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Giornate: 05/08/2010 - “Le sarte palestinesi”
Doccia, colazione con gli altri in cortile, al fresco. Davvero da studiare questa differenza tra la temperatura esterna e quella interna all’albergo. Da studiare, nel senso che chi ha costruito l’albergo dovrebbe tornare a studiare l’ABC degli edifici. Stefano parte, mentre noi ci fermiamo con Federico e Melania per visitare il sito archeologico. Entriamo nei pressi dell’arco monumentale e splendido nelle sue decorazioni raffinate. La pietra color miele crea un contrasto splendido con l’azzurro del cielo. Vengo immancabilmente colpito dal confronto impietoso esistente tra l’amore del bello e della grandiosità che esisteva in passato e la mediocrità odierna, dove (tranne rarissime eccezioni) tutto viene sacrificato sull’altare della cosiddetta razionalità e del risparmio. Anche il resto del sito è monumentale e spettacolare: templi, vie colonnate, una perfetta piazza racchiusa da alte colonne, un teatro, mosaici e altro ancora. Lungo il decumano ci fermiamo a chiacchierare con due tipi che si propongono come guide. Rifiutiamo, ma continuamo a parlare. Nel mentre, sbuca un grosso rettile simile a un’iguana. Purtroppo non si fa avvicinare. Ci arrampichiamo verso un altro tempio. Scrocchiamo la spiegazione inglese che una guida ufficiale declama ad un gruppo di turisti. Scopriamo così che, tra le tecniche per rendere robuste le colonne, c’è la costruzione in pezzi separati. In pratica c’è la base, la colonna e il capitello, tutti indipendenti. Per dimostrarlo, mette un cucchiaino nella fessura tra la colonna e la base. Si muove! Infilo il mignolo e sento che la colonna lo schiaccia leggermente, dondolando impercettibilmente al vento. Incredibile! Ci avvicina un ragazzino, ci fa cenno di seguirlo. Ci indica una porta che si apre sotto la base del tempio. Entriamo. Il contrasto tra la luce esterna e la penombra interna non ci fa vedere nulla per diversi secondi, ma il rumore che sentiamo è riconoscibilissimo! “Pipistrelli!” Arriviamo fino all’ultima stanza e sul soffitto intravediamo decine di pipistrelli penzolanti. Mi tornano in mente le grotte in riva al mare lo scorso anno a Bali, da cui uscirono, al tramonto, migliaia e migliaia di pipistrelli, oscurando il cielo. Torniamo fuori e proseguiamo il giro per concludere la visita. Ci arrampichiamo fino al teatro, bello, ma non paragonabile a quello di Bosra, unico e intatto. Uscendo ci facciamo le matte risate per un cartello che pubblicizza le “oriental mazza”. Intende gli antipasti orientali, ma scritto in questa maniera lascia tutto lo spazio alle doppie interpretazioni! Riusciamo a muoverci per le 14, fa molto caldo, ma meno che in Siria. Destinazione: Petra! Per non restare ancora invischiati nella città, decidiamo di uscire a stomaco vuoto e fermarci a mangiare lungo la strada. Questa si snoda su alte colline, finalmente qualche curva e ampi panorami. Nonostante le temperature, molti campi sono coltivati. Un forte vento caldo ci soffia addosso, disidratandoci. Ci fermiamo in un ristorante con una vetrata a nido d’aquila sulla vallata. Poco più sotto una piscina ci invita per un bagno, ma davvero non arriveremmo più. Ottimi antipasti e pollo alla brace, ma verso la fine Federico ha un malore, si rifugia in bagno. Vai di integratori di sali minerali, dopo una mezz’ora, per fortuna, si riprende. Ripartiamo. Andando verso Amman il traffico aumenta. Purtroppo mi lascio guidare dal GPS di Federico e, invece di prendere la deviazione che avrei preso qualche km prima di Amman (non indicata dallo strumento diabolico), siamo finiti per entrare dritti in città. Ci siamo insospettiti parecchio quando, ormai in vista della città, il GPS indicava di girare in una stradina sulla sinistra che andava a infilarsi in una zona industriale ... Ancora nel 2010, continuo convinto a non usare questi attrezzi spegni-cervello. Forse hanno un senso in mezzo al deserto o nella steppa mongola, ma nel resto dei casi li trovo o inutili o spoetizzanti o dannosi. La città, come molte città mediorientali viste fino a oggi, ha una brutta e caotica periferia. Per arrivare in centro percorriamo una strada che, più che scendere, cade in picchiata. Mi chiedo cosa accade quando piove, visto che l’asfalto è lucido e scivoloso. Anche il centro non sembra particolarmente affascinante. Passiamo accanto ad un teatro romano che sembra ancora oggetto di scavi. Finalmente recuperiamo la via d’uscita, ma di indicazioni per Madaba o dintorni, nemmeno l’ombra. Dopo un paio di domande lungo la strada, troviamo finalmente la direzione giusta, che per un po’ segue