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Giornate: 16/08/2007 - “Pace e serenità a Bukhara”
Sotto il pergolato che si stende sulla parte sinistra della piazza, incrociamo un venditore di souvenir. É diverso dagli altri, ha oggetti più ricercati, particolari, tra cui gli immensi copricapo di pelliccia che, nei giorni scorsi, abbiamo visto diverse volte in Turkmenistan. Siamo di nuovo a corto di soldi. Chiedo di un cambio, ovviamente si offrono di farlo immediatamente! Confronto il tasso con quello dei giorni scorsi, più o meno ci siamo e poi non abbiamo molte alternative, quindi cambio in nero da una signora di un negozietto [Cambio Ark: 1 € = 1600 SUM]. Ci aggancia un tizio che si offre come guida. Tra inglese e russo riusciamo a intenderci decentemente e ci racconta la storia del posto. Non perde occasione per addossare colpe ai russi, la classe dominante della (teoricamente senza classi!) società sovietica. Viene loro addebitata la distruzione dell’Ark, il furto di tesori e altre colpe, senza analizzare minimamente chi era e cosa faceva l’Emiro, che tipo di governo avesse messo in piedi. Buona parte di quello descritto da Tiziano Terzani, in termini di museo che descriveva appunto il sistema di governo dittatoriale e sanguinario, le terribili condizioni sanitarie, l’economia arcaica, è sparito. Che peccato, le colpe e gli errori di ieri si ripetono oggi, invariati. Si cancella il passato per giustificare il presente. La Storia non esiste: chiunque la racconta la adatta a suo uso e consumo e la interpreta secondo i valori dominanti. Ad esempio, secondo il professore di ieri, incontrato proprio sotto il Grande, il minareto principale di Bukhara, da lassù buttavano solo le donne. Secondo il tizio che ci sta guidando, invece, buttavano i condannati a morte solo prima di Gengis Khan. Dal suo arrivo in poi, più nessuno. Ci guida attraverso le aree della fortezza. La grande spianata delle udienze, sale e salette dove si riconoscono fino ad un certo punto le belle ricostruzioni storiche di epoca sovietica, dalla Preistoria fino a ... Si interrompono quando si arriva ai tempi moderni! Il periodo sovietico è stato semplicemente cancellato, non esiste un solo, piccolo, minuscolo accenno. C’è, semplicemente, un buco temporale di 100 anni. Sono sconcertato. Anche in Italia abbiamo avuto la dittatura, ma almeno negli excursus storici se ne parla! Le foto d’epoca, in bianco e nero, sono come sempre interessantissime. Persone vestite nelle fogge più incredibili, grandi cappelli di pelliccia, vestiti elaborati, situazioni curiose. Ci porta anche in un punto da cui si gode un bel panorama verso le medrese principali. Passiamo su cumuli di macerie. Mi rendo conto che la parte visitabile è infinitesima rispetto alle dimensioni originali dell’Ark. I sovietici, evidentemente, non avevano alcun interesse a ripristinare il centro di un potere così odioso ed hanno semplicemente lasciato un mucchio di calcinacci nel cuore della città. Tuttavia mi stupisce, visto che, di contro, la totalità delle medrese che oggi possiamo ammirare sono state restaurate e in alcuni casi ricostruite proprio da loro, nonostante simboleggiassero la religione, un concetto avverso al loro “illuminismo” che, di fatto, non è stato altro che un sostituire le precedenti divinità con altre divinità pagane. Molto meno attraenti e durevoli, come si è ampiamente capito.
Diamo una piccola mancia al nostro Cicerone e lo congediamo. Resta seduto a chiacchierare con noi ancora un po’, poi va a cercare altri turisti da agganciare. Usciamo, ci perdiamo nei vicoli polverosi della città vecchia. Il tono dominante è beige chiaro, di tanto in tanto si aprono delle piccole piazze, talvolta con una vasca vuota al centro, con scuole coraniche ad affacciarsi.
