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Giornate: 19/08/2009 - “Le risaie di Ubud”
L’atmosfera del tempio è incredibile: oasi di pace a pochi metri dal caos; passi e inchini lenti e misurati attorniati dallo sciame di persone e motorini. Prenotiamo l’aereo pagandolo 450mila rupie (circa 32 euro) a testa: praticamente nulla! C’è da sperare di arrivare sani e salvi!
Ci dirigiamo verso la Grotta dell’Elefante. Guido piano per osservare tutto quello che mi circonda: le case e soprattutto i templi “pubblici” e quelli privati, a fianco delle case, dai quali si intuisce in un attimo il tenore di vita dei proprietari. Da uno di questi arriva forte, amplificata dagli altoparlanti, la voce penso di un monaco e la melodia del gamelan. Ci fermiamo all’istante. Sembrano delle prove, interrotte e riprese tra i commenti dei partecipanti. Osserviamo per alcuni minuti poi ci rechiamo in un tempio segnalato dalla guida che dovremmo aver superato poco fa. É il Penataran Sasih. Piccola offerta all’ingresso, mentre all’interno ci accoglie una guida che parla un inglese quasi incomprensibile. Mi perdo volentieri tra i mille altari, ognuno dedicato ad una divinità diversa ed amate e pregate, o forse temute, con intensità differenti, a giudicare dalle diverse quantità di offerte depositate di fronte a ciascuna di esse. Torniamo nel caos del traffico, ma dopo pochi minuti mi lascio attrarre da un cartello in inglese che segnala un altro tempio, puntando decisamente in un boschetto subito dietro la strada. Appena si esce dalla strada principale, il mondo si trasforma, il tempo rallenta, la pace conquista. Silenzio, quiete, case e templi eleganti. Proseguiamo fino a che la strada non muore nell’ennesimo tempio. Troviamo molte persone che caricano stuoie intrecciate ed altri paramenti su un camioncino. Chiediamo informazioni ad un ragazzo che ci conferma che si stanno preparando per una cremazione che avverrà il 21/8. “Il giorno buono!”, ci conferma con un sorriso. Il giorno favorevole agli Dei per accogliere le anime dei morti che verranno cremati.
Scendiamo una lunga scala ricavata in parte nella terra. Alla fine si passa attraverso una porta in pietra scolpita, l’antico ingresso del sito. Subito dietro, mi lascio attrarre dal cocco fresco offertomi da una signora per pochi centesimi. Ne scelgo uno enorme, che spacca col machete. Bevo il succo con una cannuccia e quando finisco lo riprende, toglie la corteccia con abili colpi e mi consegna la montagna di pezzi. A pochi metri ammiriamo le tombe antichissime, si suppone di re locali. Sono interessanti, ma le tombe monumentali etrusche del nord del Lazio sono molto più belle. Abbandoniamo del tutto l’idea della Grotta dell’Elefante, preferiamo continuare a girare con lo scooter nei dintorni. Ci dirigiamo verso Tagallagang. A quanto leggiamo sulla guida e su alcuni racconti trovati su Internet prima della partenza, è la zona con i paesaggi più belli sulle risaie.
Nei villaggi attorno a Ubud quasi tutti lavorano il legno. É buffo vedere che le varie produzioni sono suddivise in piccole zone, ciascuna specializzata in un oggetto particolare. Un momento attraversiamo tre villaggi dove tutti intagliano il Sole e la Luna, subito dopo attraversiamo cinque villaggi dove fuori da tutte le casupole e negozietti vediamo solo e soltanto sculture di gatti stilizzati, poi altri tre villaggi dove la fanno da padrone Pinocchi di tutte le dimensioni e così via.