l’aeroporto poi arriva l’agognato cartello. La strada è bella, mi sembra ancora un miracolo correre in mezzo a due filari di alberi. Poi il paesaggio si apre ed abbiamo visuale fino all’orizzonte. In Giordania vediamo molti accampamenti ai lati delle strade. In Siria non mi era capitato o quanto meno non erano così evidenti e numerosi. Ci chiediamo se si tratta di profughi palestinesi e poco dopo ne abbiamo conferma. Superato l’ennesimo paesino, ci fermiamo per fare il pieno di liquidi in un chiosco lungo la strada, fa caldissimo. É la classica baracchetta aperta di due metri per due, con le pareti tappezzate di frigoriferi Coca Cola, un piccolo banco frigo dietro al quale si muove un ragazzo, alle cui spalle si ergono due alte scaffalature fino al soffitto. Entro, sorrido al tipo e con un gesto chiedo se posso servirmi. Ricevo in risposta un altro sorriso ed un gesto a dire: “Prego, fai pure!” Mi avvento su una lattina di succo di frutta. Sono ingenuamente convinto che gli zuccheri e le vitamine della frutta mi aiutino più di qualsiasi altra cosa. Ingenuamente, perchè non so quanta frutta abbia visto, questa bevanda. La prima razione va via in un lampo, non me ne accorgo nemmeno. Vai con la seconda. Prendo fiato, mi stacco dal collo della bottiglia, ricomincio a ragionare. Riprendo a bere con furore. Ho già avuto modo di verificarlo nei giorni scorsi, che è dalla terza lattina in poi, che inizio a godermi quello che sto bevendo. Le prime due servono solo a reidratare velocemente le mie cellule ed i tessuti avvizziti dal calore intenso dell’estate mediorientale. Come al solito sono a corto di moneta locale. “Uff, ho quasi finito i soldi ...”, dico a Federico tra un sorso e l’altro. Federico mi guarda e gli si illuminano gli occhi, ha avuto un’idea. “Ci penso io!”, mi fa e va verso un camionista che è il doppio di noi, appena sceso dalla sua belva che, tra l’altro, è molto buffa, con due occhi dipinti sul cofano, donando un profilo umano a tutta la parte anteriore. “Please, change? Euro? Change?” Il tipo afferra al volo e sembra intravedere l’affare. La contrattazione prosegue tra gesti e inglese stentato. Sono disposto a cambiare 20 euro, non mi va di rischiare di più. Alla fine spunto un cambio eccellente, 1 € a 0,90 dinari. In banca mi avrebbero dato, nel migliore dei casi, 0,88, ma di solito si trova a 0,85 o 0,80. Quando vede la situazione prendere questa piega, Federico si esalta. “Change, again again!” Stavolta vuole cambiare per lui. Il tipo, vedendo tanto entusiasmo, inizia ad insospettirsi. Forse ha fatto un errore, vedo il dubbio insinuarsi nel suo sguardo. Quando Federico tira fuori 50 euro, volendo in cambio una somma che, con buona probabilità, è una discreta fortuna per il camionista, questo si tira indietro. “No, no! No change!” “Ma come No change! Change, change! Euro good! One hundred euro! Change!” Ormai il camionista ha cambiato idea. Nel frattempo escono una miriade di bambini da un cancello. Ci accorgiamo così che il camionista è il padre e che alle spalle della baracca c’è una bassa abitazione. Il cancello è aperto. Durante la contrattazione abbiamo perso di vista Caterina e Melania. Sono entrate nel cancello, sono circondate da bambini che le saltano intorno strillando, felici. Entriamo anche noi, al seguito del tipo. Federico continua la sua contrattazione, ma ormai l’altro è irremovibile. Il cambio è improvvisamente sceso a 0,80. Prendere o lasciare. Purtroppo anche Federico è a corto di denaro e cambia, nonostante il tasso svantaggioso. Quando il tipo tira fuori dalla tasca un fascio di banconote modello benzinaio italiano, mi ricredo immediatamente sulle sue possibilità finanziarie. Veniamo letteralmente trascinati all’interno dell’abitazione. In pratica alle spalle del bar sulla strada, si appoggia una bassa costruzione fatta di una grande stanza, un patio esterno coperto ed un grande spazio dove razzolano galline, pecore ed altri animali. Ci togliamo le scarpe ed entriamo nell’ambiente principale. Le pareti sono coperte da appendiabiti e negli angoli vediamo due macchine da cucire. É una famiglia di profughi palestinesi. Vivono in Giordania da oltre 20 anni. Le donne lavorano come sarte e mostrano con immenso orgoglio a Caterina e Melania i loro lavori. Sono belli, anche per i nostri gusti occidentali, così diversi e generalmente discreti. Lui ci spiega a gesti che ha 3 mogli e 5 figli! Ci invitano a fermarsi da loro. Sarebbe bellissimo, ma ... come al solito abbiamo poco tempo ed obiettivi troppo ambiziosi. Siamo a meno di metà strada, ma la giornata è oltre la metà! Scatta il momento delle foto. Le donne confabulano tra loro e, ridendo come