Mi sembra il cuore della notte quando squilla il telefono. Invece, non è neanche l’una. Mi vogliono dalla reception, c’è un problema con la moto, devo spostarla. Di nuovo storie col parcheggio! Ho fatto appena in tempo a dire che finalmente qui non mi stressavano e che potevo lasciarla per strada ...
Mi vesto alla ben’e meglio, scendo ma ad ogni gradino sale il malumore. Trovo un poliziotto dall’espressione arcigna e il ragazzo della reception che, conciliante, mi propone:
“Può sistemarla qui, nell’albergo, o in quello a fianco!”
Ancora una volta mi stupisco di come non si rendano conto nella maniera più totale del peso e delle dimensioni di una moto del genere, da sollevare di peso per farle salire i 5 gradini dell’ingresso.
“Qui è impossibile ...”, faccio notare, ancora di pessimo umore per dover essere sceso in strada mentre dormivo per un motivo del genere, “... posso vedere l’altro albergo?”
“Certo!”, risponde allegro precedendomi.
L’ingresso è costituito da un portone che dà su un cortile, pieno zeppo di roba tra cui tavoli, sedie, un’auto, biciclette e montagne di cianfrusaglie. Sono sempre più irritato.
Prima di muoverla, però, mi accerto che:
“Non devo pagare un centesimo, giusto?”, chiedo in tono retorico e vagamente aggressivo.
“Certo, non si preoccupi!”, risponde il ragazzo cercando di tranquillizzarmi.
Fatichiamo un po’ per spostarla e trovare un posto. Tirarla sul cavalletto centrale è ormai quasi impossibile. La moto è troppo bassa, l’ammortizzatore posteriore è completamente sfondato. Sempre che sia solo quello. Speriamo che regga fino alla fine del viaggio, ormai mancano pochi km, meno di mille mi pare.
Mentre torno in camera, il ragazzo della reception, dopo essersi assicurato che il poliziotto se n’è andato, mi tira da parte:
“Mi deve scusare, per me la moto andava benissimo, non c’è nessun pericolo, ma la polizia non vuole avere problemi con gli stranieri, quindi per evitare rischi mi hanno obbligato a chiederle di spostarla e chiuderla da qualche parte.”
“Capisco ... va bene, buonanotte!”
Invece mi è passato il sonno. Scrivo, leggo.
Mi sveglio alle 8, con un prevedibilissimo mal di testa.
Colazione, godendoci per l’ultima volta lo spettacolo del colonnato, della corte, del cielo brillante e intenso, dell’aria frizzante.
Bagagli: con quello acquistato ieri, non riusciamo a chiudere i bauli, ma dopo un lungo lavoro di aggiustamenti, spostamenti, compressioni e piegamenti, l’impresa riesce.
Sono molto preoccupato per la moto. Ricordo che quando giorni fa ho saputo che un compagno di viaggio di Adriano era dovuto tornare in Italia perchè gli era esploso l’ammortizzatore posteriore, mi ero chiesto come doveva essere, cosa sarebbe accaduto al momento dell’esplosione.
Ho paura che sto per scoprirlo.
La moto è incredibilmente più bassa, non sta più in equilibrio sul cavalletto laterale, a meno di non posizionarlo in una scanalatura dell’asfalto, è pesantissima da tirare su quello centrale, anche da scarica. Viaggiando, al minimo avvallamento o buca tocchiamo sotto. Sento il manubrio molto più alto, nel senso che sono seduto molto più in basso del normale.
Faccio i conti: mancano circa 600 km alla meta finale di Tashkent. Pochi rispetto ai 6500 fatti finora, un’infinità da percorrere con una moto in panne.
Speriamo bene!
Oggi dovremmo arrivare a Samarcanda, passando da Shakhrisabz. Mi spiace lasciare Bukhara e la sua atmosfera meravigliosamente rilassante. So già che Samarcanda, più spettacolare per certi monumenti, sicuramente non avrà la stessa magia.
Mi sono rimasti solo 3 rullini di diapositive e il quaderno del diario è quasi finito. Insomma, un po’ tutto è in riserva!
Appena fuori Bukhara inizia il deserto. Piatto, caldo, noioso. In realtà è più steppa semi desertica, piena com’è di arbusti e sterpaglie tra il verde pallido e il giallo paglia.
Lungo la strada passo davanti ad un gommista. Inversione, entro, faccio gonfiare la gomma posteriore. Era sgonfissima! La situazione migliora di poco, continuiamo a toccare.
Andiamo verso sud, verso Termiz, direzione Afghanistan. Il nome mi affascina moltissimo, l’idea mi fa sognare. Spero di poterci andare presto.