L’“etnico” globalizzato, l’ennesima banalizzazione commerciale di un sogno occidentale. Tornando verso Ubud passiamo a fianco ad un grande negozio che espone anche dei mobili. Mi prende quasi un colpo quando vedo lo “scalino”, un mobile comprato all’inizio dell’anno vicino Roma e al quale sto lavorando da settimane! É di quelli col profilo a scala, con mille cassetti. Il colore originale era molto scuro, poco adatto alla nostra nuova casa e sto lavorando per smaltarlo di bianco lucido. Troviamo il proprietario, perchè devo assolutamente chiedergli: “Quanto costa??”, temendo già la risposta. “Un milione”, mi risponde il tipo. Già così è meno della metà di quello che l'ho pagato a Roma, ma sicuramente se iniziassi una contrattazione seria il prezzo scenderebbe ancora molto. Ovviamente questo è perfetto, senza le tante spaccature, avvallamenti e piccoli buchi di quello che ho comprato in Italia, richiedendo un lungo lavoro preventivo di stuccaggio e preparazione. Entriamo nel negozio, enorme e pieno di sculture incredibili (ma dal gusto improbabile) ricavate da tronchi e radici. Riprendiamo la strada verso Ubud. Sulla cartina scorgo una strada minuscola che arriva alle spalle di Ubud, tagliando la trafficata strada principale. Chiedo ad un ragazzo che ci conferma la direzione:
“Sì, è una “green road”, ma potete farla con questo”, e indica lo scooter. Da esperienze passate ho sempre un brivido quando ricevo risposte del genere, ma decido di fidarmi. Imbocchiamo la stradina che in breve si trasforma in uno sterrato pietroso, piuttosto sconnesso. Chiediamo all’unica persona che si trova a passare di lì: “Tre km e siete a Ubud!”, ci dice in tono rassicurante. “Ma non erano due?”, mi chiedo mentalmente mentre riprendo lo slalom tra le buche più dure e ridendo al pensiero che, anche senza moto, trovo sempre il modo di infilarmi nei luoghi più improbabili.
Stupendo, ma dobbiamo uscire dalla mulattiera prima che calino le tenebre. Riprendiamo i salti finchè non arriviamo ad una sbarra di metallo a chiudere il sentiero. Dietro, si stende la famosa “green road”, nel senso che è un prato inviolato, nemmeno la traccia di un passaggio, nessun segno a indicare la direzione. A destra si finisce dopo pochi metri, senza uscita, in un gruppo di case, un insediamento probabilmente delle persone che curano le risaie che ci circondano. Salutiamo i ragazzi increduli che ci guardano ridendo, due europei finiti incastrati nel Nulla a bordo di uno scooter - quasi - scintillante. Torniamo indietro, con calma stavolta, tanto sappiamo cosa ci aspetta e non vogliamo perdere gli ultimi sprazzi di colore sulle risaie. Proprio mentre stiamo per rimettere le ruote sull’asfalto, vedo per terra un cucciolo di cane. Ha pochi giorni, è minuscolo e stupendo, dolcissimo. A Bali abbiamo già visto esserci un grave problema di cani. Sono ovunque, tantissimi. Girano in branchi nelle campagne, nei paesini, dappertutto. Non sembrano mai aggressivi, ma chi può dirlo? Lo tolgo dal sentiero, dove potrebbe essere ucciso da qualche auto o motorino e torniamo ad Ubud, immergendoci nuovamente nel caos. Andiamo a ritirare i biglietti aerei, ormai pronti, all’agenzia viaggi. Bene: abbiamo l’aereo di ritorno assicurato, un pensiero in meno! Ceniamo al Dirty Duck, un ristorante rinomato di Ubud. É circondato da risaie: “Una volta qui, c’erano SOLO risaie!”, ci spiega con un sorriso il cameriere. Lo incastriamo con mille domande, ci spiega che il 21 agosto è un giorno speciale e per questo avverranno numerose cremazioni nei villaggi qui intorno. “Per tradizione, ogni villaggio ne celebra una ogni 5 anni”, ci racconta, “i costi sono molto alti e anche dividendoli tra le varie famiglie colpite dai lutti, non si riesce a farle più di frequente. L’unica eccezione è per i brahmani, che devono essere cremati al massimo 7 giorni dopo la morte. Durante queste cremazioni “straordinarie”, allora, possono unirsi anche altre persone. Ma di regola, ogni cinque anni!”, conclude ridendo. Dobbiamo assolutamente trovarne una. Gli chiediamo il nome del villaggio dove dovrebbe tenersi, a suo avviso, la cerimonia