Il vagabondaggio prosegue. Finiamo in mezzo ad un gruppo di ragazzini che passa la giornata sotto ad una medresa tra un tiro al pallone e corse in bicicletta. “Volete vederla? Abbiamo le chiavi!”, ci chiedono in 5, tutti intorno, indicando l’edificio chiuso. Ci penso un attimo, guardo Caterina e accetto. Scappano urlando di gioia come rondini. Tornano dopo un paio di minuti con un grosso mazzo di chiavi ad aprire un lucchetto come si vede nei fumetti: grande, con la toppa dove entrerebbe un dito, l’arco perfetto sopra ad un corpo massiccio, borchiato. Il posto è molto grande. La classica corte centrale, le decorazioni sono quasi completamente scomparse. Ovunque detriti ed abbandono. Ci portano sul tetto. La vista è interessante. Ad un certo punto, mentre loro continuano a giocare tra loro e a darci notizie sul posto, arrivano delle urla da sotto. Si affacciano, si spaventano. “Venite, ora dobbiamo uscire!” esclamano trascinandoci via. Troviamo una coppia molto arrabbiata. “Sono vostri figli?”, mi informo dalla signora. “No! Sono i figli dei vicini. Non possono prendere le chiavi, è vietato!”, esclama sgarbatamente, chiudendoci la porta dietro le spalle. Allunghiamo 200 Sum al ragazzino più sveglio che ha condotto l’intera operazione. Scappano felici, ridendo. Ci sediamo ad un bel letto di un ristorantino nella bella piazza davanti all’Ark. Mi concedo un manti, ovviamente carico di cipolle per la gioia di Caterina. Alla nostra destra c’è una madre con la figlia. Ci sorridono. Quando faccio loro una foto mi accorgo che la figlia è incinta. Ha l’aria estremamente serena. Dopo qualche minuto arriva un gruppo di donne una più anziana dell’altra. Si accomodano su un letto, ordinano insalate ricolme di cipolle, spiedini e tè verde. Passa un signore che spinge una bicicletta. Davanti e dietro porta due cassette piene d’uva nera. Le signore lo fermano, comprano alcuni grappoli. Una scena d’altri tempi. Ci avviamo verso un mausoleo e finiamo per caso in mezzo ad una fiera del Cocomero. Troviamo anche un gruppo di italiani. Ai lati di una spianata al centro di un parco pubblico si susseguono espositori con un numero incredibile di varietà di cocomeri. Dai più piccoli a quelli incredibilmente grandi, dal verde scuro, intenso a quelli più chiari con striature gialle. La polpa è rosa, rossa, arancione, bianca. Ne fanno assaggiare alcuni. Un gruppetto che espone ci chiama. Ci facciamo volentieri spiegare le diverse specie, le peculiarità. Facciamo un paio di foto di gruppo. Il tipo alla mia destra, con mio grande sgomento, appena ci mettiamo in posa davanti alla macchina, afferra la mia mano sinistra e la tiene nella sua, intrecciando le sue dita alle mie. Che impressione! Non voglio essere scortese e sopporto l’invasione di campo, una confidenza impensabile da noi. Alla fine ci regalano due meravigliosi, immensi cocomeri. Ringraziamo e ci infiliamo nel parco che circonda il mausoleo che stavamo cercando. Il posto, di nuovo, è magnifico. Una rilassante vasca d’acqua al centro, attorno un roseto, vialetti e panchine, aiuole, innamorati che si baciano, altri che si guardano offesi da qualche contrasto. Ci sediamo e assaporiamo la vita, il momento, il saporitissimo cocomero. Mi alzo, lo offro ai ragazzi delle panchine a fianco che accettano volentieri. Mi lavo le mani, imitato da un senza tetto un po’ fuori di testa, di quelli che, appunto, vagano nei parchi. Il mausoleo è bellissimo nella sua semplicità di mattoni e decorazioni geometriche. Nessuna decorazione, nessun colore a parte quello dei mattoni stessi, marrone chiaro. Trasmette serenità, eleganza e rigore allo stesso tempo. Mi perdo nelle circonvoluzioni dei labirinti delle facciate e della mia mente. Il pomeriggio sta finendo. Torniamo verso il centro, costeggiando l’Ark. Un gruppo di ragazzi gioca a pallone sotto le mura. Non so perchè, ma provo una grande nostalgia. Li osservo, ripenso a