 

Verso Shakhrisabz

 

Una volta tanto si mangia!
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Lungo la strada ci fermiamo in una locanda. Ci rinfreschiamo sotto un fitto pergolato di vigne, mangiamo un pilaf eccellente, ingolliamo il solito bottiglione di Coca Cola.
Ormai ignoro del tutto i blocchi della polizia, anche quando mi fischiano, mi indicano di fermarmi con il manganello, ci urlano dietro. La linea è: se siamo stanchi e vogliamo fermarci, bene, li facciamo contenti. Altrimenti orecchie da mercante e tiro dritto!
Verso Qarshi ci fermiamo sotto un arco gigantesco. Ovviamente ad un posto di polizia. Ci offrono il tè e ci pongono la solita, prevedibile sfilza di domande:
“Da dove venite, dove andate, siete sposati, quanti figli avete, come nessuno! Io 4, lui 5, l’altro 27”, e così via. Queste domande, in verità, ci vengono rivolte da moltissime persone. Passanti, negozianti e in generale da chiunque entra in contatto con noi, cioè tutti.
Arriviamo a Shakhrisabz, sonnolenta cittadina con alcuni monumenti interessanti. Siamo 80 km a sud di Samarcanda, il caldo è soffocante. Caterina resta alla moto mentre vado a comprare una bottiglia d’acqua. Siamo completamente senza soldi, solo pochi spiccioli. Arrivo fino all’ingresso di un bar, stanno annaffiando la spianata di cemento sul davanti per rinfrescare l’aria. Torno, quasi finiamo la bottiglia, decidiamo di fare una passeggiata nell’ampio parco che circonda la zona archeologica.

 

 

Shakhrisabz

 

La porta di casa
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Lasciamo la moto carica per andare a visitare quello che resta dell’imponente reggia di Tamerlano. Quella che doveva essere la porta è impressionante, altissima, massiccia. Entriamo come se nulla fosse quando ci ritroviamo alle spalle il guardiano:
“Con chi siete?”, chiede gentilmente.
“Come?”
“Siete con qualcuno?”
“No ... solo noi due!”
“C’è il biglietto da pagare!”
“Ah ... accidenti ... non lo sapevamo, ci scusi.”
“Nessun problema, ecco i due biglietti.”
“Purtroppo abbiamo finito i soldi ...”
Il ragazzo ci squadra con uno sguardo furbo, simpatico. Ci pensa un attimo, poi sentenzia:
“Va bene, entrate, io non vi ho visto” e senza salutare gira le spalle e torna verso l’ingresso.
Andiamo proprio sotto le mura, ci lasciamo sovrastare, sia fisicamente che mentalmente, da tanta grandiosità. I mosaici che ancora si intuiscono sono meraviglie di grazia, finezza ed eleganza. Come sempre, quando mi trovo davanti a monumenti così singolari, unici, mi chiedo cosa lasceremo invece noi ai posteri, quali sono le opere d’arte monumentali che abbiamo costruito più o meno di recente. Non mi viene in mente nulla. Forse alcune opere di architetti famosi, tipo Frank Gehry e pochi altri. Non so, non sono ottimista, sicuramente nostalgico, ma trovarsi davanti ad opere del genere per forza ti rende scettico di fronte all’era attuale, fatta di prestazioni, razionalità e cattivo gusto. Basterebbe anche solo guardare le fabbriche costruite all’inizio del ’900 e qualsiasi altra struttura successiva. All’epoca c’erano decorazioni, un minimo di gusto, di volontà di aggraziare ed abbellire un luogo altrimenti ben poco allegro. Adesso si vedono capannoni che sembrano scatole di cartone e palazzi tirati col righello.
Timur, ancora oggi, dopo secoli, susciti riflessioni e sfidi con la tua grandezza il supponentissimo e arrogante XXI secolo ...

 

Shakhrisabz

 