più ricca e spettacolare. Ce ne indica un paio. Torniamo a chiedergli altri dettagli sul rito della cremazione. “Quando le persone muoiono”, racconta, “vengono sepolte nei cimiteri e rimangono là fino al momento della cremazione che può avvenire anche molti anni dopo. In quel momento si riesumano le ossa e si bruciano quelle, oppure se sono molto rovinate o per altri motivi, si brucia una rappresentazione del morto. Viene bruciato anche una specie di “passaporto” del morto, con le sue generalità”. La burocrazia ti insegue anche nell’Aldilà, insomma! Finiamo la cena, ottima e torniamo in albergo. Mini passeggiata, poi andiamo a dormire. Sono le 23:30. 20/08/2009 - “La magia svanita di Tanah Lot”
Salutiamo Kioko e riprendiamo lo scooter. Oggi abbiamo deciso di andare al tempio di Tanah Lot, a sud, sul mare. Appena possiamo e quando ci va deviamo dalla strada principale per ammirare scorci, case e tempi privati, giardini, vita quotidiana che si svolge appena dietro la trafficata arteria che porta alla capitale di Bali. Lungo una di queste stradine secondarie, passiamo davanti ad un gruppo di uomini accucciati alla maniera orientale. Osservano dei galli che combattono. Pochi assalti reciproci e li riprendono subito. Poi li liberano di nuovo, altri assalti e poi di nuovo catturati. Li stanno allenando ai combattimenti. Nel frattempo vediamo ovunque, quasi davanti ad ogni casa, una o più gabbie di vimini con dentro un gallo imprigionato. Ho letto sulla guida che è uno dei tanti (mal)trattamenti a cui sottopongono i galli da combattimento, per abituarli al rumore del traffico, delle voci umane e agli altri rumori che poi troveranno moltiplicati per mille il giorno del combattimento, quando saranno attorniati da decine e decine di persone urlanti e agitate.
Acconcio la splendida chioma di Caterina con i bellissimi fiori che ci circondano e ripartiamo alla volta di Tanah Lot. Non abbiamo fatto molta strada finora! Ci districhiamo tra mille deviazioni, più o meno segnalate, finchè non ci blocchiamo del tutto in un ingorgo colossale. Svicoliamo grazie allo scooter, ma ce ne sono talmente tanti che ad un certo punto dobbiamo bloccarci anche noi. Vediamo bambini e bambine festanti, in divisa. Escono da scuola. Lentamente ripartiamo. La strada principale che unisce il nord al sud di Bali si è bloccata per almeno un quarto d’ora per l’uscita dalla scuola. Effettivamente c’è un problema concreto di infrastrutture!
Passiamo a fianco di alcune risaie, ma il paesaggio in generale è più “costretto”, più inurbato, molto meno ampio rispetto al nord dell’isola. Tra l’altro, più ci avviciniamo a Denpasar, più il traffico diventa intenso, caotico, “javanese” direi.
Invertiamo la rotta e prendiamo la deviazione per Tanah Lot. Continuiamo a svoltare in mille strade, l’arrivo è complicato. Finalmente ce la facciamo e troviamo il solito delirio di bancarelle e venditori ambulanti. Mi rendo conto solo dopo aver parcheggiato che la mia abitudine a prendere le scorciatoie - in questo caso, contromano - mi ha fatto evitare l’ingresso ufficiale all’area del tempio. Avremmo dovuto passare da una specie di casello autostradale, pagando il parcheggio. Per un motorino direi proprio che non è il caso! Il viottolo che conduce al tempio è letteralmente tappezzato di decine e decine di bancarelle che vendono di tutto, dai palloni alle magliette dei calciatori, a falli in legno di tutte le dimensioni - di cui mi chiedo sinceramente quale sia l’origine, se sia davvero balinese e indonesiana perchè è la prima volta che li vediamo da quando siamo arrivati - tatuatori, venditori di bibite, panini, pannocchie e mille altri cibi, i souvenir più incredibili, abiti da donna e da uomo, poster, quadri, statuine: di tutto, di più. Falsi cartelli indicanti il tempio deviano le persone su altri itinerari tra mille bancarelle e pseudo-gallerie d’arte con molti dipinti improbabili. Sulle prime non si riesce nemmeno a capire in che direzione sia il mare, poi ci si affida al flusso di persone confidando nella “intelligenza della massa” che si dirige presumibilmente verso il luogo esatto.