quando andavo in bicicletta sempre e ovunque, in pomeriggi infiniti sotto al sole. Una ragazzina sta tornando a casa, piegata sotto al peso di una latta più grande di lei. La saluto. Si mette in posa, sorridente. Un’altra piccola lezione di vita. Al tramonto siamo di nuovo sotto al Grande, ribattezzato il Ciotto, un termine campano che ben descrive il minareto panciuto. La luce è calda, godiamo e ci abbeveriamo della grande serenità di cui finalmente riusciamo a godere, dopo i faticosi giorni trascorsi. Torniamo un attimo in albergo, prima di concederci una rilassante cena a bordo della Lyabi Hauz. Un’ultima passeggiata, buonanotte! 17/08/2007 - “Alla corte dell’Emiro di Bukhara”
Il parco però è bello, molto rilassante, verdeggiante e, come si conviene nell’immaginario di un palazzo orientale, con alcuni pavoni che corrono liberi tra le aiuole fiorite. Torniamo verso la città. Ci fermiamo in un bazar indicato sia dalla guida che da un paio di persone nei giorni scorsi come “IL” bazar di Bukhara. Caterina confida di trovare altro artigianato da acquistare. Io, conoscendo un po’ di più l’Uzbekistan, so che “bazar” qui viene inteso nel senso letterale del termine, cioè mercato e che quindi si trovano le merci dei mercati con bancarelle di vestiti e scarpe prevalentemente cinesi, accessori per la casa, la cucina, il bricolage. Difatti è così. L’unica parte più interessante è quella dove si concentrano i venditori di accessori per i matrimoni. Usano ancora lunghi e decorati vestiti tradizionali, tuniche multicolori, turbanti scintillanti, piccoli copricapo ricamati per i bambini. Per certi versi il gusto è nuovamente eccessivo, però affascinante. Siamo gli unici stranieri e presto abbiamo la sensazione che tutto il mercato sappia di noi. Ci indicano, ci chiamano, ci salutano. Caterina è interessata ad un copricapo per il figlio di 1 anno di una coppia di amici. Diventa presto un caso di tutto il mercato. Si avvicinano persone da molte bancarelle offrendo cappellini più o meno grandi, ricamati a mano, a macchina, colorati, bianchi, in cotone, seta, misti. Non ci siamo, Caterina li fa correre, impazzire.
“Sì, ma di che colore ha i capelli?” “Non mi ricordo!” “Come non ti ricordi?!?” “Non è mio figlio!” E poi di nuovo: questo è troppo grande, questo è piccolo! Il disegno è brutto, questo è fatto a macchina. Alla fine, tra le risate generali, troviamo quello che fa per noi. I nostri amici saranno contenti! Torniamo in albergo, sono intontito dal sonno. Usciamo di nuovo, passeggiamo fino al Chor Minor. Nei vicoli siamo intercettati da diversi ragazzini.
Torniamo alla Lyabi Hauz, vado nella medresa - mercato e torno immediatamente dall’artigiano del rame che avevo ammirato l’altro giorno. Riprendo in mano il piatto con inciso il Minareto e le medrese della piazza di Bukhara. É bellissimo. Contratto col tipo, alla fine troviamo un prezzo che soddisfa entrambi: 45 dollari. Sono dell’umore di fare acquisti, mi infilo immediatamente nella bassa bottega di una pittrice. Crea degli acquarelli suggestivi, la stessa tecnica pittorica, così acquosa, onirica, richiama in maniera più netta un passato ormai perduto, ma che nei suoi tratti sembra tornare in vita. Compro un piccolo disegno, anche stavolta il criterio di scelta è guidato dalle dimensioni, visto che la moto è ormai carica praticamente al massimo e l’ammortizzatore è sempre sfondato. Corriamo al Grande, ci arrampichiamo. Ammiriamo il tramonto, scattiamo molte foto, rapite dal paesaggio che arriva anche oltre i confini della città, spaziando nel deserto circostante. O forse lo vedo nella mia mente, mi perdo tra passato e presente, sento ancora le grida dei condannati, vedo l’Emiro che passeggia protetto dalla sua Corte, in lontananza vedo l’arrivo di una lunga carovana di commercianti a bordo di cammelli carichi all’inverosimile. Vengono a trattare materie prime qui assenti, come i metalli o altri