matte, mi dicono che somiglio ad un attore siriano! Faccio un giro di fotografie con loro, poi tutti insieme, in diverse combinazioni. Purtroppo arriva il momento dell’addio. Lo odio sempre, è tremendo viaggiare costantemente assillati dal problema del tempo, come se fossimo ancora al lavoro, da perfetti europei efficienti e programmati. Purtroppo il vero problema è potersi prendere così pochi giorni per viaggiare. Ci rimettiamo in sella attorniati da mamme e bambini, salutiamo fin quando non li perdiamo di vista, all’orizzonte. La Strada dei Re è spettacolare e l’entusiamo è accresciuto ulteriormente dal paragone spontaneo che facciamo con i piatti, scialbi e monotoni paesaggi siriani. Verso la fine del pomeriggio, ma fortunatamente ancora in piena luce, affrontiamo le gole del Mujib. Sembra di scendere dal tetto del mondo, in uno scenario biblico, all’interno di una immane spaccatura della terra che si stringe sempre più verso il basso. Ci fermiamo ad ammirare il paesaggio e vediamo la strada scendere a precipizio tra mille curve fino ad una diga che chiude la parte più bassa e stretta della valle per poi risalire, tortuosa, dall’altro lato della gola. Nella piazzola dove ci siamo fermati c’è anche il classico venditore di souvenir. Attacchiamo bottone su dove veniamo, dove stiamo andando. Poi guarda le moto ed esclama: “Io guido il cammello, l’asino, il cavallo, la moto e la macchina!” Chapeau, mon ami! Iniziamo la discesa. Quando va bene, l’asfalto è scivoloso. Quando va male, è coperto di brecciolino, ovviamente in curva. La gola entra nelle nostre vene, metro a metro. Cavalchiamo sopra la diga e riprendiamo a salire tra mille, nuovi tornanti. Arrivati in cima, attraversiamo un paesino desolato e reso ancor più polveroso da lavori stradali. Se la strada fosse stata in buone condizioni, ci mancherebbero ancora tante ore per arrivare a Petra. Ma se iniziano i lavori, l’ora di arrivo diventa impredicibile. Mentre scanso le buche più dure, come direbbe Battisti e cerco di mantenere la moto dritta sui lunghi sterrati, mentalmente vedo Petra allontanarsi sempre più. Da Al Karak in poi il buio diventa profondo. Peccato, perchè avevo segnato altri punti spettacolari della Strada dei Re. Eccomi di nuovo, per l’ennesima volta, a viaggiare col buio. L’unico aspetto davvero positivo è che la temperatura diventa umana. Dopo un paio d’ore, fa quasi freschino e le ragazze chiedono di fermarci per indossare le giacche. Sosta notturna ad un fruttivendolo lungo la strada, facciamo il pieno di snack da mangiare in movimento: casco aperto e patatina addentata al volo! Lunghi rettilei notturni, striscia sinuosa d’asfalto illuminata dalla luna, fino all’orizzonte. Purtroppo Federico e Melania fanno molte soste, molto lunghe, i tempi si dilatano incredibilmente. La fatica è aumentata anche dagli onnipresenti dossi. Ho l’impressione di scavalcare un dosso ogni km, la Giordania è infestata di dossi di rallentamento! Non solo all’ingresso e all’uscita dei paesi, ma anche lungo la strada, senza criteri apparenti. O almeno invisibili di notte, magari ci sono scuole o abitazioni perse nell’oscurità. Finalmente il miraggio, Petra! Scendiamo verso la zona archeologica, dove sappiamo esserci molti alberghi. Lungo la strada vediamo le insegne, molti nomi li abbiamo letti tra varie guide, articoli e forum su Internet. Proseguiamo incuranti, siamo a pezzi e vogliamo arrivare il più vicino possibile alla città antica! Curva dopo curva, gli ultimi infiniti km ed arriviamo al Crown Plaza. Federico e Caterina, i migliori contrattatori italiani - ne sono sicuro - spariscono all’interno, inghiottiti dall’enorme ed elegante edificio. Io e Melania, esausti, aspettiamo fuori, al fresco. I minuti passano, ma di loro, nessuna traccia. L’attesa continua, senza segnali. Dopo un tempo che mi sembra infinito, finalmente escono. Ridono. Ci raccontano brevemente di una contrattazione estenuante. Alla fine, sono riusciti a passare da 90 a 65 dinari a notte, per la doppia, senza colazione. In pratica dormiamo nel miglior albergo di Petra, a pochi metri dagli scavi, a circa 75 euro a notte! Sentiamo di meritarlo e soprattutto dopo una giornata così, non mi pongo nemmeno il dubbio se cercare altro oppure no. La notizia che l’albergo ha la piscina fuga gli ultimi dubbi. Ho già slegato le borse e vado verso l’ingresso. Documenti, chiavi elettroniche, ultima beffa delle schede scambiate la nostra stanza e quella di Federico. Mi infilo di corsa sotto al lenzuolo. É l’1 di notte e la sveglia è puntata alle 6, dicono che le rovine di Petra, all’alba, siano magnifiche. 06/08/2010 - “La magia di Petra”