Il tempio in sè sarebbe stupendo, incredibile così abbarbicato su uno scoglio proiettato sul mare, separato dalla terraferma durante l’alta marea, in magica posizione lungo la costa, di fronte all’oceano. Ma tutta questa gente annacqua l’atmosfera del luogo fino a renderla completamente insapore, assente. Mi rendo conto che è sempre più difficile trovare luoghi che conservino la magia e la spiritualità “originali”, ma qui è davvero esagerato, ci sono TROPPE persone e, di conseguenza, TROPPA gente del luogo che cerca di venderti di tutto, anche le penne e le matite inseguendoti fin sotto la rupe del tempio. Esattamente sotto la rupe c’è una fonte sedicente “sacra”. Visto come hanno ridotto il posto, non riesco a capire se è l’ennesima trovata acchiappa-turisti oppure se davvero è tradizionalmente considerata sacra. Decine di persone sono in coda, senza farsi tante domande, per bagnarsi nella fonte sacra, ricevere i chicchi di riso sulla fronte e fare una piccola offerta, non si sa bene a chi. Ci allontaniamo il più possibile dalla folla e iniziamo a camminare sugli scogli lasciati scoperti dall’acqua e ricoperti di alghe. Le alghe all’asciutto sono molto tristi, lunghe e completamente schiacciate su sè stesse, senza possibilità di compiere un singolo movimento nemmeno sotto le raffiche di vento più violente. Tra le mille pozzanghere effimere trovo una pallina da tennis. Sicuramente è arrivata dalla tenuta falsa e artificiale costruita da “Le Meridien” sul promontorio che chiude la baia del tempio. Un paradiso fasullo costruito in riva al mare. Lo trovo profondamente ingiusto e torno alla mia idea iniziale, di assistere ad una forma di neo-colonialismo. Bali è invasa da inglesi, giapponesi, tedeschi, olandesi, svizzeri, italiani e mille altre nazionalità “ricche” che si sono accaparrate le posizioni migliori, i terreni con vista sulle risaie, sui palmeti, sul mare, che costruiscono e comprano con la grande quantità di soldi di cui dispongono e spesso i balinesi finiscono a lavorare per loro, schiavi a casa loro. Nell’800 e ’900 gli europei andavano in giro per il mondo a depredare le risorse, armi in pugno. Ora le armi sono più subdole, sono travestite da banconote, ma le conseguenze sono a grandi linee le stesse. Il meglio ai ricchi bianchi, le briciole ai locali. Diverso, sicuramente meno cruento, ma ugualmente invasivo e invadente. Allo stesso modo gli imponiamo, più o meno indirettamente, lo stile economico - il consumismo - che al di fuori dei paesi cosiddetti avanzati crea anche enormi problemi ambientali, in termini di inquinamento e di smaltimento dei rifiuti - che infatti già si vedono ovunque.