beni di consumo e ripartono carichi di seta e ... schiavi. Torniamo a gravitare attorno alla Lyabi, ceniamo ottimamente. Ho voglia di dolce, compro delle mandorle glassate in un negozietto, uno dei pochi ancora aperto alle 10 di sera. Ci sdraiamo a chiacchierare e a sgranocchiare sull’unico letto rimasto nella piazza, sotto alla statua di Nasreddin. Ad un certo punto arriva un gruppo di ragazzini. Ridono. Iniziano a giocare attorno alla statua. Il più coraggioso si arrampica, per far vedere chi è il più forte. Gli altri strillano da sotto. Arriva la polizia. Sgombrano tutto, facendo tornare la pace ... o la morte? Questa piazza, da quando non ci sono più i ragazzini che si tuffano in acqua dai gelsi, da quando hanno tolto praticamente tutti i letti dove si riunivano i vecchietti della città a giocare, chiacchierare e bere tè, da quando hanno invaso tutto con ombrelloni Coca Cola dei ristoranti tutti uguali, ha perso il poco soffio vitale che aveva per diventare l’ennesimo museo all’aria aperta, imbalsamato. Peccato! Crolliamo a letto presto, spero di riposarmi! 18/08/2007 - “L’apparizione del Registan”
Ormai ignoro del tutto i blocchi della polizia, anche quando mi fischiano, mi indicano di fermarmi con il manganello, ci urlano dietro. La linea è: se siamo stanchi e vogliamo fermarci, bene, li facciamo contenti. Altrimenti orecchie da mercante e tiro dritto! Verso Qarshi ci fermiamo sotto un arco gigantesco. Ovviamente ad un posto di polizia. Ci offrono il tè e ci pongono la solita, prevedibile sfilza di domande: “Da dove venite, dove andate, siete sposati, quanti figli avete, come nessuno! Io 4, lui 5, l’altro 27”, e così via. Queste domande, in verità, ci vengono rivolte da moltissime persone. Passanti, negozianti e in generale da chiunque entra in contatto con noi, cioè tutti. Arriviamo a Shakhrisabz, sonnolenta cittadina con alcuni monumenti interessanti. Siamo 80 km a sud di Samarcanda, il caldo è soffocante. Caterina resta alla moto mentre vado a comprare una bottiglia d’acqua. Siamo completamente senza soldi, solo pochi spiccioli. Arrivo fino all’ingresso di un bar, stanno annaffiando la spianata di cemento sul davanti per rinfrescare l’aria. Torno, quasi finiamo la bottiglia, decidiamo di fare una passeggiata nell’ampio parco che circonda la zona archeologica.
“Con chi siete?”, chiede gentilmente. “Come?” “Siete con qualcuno?” “No ... solo noi due!” “C’è il biglietto da pagare!” “Ah ... accidenti ... non lo sapevamo, ci scusi.” “Nessun problema, ecco i due biglietti.” “Purtroppo abbiamo finito i soldi ...” Il ragazzo ci squadra con uno sguardo furbo, simpatico. Ci pensa un attimo, poi sentenzia: “Va bene, entrate, io non vi ho visto” e senza salutare gira le spalle e torna verso l’ingresso. Andiamo proprio sotto le mura, ci lasciamo sovrastare, sia fisicamente che mentalmente, da tanta grandiosità. I mosaici che ancora si intuiscono sono meraviglie di grazia, finezza ed eleganza. Come sempre, quando mi trovo davanti a monumenti così singolari, unici, mi chiedo cosa lasceremo invece noi ai posteri, quali sono le opere d’arte monumentali che abbiamo costruito più o meno di recente. Non mi viene in mente nulla. Forse alcune opere di architetti famosi, tipo Frank Gehry e pochi altri. Non so, non sono ottimista, sicuramente nostalgico, ma trovarsi davanti ad opere del genere per forza ti rende scettico di fronte all’era attuale, fatta di prestazioni, razionalità e cattivo gusto. Basterebbe anche solo guardare le fabbriche costruite all’inizio del ’900 e qualsiasi altra struttura successiva. All’epoca c’erano decorazioni, un minimo di gusto, di volontà di aggraziare ed abbellire un luogo altrimenti ben poco allegro. Adesso si vedono capannoni che sembrano scatole di cartone e palazzi tirati col righello. Timur, ancora oggi, dopo secoli, susciti riflessioni e sfidi con la tua grandezza il supponentissimo e arrogante XXI secolo ...