Tamerlano il Modesto
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Attraversiamo di nuovo il parco in direzione della statua che lo commemora. É nuova, durante l’Unione Sovietica era vietato commemorare questo che può essere considerato il padre fondatore, se non specificatamente dell’Uzbekistan, quanto meno di quest’area geografica dove i russi sono estranei tanto quanto noi. La scusa, comunque plausibile, era che non fosse giusto ricordare quello che a tutti gli effetti, è stato un despota sanguinario che ha fatto migliaia e migliaia di morti.
Torniamo alla moto. Sono preoccupato per tutti i bagagli lasciati in bella mostra, ma è tutto a posto.
Arrivando abbiamo visto una cupola meravigliosa. La raggiungiamo districandoci tra i vari sensi vietati e le strade chiuse dovute a dei lavori stradali. Alla fine, esausto e preoccupato per i km che ancora ci aspettano, sfrutto la peculiarità della moto e mi infilo su un marciapiede, in bilico sopra delle canaline di scolo dell’acqua larghe mezzo metro e profonde altrettanto.
Siamo gli unici turisti, anche perchè è ormai pomeriggio inoltrato ed attiriamo gli sguardi di tutti.
Il complesso delle due moschee è più bello da fuori che dall’interno, dove le pareti e in generale l’aspetto degli ambienti è spoglio e poco attraente. Le cupole ci rapiscono con i loro colori sempre incredibili, anche dopo decine di volte che ti fermi ad ammirarle.
Ci rapiscono, letteralmente, anche le venditrici accalcate nei pochi metri disponibili nella corte interna. Ognuna davanti ad una porta bassa che porta nelle piccole botteghe. Chissà cosa c’era una volta, di sicuro non negozi di souvenir!
Veniamo trascinati io da una parte e Caterina dall’altra. É divertente, perchè ci urliamo i prezzi e le offerte confrontandole e quando la ragazza di turno che ci ha rapito capisce che la concorrente sta facendo un prezzo migliore, cala a sua volta il prezzo. Siamo assaliti, ci tirano la manica anche mentre stiamo parlando con una di loro. Quando ci facciamo “rapire”, la venditrice si arrabbia con la concorrente che ci ha appena convinto a seguirla. Il teatrino continua per una mezz’ora abbondante, forse anche un’ora. É tardissimo, inizio a innervosirmi perchè capisco che anche oggi, nonostante i pochi km che avevamo da fare, rischiamo di arrivare col buio.
Contrattiamo lunghissimamente per i tipici copricapo colorati, per una tovaglia ricamata ed altri prodotti d’artigianato. Una mi mette in mano un cappello, un’altra me ne calca uno in testa, un’altra ancora me li descrive a voce, rapidissimamente, mischiando russo, uzbeco e inglese.
Alla fine prendiamo una tovaglia ricamata a macchina per 5 dollari e 3 cappellini con un portamonete per 6 dollari.
Ripartiamo che il sole sta tramontando.
La strada è brutta, la moto tocca spessissimo il fondo, anche violentemente. Sono preoccupato.
Attraversiamo una catena di montagne, le uniche che increspano la terra da giorni. Sono splendide al crepuscolo, si illuminano di colori caldi e esotiche nell’aspetto. Ampi paesaggi sulla vallata a sud di Samarcanda. Rocce tonde e levigate, case di fango uguali a mille anni fa, a parte le linee elettriche che si intravedono.

 

 

Verso Samarcanda

 

Incredibilmente le montagne
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Verso Samarcanda

 