Il tramonto ci cattura con la consueta magia malinconica in quanto sottolinea l’ennesima conclusione di una giornata. La gente sciama al pari di migliaia e migliaia di pipistrelli che si alzano in volo dalle grotte presenti all’altra estremità della baia. Oscurano il cielo, tanto sono numerosi. Per fortuna volano alti e non ci vengono addosso. Compro un aquilone a forma di galeone da un venditore ambulante. Un altro pezzo ingombrante da portarci dietro per tutto il resto della vacanza. Il ritorno al buio è ancora più complicato, la strada è lunga e ritrovare le mille deviazioni fatte non è immediato. In un punto imprecisato troviamo di nuovo il traffico bloccato. Stavolta è colpa di un albero, schiantatosi in mezzo alla strada, ostruendola completamente. Per fortuna al momento del crollo non passava nessuno. Proseguiamo fino a quando non sentiamo la tipica melodia del gamelan arrivare dal lato della strada, in un punto illuminato a giorno. Una festa? Torniamo indietro e prendiamo il viottolo che arriva al posto. Stanno celebrando l’Odalan, l’inaugurazione di un tempio! Il gamelan è suggestivo, coinvolgente. Le donne e gli uomini sono elegantissimi, vestiti a festa e le donne portano pile di offerte in grandi vassoi in equilibrio sulla testa o in mano. L’intera comunità è in festa, splendido! Mi sento di nuovo guidato dal Fato, come il primo giorno con la battaglia dei galli o forse è il libro di Gherpelli che mi influenza, visto che parla spesso di una Intelligenza Superiore, consapevole e imprescrutabile che guida le persone sensibili a scoprire i segreti dell’isola. Siamo gli unici turisti e veniamo saluti con sorrisi da molte persone. Iniziamo a chiacchierare con un uomo che fa l’autista per gli alberghi, a Denpasar. Ad una mia domanda, ci spiega che i copricapi hanno diversi colori a seconda delle occasioni: bianco quando ci si reca al tempio per pregare; batik per le cerimonie particolari come la limatura degli incisivi - che qui segna l’ingresso nell’età adulta - matrimoni e così via; nero per i funerali. Ci lasciamo catturare dallo spettacolo e dalla gioia e sacralità della festa, poi torniamo al motorino. Grazie al nostro nuovo amico scopro che abbiamo superato il bivio che dovevamo prendere di ben 7 km! Dal bivio inizia finalmente una strada più diretta, senza tante deviazioni fino ad Ubud. L’oscurità popola di bancarelle anche gli incroci più grandi, dove vengono allestite vere e proprie tavole calde all’aperto, ognuna con la sua specialità, mille cibi diversi. Spezziamo il digiuno con una pannocchia arrostita, non eccezionale - era più buona quella mangiata al Tanah Lot. Ubud, finalmente! Ceniamo in un ristorante molto buono, il Waroeng Enak. All’ingresso del locale trovo una rivista, “Now Bali!”. É scritta da stranieri, per stranieri con modella occidentale in copertina e contiene pubblicità e articoli su posti super-chic e lussuosi - quindi, per stranieri - di Bali. Torniamo in albergo. Caterina si accorge di aver perso, chissà dove, la guida che ci aveva prestato la nostra amica Aruna. Per fortuna ci rimane quella che chiamo la “guidina”, in quanto minuscola, ma fatta piuttosto bene e che avevo preso per sfizio prima di partire [ne parlo nelle Letture Consigliate]. 21/08/2009 - “La piscina nella giungla”
Qui i galli non ci sono, per fortuna. Sto quasi rinunciando a trovare questo maledetto albergo per godermi al 100% la gita, quando compare dal nulla (ormai siamo piuttosto lontani da Ubud), un cartello che indica il Sunset Hill. Ovviamente su una stradina sterrata. Si trova alla fine del sentiero, immerso nella vegetazione. Il posto è incantevole, la piscina affaccia sulla vallata. Nuotandoci dentro, sembra che ci si stia per tuffare direttamente nella giungla. La struttura è splendida, una villa bianca dalla linea movimentata, moderna, originalissima, con ampie vetrate. Le stanze sono grandi e lussuose, il letto è praticamente un trono. Ci riposiamo e mi concedo un bagno in piscina. Torniamo a Ubud, paghiamo altri due giorni di scooter. Andiamo al museo di arte moderna ARMA. Incluso nel biglietto c’è un tè o un infuso, da prendere all’uscita, al bar del museo. Entriamo in quella che forse era una villa lussuosa immensa, con un giardino rigoglioso e curatissimo. Le strutture che ospitano il museo contengono sia opere che rileggono in chiave moderna gli stilemi classici dell’arte balinese, sia opere contemporanee più simili a quelle occidentali: colori e forme astratte, dal messaggio meno evidente ma comunque di impatto. Prendiamo un infuso di zenzero, ma la fame è tanta ed appena usciamo ci fiondiamo su un waroeng. Di quelli “veri”, però, una vetrinetta lungo la strada che serve cibi pronti rigorosamente fritti e malsani, non come l’altra sera, quando siamo finiti in un sedicente “waroeng” che in realtà era un ristorante fighetto e di un certo livello. Con lo scooter prendiamo una strada diversa, tanto per vedere cosa c’è, ma dobbiamo tornare verso l’albergo di Kioko per un massaggio che Caterina ha prenotato stamattina. Mentre torniamo siamo attirati da alcune sculture in legno. Ci fermiamo e chiediamo informazioni su un paio di cornici intagliate con specchio. L’anziano che ci spiega le caratteristiche delle sue opere e le difficoltà a crearle, non parla una parola di inglese, ma riusciamo a capirci ugualmente bene. Alla fine prendiamo entrambi i pezzi per 90mila rupie, circa 7 euro. Il centro di bellezza dove facciamo il massaggio è immerso in un giardino tropicale, pieno di piante ed erbe da cui la proprietaria estrae tutte le essenze con cui crea i saponi, gli shampoo, le creme e tutto quello che adopera con i clienti. Il massaggio balinese è molto potente, vigoroso, la pressione delle dita è notevole ed in generale piacevole, a parte quando si concentra sui piedi e in particolare sulla parte del sinistro che ha subito molte fratture in un incidente in moto di 17 anni fa.