La colazione non è inclusa nella tariffa speciale contrattata da Caterina e Federico, in più non abbiamo appuntamento con loro, che si sono svegliati ancora prima di noi. Quindi, prendiamo il necessario per la giornata e usciamo nel silenzio. L’aria è fresca, piacevole. Da quando siamo saliti sulla Strada dei Re, la temperatura è diventata più sopportabile, un altro mondo rispetto all’infuocata Siria. Siamo a due passi dall’ingresso della zona archeologica, fantastico! Prendiamo un biglietto valido per due giorni. Purtroppo “Petra notturna” la faranno dopo che ce ne saremo andati, anche se non so avremmo preso il biglietto, abbiamo letto da più parti che non ne vale tanto la pena. Nei pressi dell’ingresso iniziamo a vedere un discreto movimento di persone, ma siamo ancora in pochi. Ad uno dei chioschi che si accalcano prima dell’ingresso al sito vero e proprio compro dei biscotti, altri viveri per la giornata e soprattutto ACQUA! Entriamo attraverso un piccolo cancello in legno. Iniziamo una discesa larga, in terra battuta. Alla nostra sinistra, molto più in basso, ci sono delle tettoie sotto le quali riposano cavalli e asini. Le guide del posto stanno a loro volta iniziando la giornata, è un viavai continuo di persone che li slegano, li portano all’aperto, gli dà da mangiare. Non appena ci affacciamo verso la spianata, veniamo apostrofati da due o tre di loro con la stessa richiesta: “Volete un cavallo?” Noi, senza sapere nulla del posto, quanto è lunga la discesa, fin dove ci porteranno, se ci aspetteranno oppure no, chiediamo soltanto: “Quanto costa?” “Tre dollari” “Ok!”
Cavalchiamo in un ampio spazio, le colline che ci fiancheggiano sono ancora lontane. Poi rapidamente si stringono chiudendosi in un pugno di pietra, Petra... Un altro cancello presso il quale il ragazzo ci invita a scendere, tra le nostre proteste: “Ma come, solo fino a qui? E adesso??” “Adesso a piedi, oppure su un calesse!” Non abbiamo la minima intenzione di salire su uno dei calessini che stazionano nello slargo, così attraversiamo il piccolo cancello in legno e ci inoltriamo nella gola, stretta e alta. Inizia la magia di Petra, stiamo discendendo il siq. Non posso far altro che pensare alla storia della scoperta di Petra, ordita da un archeologo svizzero con l’ennesimo tradimento occidentale. Johann Ludwig Burckhardt si travestì da arabo, facendosi chiamare Cheikh Ibrahim e si finse in pellegrinaggio verso la tomba di Aronne, fratello di Mosè. Scelse Aronne, perchè le mappe e la storiografia indicavano la sua tomba nei pressi della mitologica Petra, misteriosa e (ancora per poco) segreta. Le rovine erano tenute nascoste dai beduini proprio perchè temevano gli stranieri, quello che avrebbero potuto fare. E infatti, puntualmente, si verificò l’inganno. Burckhardt riuscì a convincere la sua guida a farsi accompagnare, iniziarono a discendere il siq che, fino a quel momento, nascose così bene, nei secoli, le spettacolari rovine di Petra, sancendo in quel momento la fine del segreto. L’archeologo vide le rovine, esultò silenziosamente per non farsi scoprire, pregò velocemente e poi, una volta rientrato in patria, annunciò al mondo il suo ritrovamento. Senza dubbio era solo questione di tempo, l’età moderna non consente la conservazione dei segreti. La società connessa da Internet decreta la fine dei cosiddetti “paradisi terrestri” nel momento stesso in cui li annuncia, dato che - nell’istante immediatamente successivo - verranno devastati da migliaia e migliaia di turisti in cerca del “paradiso terrestre”. Non dovrebbero annunciarli, ci si dovrebbe accontentare di quello che è già famoso e soprattutto trovo folle e criminale pubblicizzare viaggi verso le ultime popolazioni indigene di Australia, Brasile, Indonesia, Africa e così via. É criminale perchè si distrugge sempre più rapidamente e soprattutto irrimediabilmente, per sempre, la cultura e l’ambiente di queste popolazioni. La scoperta di Petra era questione di tempo, ma onestamente fa male pensare che, ancora una volta, anche nel campo della cultura, dell’archeologia, l’uomo occidentale ha depredato, smascherato un luogo sacro alle popolazioni locali. Se penso a tutti i racconti letti sugli archeologi Hedin e di tutti gli altri che hanno spogliato i templi lungo la Via della Seta, gli stermini delle popolazioni locali perpetrati durante l’invasione dell’America, dell’Australia e di infiniti altri luoghi della Terra. Altro che scoperta, che ipocrisia assassina e autocompiacente chiamarla scoperta! Questi pensieri attraversano la mia mente mentre discendo il siq, ma fortunatamente la bellezza del luogo mi fa abbandonare questi pensieri negativi e mi rapisce.