Samarcanda, ARRIVIAMO!!
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Arriviamo al passo con le ultime luci del giorno. Un nutrito gruppo di turisti uzbechi continua a fotografarsi davanti alla scritta monumentale che sancisce l’inizio della regione di Samarcanda. Nell’attesa vengo avvicinato da un ragazzino che vende erbe di montagna per infusi in sacchetti di plastica. Ne prendo un paio per pochi centesimi.
Se ne vanno, foto di rito e ripartenza!
Rapidamente si fa buio pesto. Per uscire dalle montagne mi accodo ad un’auto visto che il mio faro è molto debole, praticamente non illumina. Non so se è rotto oppure col fatto della sospensione rotta probabilmente sto illuminando le stelle.
Torniamo finalmente in pianura, la strada non è delimitata, ondeggio sulla striscia d’asfalto cercando di capire quando mi sto avvicinando troppo al bordo in terra ed evitando gli sporadici carretti che tornano a casa dai campi.
Prendiamo alcuni bivi alla cieca, senza indicazioni. Chiedo informazioni, dovremmo essere sulla strada giusta.
La strada all’improvviso si restringe, ci infiliamo in schiere di case basse sia a sinistra che a destra. Non c’è illuminazione, la polvere invece abbonda. Non capisco se siamo già nella periferia di Samarcanda oppure stiamo attraversando uno dei paesini che la precedono. Proseguiamo per inerzia, non abbiamo molte alternative. Dopo qualche km di case al buio, chiedo di nuovo.
“Mi scusi, per Samarcanda?”
Mi guardano senza rispondere, quasi sorpresi, stupiti dalla domanda.
“Per il Registan!”, provo a cambiare, sperando di essere già in città.
C’è una reazione, mi indicano un tratto di strada, poi mi perdo anche nella spiegazione.
Siamo entrati a Samarcanda alla chetichella, su una strada piccola e dissestata. Non molto trionfale, poi al buio...
Proseguiamo, la strada resta stretta, intrecciata in vicoli e case che sembrano prendere il sopravvento, un po’ come la vegetazione spontanea delle foreste tropicali.
Dopo diversi km compaiono i semafori, segno inequivocabile di civiltà (!). Capiamo di essere vicini al centro, seguo il flusso di macchine ed infine arriviamo alle spalle del REGISTAN!
É recintato e sorvegliato da un cordone di militari. Stanno eseguendo delle prove di non so quale festa, ma il colpo d’occhio resta assolutamente eccezionale.
Siamo stanchi, ma vogliamo ugualmente fare una passeggiata. Dobbiamo trovare da dormire! Cerchiamo il B&B Bahodir che dovrebbe essere qui vicino. Dopo alcuni giri lo troviamo. Ci aspettavamo un posto “alternativo”, invece dal numero di stranieri presenti intuisco, poi ne ho conferma da un italiano che incontriamo, che è il primo dei B&B elencati dalla LP. Mi infastidisce questa globalizzazione degli alternativi ...
Non c’è posto, poi dopo una lunga contrattazione finiamo in una stanza con due brandine molli e cigolanti, senza bagno e con un paio di corte tende che coprono una piccola parte delle vetrate.
Mi cambio, scendo nella latrina comune cui si accede da una piccola scala che scende sotto il livello del patio centrale. Il locale è basso, devo tenere la testa piegata. Ci sono un paio di turche luride in due stanzini brutti, bassi e scrostati, illuminati da una lampadina che penzola dal soffitto.
Il lavandino è simile a quello dei nostri lavatoi, basso e profondo, con un rubinetto che butta acqua, solo quella fredda, dall’alto. La doccia preferisco non guardarla. Pare che domani si liberi una stanza col bagno, posso aspettare.
In ogni caso il gestore del posto, con la sua gentilezza incredibile, compensa questi disagi. É una persona straordinaria.
Ci fermiamo a parlare con Enzo, un ragazzo di Roma in giro da solo. Decide il giro da fare giorno per giorno, bello, anche se è affascinato dai vari dittatori della zona e dai posti più angoscianti creati qui dai sovietici e dai governi locali. Mi ricorda certe tappe del giro fatto da Dino e dalla sua agenzia! Poi inizia a parlare di lavoro con Caterina. Mi innervosisco moltissimo. Quello del lavoro è un pensiero latente che ho da qualche giorno e che mi angoscia. Mi viene il magone se penso che tra pochi giorni ho il volo di rientro e sarò inghiottito da decine di impegni “urgentissimi” e “importantissimi”. Mi sento letteralmente male.
In questo viaggio ho riassaporato una certa libertà. Certo non come viaggiare da soli, ma in ogni caso abbiamo vagato lontano per molti giorni anche se ancora distante dalle sensazioni che provai nel 2003, quando andai in Marocco da solo e senza itinerari prefissati ed in Italia, soprattutto, non mi aspettava niente e nessuno.
Dai discorsi fatti poco prima della partenza, quasi certamente l’autunno imporrà delle scelte e vorrei trovare qualcosa più affine al mio spirito, di più internazionale, che mi faccia andare nei posti che più mi affascinano, i vari “Sud del mondo”. Ma ancora non capisco come posso fare, in che modo e soprattutto in che direzione indirizzare i miei sforzi, le mie ricerche.

 

 

Samarcanda

 

Sogno notturno
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Samarcanda

 

Il Mondo in una piazza
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Usciamo per fare una passeggiata notturna verso il Registan. Le prove proseguono fino a tardi. Tra pochi giorni, ma saremo già in Italia, verrà celebrato il 2750mo compleanno della città. É buffo, perchè quando venni qui nel 2001, stavano celebrando il 2500mo anniversario della fondazione, ma pare che nel frattempo abbiano trovato dei reperti che hanno retrodatato la ricorrenza.
Danzatrici in costume, orchestra con musiche e cori che ci ricordano la Mongolia, molto orientali, affascinanti, bandiere di tutto il mondo che trasmettono bene il carattere universale, vero Patrimonio dell’Umanità di una città come Samarcanda che travalica il senso fisico della realtà, ormai svilito dalla brutta modernità, richiamando un passato che si confonde tra Storia e Mito, in una nebbia mistico-temporale che riveste e ricostruisce i monumenti, li vivifica, li rende attuali non capisco se con un salto in avanti, nell’oggi, oppure se con un viaggio all’indietro nel Tempo.
L’aria è fresca, quasi fredda, come si conviene nel deserto.
Anche oggi, praticamente niente cena. Andiamo a dormire poco dopo mezzanotte.

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