Lo spettacolo si chiude con la “fire dance”, la danza del fuoco. Paradossalmente e come punizione (è evidente che stavolta NON É un caso!) per aver contaminato la kechak dance, non appena irrompe sulla scena il danzatore che avrebbe dovuto saltare nel fuoco, con perfetto sincronismo inizia a piovere a dirotto. Mi alzo e mi metto subito la sedia di plastica rovesciata sulla testa, a mò di ombrello. In pochi minuti tutti mi imitano. Decine di persone, sedia in testa sotto l’acqua scrosciante, a guardare il tipo che salta come una cavalletta dentro al mucchio di gusci di noce di cocco ridotti a brace per la pioggia torrenziale. Il diluvio prosegue anche fuori dal tempio, quando ormai tutti stanno tornando a casa. Sotto la tettoia di una baracchetta che vende alimentari incontriamo uno dei danzatori. Non è soddisfatto della performance, troppo poco potente: “C’erano troppi giovani, sono inesperti e non sanno trasmettere energia!”, si lamenta quasi scusandosi con noi. Siccome continua a piovere, andiamo a mangiare in un waroeng molto elegante. Prendo il babi guling, che sogno sin dal primo giorno che siamo atterrati in Indonesia. Caterina invece sashimi di tonno con calamari ripieni. In realtà i calamari sono essiccati e puzzano intensamente di pesce marcio. Non mangia nulla. Non dice nemmeno nulla, a parte un commento lungo e circostanziato nel foglietto dei commenti che la cameriera ci porta prima del conto. Restituiamo i foglietti, con i miei complimenti per l’eccellente babi guling e le rimostranze di Caterina per i pessimi calamari, alla cameriera. Dopo qualche minuto arriva, gentilissima, a chiedere spiegazioni, credo l’unica ragazza del locale che parla correntemente l’inglese. “Devo avvisarvi che agli europei non piace assolutamente il pesce essiccato in questo modo!”, esordisce Caterina, “lo troviamo troppo intenso, quasi puzzolente!” La signora annota tutto mentalmente, ci ringrazia infinitamente, mille volte: “Lo riferirò al cuoco immediatamente, grazie!” Il conto tarda ad arrivare e nel frattempo chiacchieriamo con uno dei camerieri, un ragazzo giovanissimo che ama l’Italia e che l’anno prossimo andrà a lavorare per Costa Crociere a Genova. Gli diciamo, di cuore, di restare in questo paradiso e di non venire in Italia! Quando portano il conto abbiamo una sorpresa, molto piacevole: hanno abbonato la cena di Caterina, come rimborso del piatto che non le è piaciuto e come ringraziamento per i molti consigli che ha elargito circa i gusti europei. Davvero molto professionali! Moriamo di freddo fino al nuovo albergo. L’aria è intrisa d’umidità per la pioggia recente, siamo vestiti leggerissimi e guidiamo per alcuni chilometri in mezzo alla giungla. Andiamo a dormire che sono le 23:30. |
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