La discesa è lunga, ma scorre velocemente, la nostra mente perde la concezione del tempo e fortunatamente siamo ancora in pochi. Difatti le alte pareti della gola formano una cassa armonica che amplifica ogni voce e rumore. Ci godiamo il silenzio e la magia fermandoci spesso, guardandoci intorno, assaporando ogni metro che ancora ci divide dalla scultura più famosa e spettacolare di Petra, il cosiddetto Tesoro.
La discesa prosegue fino a quando iniziamo a intravedere la spettacolare facciata del Tesoro. Quando crearono questa struttura, i Nabatei furono immensi e geniali, una scenografia ed un effetto mozzafiato. Mi viene in mente, fuori luogo ma non troppo, che fu la stessa intenzione di Bernini quando costruì il colonnato di San Pietro a Roma: chi arrivava dagli stretti e angusti, ma caratteristici vicoli di Spina di Borgo, sarebbe dovuto restare a bocca aperta per la meraviglia vedendosi comparire davanti la magnificenza e la monumentalità di San Pietro, ma Mussolini pensò bene di sostituirsi al Maestro facendo radere al suolo l’antico borgo e costruendo una spianata che annulla la sorpresa e in parte anche l’effetto scenico.
Centelliniamo gli ultimi passi cercando lo scorcio più suggestivo, il dettaglio più spettacolare, ma alla fine non resistiamo. Copriamo gli ultimi metri, il siq finisce così come era iniziato, all’improvviso e siamo di fronte al Tesoro. Alto, magnificamente intarsiato nella roccia, miracolo di arte e perizia umana. Lo ammiriamo in ogni dettaglio a lungo, le fattezze, i piccoli fori ai lati della facciata che hanno aiutato i costruttori ad andare su e giù, i segni del tempo e le offese dell’uomo che hanno rovinato e in parte distrutto alcuni dettagli, ma l’effetto complessivo è ancora intatto, unico. Dopo diversi minuti ci riprendiamo, siamo quasi spossati da tanta bellezza. A sinistra la montagna chiude il passaggio, mentre a destra si prosegue, racchiusi per pochi metri nella parte finale della gola, per poi aprirsi in una grande spianata su cui sono sparsi i resti di Petra. Passiamo a fianco di altre facciate di tombe, dai colori e dalle forme magiche, da sogno. Incredibile commistione tra le magie che solo la Natura sa creare e il senso del sacro e del bello dei Nabatei che hanno creato tutto questo.
Arriviamo alla tomba più lontana, Sesto Fiorentino, nome curioso per un italiano. Troviamo, al riparo dell’ombra che resisterà penso non più di un’altra ora, una mamma con due bambine e un uomo. Sono berberi e praticano l’attività molti altri praticano all’interno di Petra, ossia la vendita di souvenir: monili, pietre, piccole sculture. Iniziamo a chiacchierare, Caterina a guardare gli anelli e gli orecchini che hanno. La signora mi offre un tè. La bambina ha degli occhi bellissimi e ci gira intorno incuriosita e sorridente. É molto sporca, ma posso lontanamente immaginare la situazione precaria in cui vive. Accetto il tè sotto gli occhi increduli di Caterina, che teme per il mio intestino. Anch’io temo, ma mi sembrava troppo brutto rifiutare la loro ospitalità. Spero nel potere antisettico del fuoco che ha scaldato l’acqua. La mamma e le bambine sono accovacciate ai piedi della bancarella, sorvegliata e gestita dall’uomo. “É suo marito?”, le chiedo. “Oh, no, no!” risponde ridendo e spiegando all’uomo la mia domanda, il quale scoppia a ridere imbarazzato a sua volta. Scambiamo altre due battute, poi ci congediamo per approfittare ancora della poca ombra offerta dal lato della montagna sotto cui ci muoviamo. Proseguiamo la passeggiata lungo il lato Est, anche se la cartina del sito non indica più alcun monumento. Il fatto è che la roccia stessa, la montagna è un monumento da ammirare e scoprire.