Torniamo alla moto. Sono preoccupato per tutti i bagagli lasciati in bella mostra, ma è tutto a posto. Arrivando abbiamo visto una cupola meravigliosa. La raggiungiamo districandoci tra i vari sensi vietati e le strade chiuse dovute a dei lavori stradali. Alla fine, esausto e preoccupato per i km che ancora ci aspettano, sfrutto la peculiarità della moto e mi infilo su un marciapiede, in bilico sopra delle canaline di scolo dell’acqua larghe mezzo metro e profonde altrettanto. Siamo gli unici turisti, anche perchè è ormai pomeriggio inoltrato ed attiriamo gli sguardi di tutti. Il complesso delle due moschee è più bello da fuori che dall’interno, dove le pareti e in generale l’aspetto degli ambienti è spoglio e poco attraente. Le cupole ci rapiscono con i loro colori sempre incredibili, anche dopo decine di volte che ti fermi ad ammirarle. Ci rapiscono, letteralmente, anche le venditrici accalcate nei pochi metri disponibili nella corte interna. Ognuna davanti ad una porta bassa che porta nelle piccole botteghe. Chissà cosa c’era una volta, di sicuro non negozi di souvenir! Veniamo trascinati io da una parte e Caterina dall’altra. É divertente, perchè ci urliamo i prezzi e le offerte confrontandole e quando la ragazza di turno che ci ha rapito capisce che la concorrente sta facendo un prezzo migliore, cala a sua volta il prezzo. Siamo assaliti, ci tirano la manica anche mentre stiamo parlando con una di loro. Quando ci facciamo “rapire”, la venditrice si arrabbia con la concorrente che ci ha appena convinto a seguirla. Il teatrino continua per una mezz’ora abbondante, forse anche un’ora. É tardissimo, inizio a innervosirmi perchè capisco che anche oggi, nonostante i pochi km che avevamo da fare, rischiamo di arrivare col buio. Contrattiamo lunghissimamente per i tipici copricapo colorati, per una tovaglia ricamata ed altri prodotti d’artigianato. Una mi mette in mano un cappello, un’altra me ne calca uno in testa, un’altra ancora me li descrive a voce, rapidissimamente, mischiando russo, uzbeco e inglese. Alla fine prendiamo una tovaglia ricamata a macchina per 5 dollari e 3 cappellini con un portamonete per 6 dollari. Ripartiamo che il sole sta tramontando. La strada è brutta, la moto tocca spessissimo il fondo, anche violentemente. Sono preoccupato. Attraversiamo una catena di montagne, le uniche che increspano la terra da giorni. Sono splendide al crepuscolo, si illuminano di colori caldi e esotiche nell’aspetto. Ampi paesaggi sulla vallata a sud di Samarcanda. Rocce tonde e levigate, case di fango uguali a mille anni fa, a parte le linee elettriche che si intravedono.
Se ne vanno, foto di rito e ripartenza! Rapidamente si fa buio pesto. Per uscire dalle montagne mi accodo ad un’auto visto che il mio faro è molto debole, praticamente non illumina. Non so se è rotto oppure col fatto della sospensione rotta probabilmente sto illuminando le stelle. Torniamo finalmente in pianura, la strada non è delimitata, ondeggio sulla striscia d’asfalto cercando di capire quando mi sto avvicinando troppo al bordo in terra ed evitando gli sporadici carretti che tornano a casa dai campi. Prendiamo alcuni bivi alla cieca, senza indicazioni. Chiedo informazioni, dovremmo essere sulla strada giusta. La strada all’improvviso si restringe, ci infiliamo in schiere di case basse sia a sinistra che a destra. Non c’è illuminazione, la polvere invece abbonda. Non capisco se siamo già nella periferia di Samarcanda oppure stiamo attraversando uno dei paesini che la precedono. Proseguiamo per inerzia, non abbiamo molte alternative. Dopo qualche km di case al buio, chiedo di nuovo. “Mi scusi, per Samarcanda?” Mi guardano senza rispondere, quasi sorpresi, stupiti dalla domanda. “Per il Registan!”, provo a cambiare, sperando di essere già in città. C’è una reazione, mi indicano un tratto di strada, poi mi perdo anche nella spiegazione. Siamo entrati a Samarcanda alla chetichella, su una strada piccola e