Ancora qualche metro e troviamo una scalinata, molto consunta. Si dirige all’interno, arrampicandosi sulla montagna. Scattiamo qualche foto, il tempo che un ragazzo giapponese, da solo, arrivi scendendo dalla montagna. “Dove porta questa scalinata?” “Arriva fin sopra il Tesoro, è il punto da cui scattano le fotografie che si trovano sulle riviste e su Internet, in cui si vede il Tesoro dall’alto”, mi spiega. “É lunga?” “bè, ci vorrà un’oretta...” “In tutto?” “No! Un’ora ad andare e un’ora a tornare!” Non ce la sentiamo di fare questa sfacchinata ora che il sole è praticamente onnipresente. Se l’avessimo saputo, saremmo venuti direttamente qui, anche se l’idea di una camminata di due ore per vedere il Tesoro dall’alto, non so se ci avrebbe convinto. Torniamo verso il sito archeologico, in particolare verso una struttura bianca, un tendone che copre non sappiamo cosa. Camminiamo in pieno sole nella piana, si trovano pietre colorate anche qui, sebbene ormai consumate e spesso sbriciolate. Poco prima del tendone, attraversiamo uno ouadi su un alto ed esile ponticello di ferro. Raggiungiamo la struttura, che copre degli splendidi mosaici. Era una chiesa, ma ormai è crollato quasi tutto, si sono salvati solo i pavimenti. Il sorvegliante ci racconta che qui vengono parecchi archeologi e studiosi da tutto il mondo, tra cui diversi italiani. “Tra gli italiani c’è Franco, che mi spiega le tecniche del mosaico, la storia e poi alla fine dice sempre: “Capito??”” ed esclama l’ultima parola in italiano, ridendo di gusto. Il tipo si chiama Hussein, è molto simpatico e si offre di andarci a comprare l’acqua al chiosco a fianco, a prezzo “locale”, ossia il 50% in meno. Poi ci racconta la storia del luogo e dei mosaici. Ci vede molto interessati e si entusiasma: “Aspettate qui!”, esclama improvvisamente. Si dilegua fuori dalle rovine e torna dopo un minuto armato di secchio e straccio. “Quale figura volete vedere meglio?” Non so cosa rispondere, inizio a guardare i pavimenti, poi indico una carovana con cammello carico.
Gli spieghiamo che siamo stanchi e vorremmo tornare un paio d’ore in albergo a riposare un paio d’ore. “Poi torniamo più tardi!” “Ok, allora potete prendere una scorciatoia che vi farà uscire direttamente all’inizio del siq, dove sono parcheggiati i calessini.” Ci sembra una buona idea. “Per dove dobbiamo passare?” “Dunque, seguite la montagna da dove siete arrivati... poi, la vedete la montagna laggiù, dove cambia colore e diventa bianca?” Indica un punto vago nella lontananza sbiadita dal calore. “Sì...” “Ecco, tra la montagna bianca e le rocce più dietro - nere - sulla destra inizia un canyon che sbuca nel piazzale che vi ho detto.”
Il caldo è intenso e sfiancante, ci fermiamo diverse volte a prendere fiato. Torniamo sotto la montagna, ma l’ombra del mattino è praticamente scomparsa, il sole è a picco. L’unico modo per ripararsi è entrare nelle numerose cavità e rientranze della roccia. I colori continuano ad essere stupefacenti, nonostante il calore e la stanchezza continuiamo ad ammirare la bellezza unica del paesaggio. Camminiamo e camminiamo, ma la montagna bianca e le rocce nere continuano a sembrare irraggiungibili. Inizia a farsi strada il dubbio che forse non avremmo dovuto ascoltare il consiglio di un beduino che conosce questi posti come le sue tasche! E se sbagliamo bivio? Se prendiamo il canyon sbagliato? Se non troviamo nessun canyon e dobbiamo tornare indietro?? In più, da parecchio non vediamo altra anima viva. Nessuno si avventura oltre la tomba di Sesto Fiorentino. In ogni caso, ormai ci siamo, abbiamo due litri d’acqua e proseguiamo. Attraversiamo torrenti che chissà da quanto tempo non vedono una goccia d’acqua. Seguiamo quella che ci sembra la traccia di un sentiero, anche se sparisce di frequente, tanto da farci dubitare che sia un vero sentiero. Dopo parecchio tempo e molta fatica, arriviamo nei pressi della montagna bianca. In realtà manca ancora qualche decina di metri, ma vediamo una piccola gola che si apre alla nostra destra e decidiamo che siamo arrivati al punto.