dissestata. Non molto trionfale, poi al buio... Proseguiamo, la strada resta stretta, intrecciata in vicoli e case che sembrano prendere il sopravvento, un po’ come la vegetazione spontanea delle foreste tropicali. Dopo diversi km compaiono i semafori, segno inequivocabile di civiltà (!). Capiamo di essere vicini al centro, seguo il flusso di macchine ed infine arriviamo alle spalle del REGISTAN! É recintato e sorvegliato da un cordone di militari. Stanno eseguendo delle prove di non so quale festa, ma il colpo d’occhio resta assolutamente eccezionale. Siamo stanchi, ma vogliamo ugualmente fare una passeggiata. Dobbiamo trovare da dormire! Cerchiamo il B&B Bahodir che dovrebbe essere qui vicino. Dopo alcuni giri lo troviamo. Ci aspettavamo un posto “alternativo”, invece dal numero di stranieri presenti intuisco, poi ne ho conferma da un italiano che incontriamo, che è il primo dei B&B elencati dalla LP. Mi infastidisce questa globalizzazione degli alternativi ... Non c’è posto, poi dopo una lunga contrattazione finiamo in una stanza con due brandine molli e cigolanti, senza bagno e con un paio di corte tende che coprono una piccola parte delle vetrate. Mi cambio, scendo nella latrina comune cui si accede da una piccola scala che scende sotto il livello del patio centrale. Il locale è basso, devo tenere la testa piegata. Ci sono un paio di turche luride in due stanzini brutti, bassi e scrostati, illuminati da una lampadina che penzola dal soffitto. Il lavandino è simile a quello dei nostri lavatoi, basso e profondo, con un rubinetto che butta acqua, solo quella fredda, dall’alto. La doccia preferisco non guardarla. Pare che domani si liberi una stanza col bagno, posso aspettare. In ogni caso il gestore del posto, con la sua gentilezza incredibile, compensa questi disagi. É una persona straordinaria. Ci fermiamo a parlare con Enzo, un ragazzo di Roma in giro da solo. Decide il giro da fare giorno per giorno, bello, anche se è affascinato dai vari dittatori della zona e dai posti più angoscianti creati qui dai sovietici e dai governi locali. Mi ricorda certe tappe del giro fatto da Dino e dalla sua agenzia! Poi inizia a parlare di lavoro con Caterina. Mi innervosisco moltissimo. Quello del lavoro è un pensiero latente che ho da qualche giorno e che mi angoscia. Mi viene il magone se penso che tra pochi giorni ho il volo di rientro e sarò inghiottito da decine di impegni “urgentissimi” e “importantissimi”. Mi sento letteralmente male. In questo viaggio ho riassaporato una certa libertà. Certo non come viaggiare da soli, ma in ogni caso abbiamo vagato lontano per molti giorni anche se ancora distante dalle sensazioni che provai nel 2003, quando andai in Marocco da solo e senza itinerari prefissati ed in Italia, soprattutto, non mi aspettava niente e nessuno. Dai discorsi fatti poco prima della partenza, quasi certamente l’autunno imporrà delle scelte e vorrei trovare qualcosa più affine al mio spirito, di più internazionale, che mi faccia andare nei posti che più mi affascinano, i vari “Sud del mondo”. Ma ancora non capisco come posso fare, in che modo e soprattutto in che direzione indirizzare i miei sforzi, le mie ricerche.
Danzatrici in costume, orchestra con musiche e cori che ci ricordano la Mongolia, molto orientali, affascinanti, bandiere di tutto il mondo che trasmettono bene il carattere universale, vero Patrimonio dell’Umanità di una città come Samarcanda che travalica il senso fisico della realtà, ormai svilito dalla brutta modernità, richiamando un passato che si confonde tra Storia e Mito, in una nebbia mistico-temporale che riveste e ricostruisce i monumenti, li vivifica, li rende attuali non capisco se con un salto in avanti, nell’oggi, oppure se con un viaggio all’indietro nel Tempo. L’aria è fresca, quasi fredda, come si conviene nel deserto. Anche oggi, praticamente niente cena. Andiamo a dormire poco dopo mezzanotte. |
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