Man mano che scavalchiamo detriti e rocce incastrate portate da chissà quale alluvione, nuovi interrogativi mi affollano la testa. É il canyon giusto? E se arriviamo a un bivio, che direzione prendiamo? Ora è impossibile orientarsi con il sole, che non vediamo più. Siamo in un labirinto, per ora a strada unica, ma chissà. Poi mi tornano in mente le parole di Roeland, l’amico di Caterina che vive in Oman. Quando siamo andati a trovarlo, un paio d’anni fa, ci prestò la macchina e ci pregò: “Mi raccomando, non parcheggiatela nei letti dei torrenti, perchè è già capitato che ci sia una pioggia improvvisa che forma un’onda di piena e si porta via le macchine!” In effetti eravamo andati a trovarlo a gennaio, mentre adesso siamo in agosto e credo che non ci sia nemmeno la remota possibilità di una pioggia, ma un po’ la stanchezza, un po’ il timore di perdersi e anche il pensiero di una piena improvvisa inizia a farmi sentire sempre meno sicuro. Continuiamo ad addentrarci nelle viscere della montagna, la fenditura a volte diventa strettissima, soffocante, altre volte si allarga, ma mai oltre i due metri di larghezza. Sopra le nostre teste, parecchie decine di metri più in alto, vediamo una lama di cielo azzurro. Il percorso è accidentato, a tutti gli effetti procediamo contro corrente: tutti gli oggetti trascinati (pneumatici, reti metalliche, tronchi, ecc) e le rocce incastrate sono posizionati in modo da doverli superare arrampicandoci nei modi più impensati e meno favorevoli. A volte dobbiamo fare vere acrobazie per superarli, aiutandoci, spingendoci e tirandoci l’un l’altro. Procediamo, per forza di cose, molto lentamente. Altri pensieri si affacciano alla mente: e se ci facciamo male? Se prendiamo una storta? Se ci mancano le forze? Se ci morde un serpente? La testardaggine e soprattutto l’idea della lunghissima e assolata strada del ritorno ci fa proseguire ancora un po’. Qui, almeno, siamo all’ombra e la temperatura è assolutamente gradevole. Poi, il temuto bivio si palesa. Di fronte, il proseguimento del canyon che stiamo percorrendo. Sulla destra, la confluenza di un’altra piccola gola. Decidiamo di andare a destra, perchè di fronte il passaggio è ostruito in maniera praticamente invalicabile. I dubbi aumentano passo dopo passo. Il tempo di superare ancora qualche masso immane incastrato a metà della gola e altri detriti, ancora tre o quattro acrobazie, poi dico a Caterina: “Senti, tu resta qui, proseguo un attimo da solo a vedere come prosegue. Se è ancora così o addirittura peggiora, torniamo indietro, non me la sento di perdermi nella montagna, che nessuno sa dove siamo e non prendono i cellulari!” L’idea di restare da sola, anche se per pochi minuti e in un posto così, totalmente isolato e desolato, non le piace, comunque risponde: “Ok, vai ma fai in fretta.” Inizio ad arrampicarmi sui massi, a issarmi e calarmi, a passare sotto altre rocce incastrate e così via. Supero due passaggi molto difficili, poi al terzo mi fermo. Lo osservo dal basso verso l’alto e mi chiedo come potremmo superarlo, anche aiutandoci l’un l’altro. In più, non si vedono miglioramenti, anzi. Inizio a tornare indietro. Dopo qualche passo sento Caterina che mi chiama e mi accorgo che, nonostante pensassi il contrario, ero già uscito dalla portata della sua voce. Le rispondo urlando “Sto arrivando!” Come pensavo, seguire la direzione dell’ipotetica acqua è molto più facile: ti cali dai massi invece di arrampicarti, scendi dagli ostacoli invece di sbatterci contro. In pochi minuti raggiungo di nuovo Caterina, ci abbracciamo. “Senti, non migliora e ho paura di perdermi nella montagna. Torniamo indietro adesso che abbiamo ancora un po’ di energia, prima di finire anche quella senza sapere dove siamo.” A malincuore, torniamo sui nostri passi. Ripercorriamo la gola a ritroso e in meno di mezz’ora siamo di nuovo sulla spianata riarsa dal sole. L’afa e il calore avvolgono l’orizzonte in una nebbiolina tremula. Ci facciamo coraggio e iniziamo il lungo cammino del ritorno, dandoci dell’idiota per aver dato ascolto ad un consiglio utile solo a chi conosce la zona. Camminiamo con l’obiettivo di Sesto Fiorentino, il punto da cui iniziano ad esserci delle persone: “Arriviamo lì e ti metto sul primo asino che vediamo!” Ci fermiamo spesso, sforzandoci di centellinare l’acqua, quasi finita. Ci sgiogliamo dentro un Polase per reintegrare sali e vitamine. Dopo un tempo che sembra infinito, vediamo all’orizzonte la facciata cui agogniamo. Stringiamo i denti e - passo dopo passo - finalmente arriviamo. Fortunatamente la prima persona che incontro è il tipo che stamattina sorvegliava la bancarella e tiene in mano la cavezza di un asino! Mi precipito da lui e gli dico che lo voglio prendere per portare Caterina fino al Tesoro. Non capisce, insisto. Quasi immediatamente arriva la signora che mi aveva offerto il tè. “É sordo, non può capirti! Cosa vi serve?” “Voglio prendere l’asino per riportare mia moglie all’ingresso.”
Capisce e invita Caterina a salire. Ci accorgiamo che l’asino è senza sella e quindi senza staffe! Alla fine, tirando e spingendo, riusciamo a issare Caterina in groppa all’asinello, che si mette in marcia tra una bastonata e un calcio. Essendo sordo muto, il tipo non riesce a farsi capire nemmeno dall’asino. É un continuo di urla gutturali, spinte, calci e bastonate sul povero ciuco, con Caterina che dondola in cima. La scena è molto comica! Io procedo a piedi, a volte aiuto a tirare l’animale, a volte affianco Caterina per incoraggiarla. “É più faticoso stare in groppa a quest’asino che farmela a piedi!”, esclama lamentandosi, ma al mio invito a scendere e darmi il cambio, rifiuta decisamente. Purtroppo proseguiamo tra fraintendimenti continui, il tipo non ha assolutamente capito dove vogliamo andare e, invece di scendere nella strada battuta principale, nella parte inferiore del sito, continuiamo a camminare in quota lungo il lato Est, sotto le tombe monumentali che abbiamo visitato stamattina all’alba. Alla fine, ci arrampichiamo talmente in alto che, per scendere a valle come continuiamo a indicare e gridare Caterina ed io, dobbiamo buttarci in una scalinata molto ripida scavata nella pietra. Attimi di terrore negli occhi di Caterina, sballottata dal somaro che salta di pietra in pietra. Finalmente arriviamo sul fondo, in mezzo ad un fiume di turisti. L’asino non vuole più camminare e anche il tipo non vuole proseguire. Come mi aveva spiegato stamattina la signora, loro all’interno di Petra sono abusivi, non autorizzati e non possono farsi vedere nè dai beduini ufficiali nè, tanto meno, dai sorveglianti. Caterina scende, salutiamo il tipo e ci trasciniamo davanti al Tesoro. Mi precipito al chiosco a fianco e compro una bottiglia grande d’acqua e due coche. Le beviamo in un istante e, finalmente, iniziamo a rilassarci. Restiamo imbambolati davanti al Tesoro per lunghi minuti, poi ci riscuotiamo e iniziamo la risalita del siq. Prima, però, vogliamo farci fare una foto insieme, ne abbiamo pochissime!
Lunga risalita, ma alla fine anche il siq passa. Nel piazzale dei calessini, dove stamattina ci aveva lasciato il cavallo, veniamo assaliti dai ragazzi coi cavalli. Contrattiamo il prezzo, ma chiedono quasi il doppio di stamattina. Infatti, adesso, è tutta in salita. Ormai ci siamo ripresi e ci dà fastidio pagare il doppio del prezzo, quasi litigo con uno di loro. Proseguiamo a piedi, sotto al sole a picco. Finalmente, finisce anche questo tratto. Ringrazio il cielo che abbiamo preso l’albergo più vicino di tutti all’ingresso delle rovine. Saliamo in camera il tempo di andare in bagno e prendere in costume e ci buttiamo in piscina.
Arrivano anche Stefano e Maria Laura, poi, più tardi, anche Federico e Melania. Con Caterina proviamo a decidere dove andare dopo Petra: risaliamo verso il Libano o ci fermiamo sul Mar Morto? Oppure scendiamo a Wadi Musa o ancora più a sud, sul Mar Rosso, ad Aqaba? Chiudiamo la cartina senza aver deciso, per il momento, di sicuro, abbiamo il biglietto per Petra anche domani, quindi nuova sveglia all’alba! Al tramonto ci mandano via dalla piscina, organizzano la cena per gli ospiti paganti dell’albergo. Decidiamo di andare tutti insieme a cena in un ristorante beduino segnalato dalla guida. Prendiamo le moto e arriviamo nella parte bassa di Wadi Musa. Lo troviamo subito, parcheggiamo e ci fermiamo, indecisi, tra il ristorante segnalato dalla guida e quello a fianco. Alla fine decidiamo di fidarci della guida, ma, man mano che ci porta i cibi, ci pentiamo tutti, non è buono e, al momento del conto, scopriamo che è anche caro! Il solito danno della Lonely Planet. Torniamo di corsa in albergo e crolliamo sul letto alle 23. |
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