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Giornate: 07/08/2010 - “Discesa all’inferno”
Avviamo la nostra contrattazione, poi facciamo la spartizione. “Dammi quello più buono e tranquillo!” chiede Caterina. “Sono tutti e due tranquillissimi”, ci assicura. Saliamo in groppa e iniziamo a trotterellare, tra le nostre risate impazzite. Ci divertiamo come bambini, è divertentissimo e in più gli asini ci mettono del loro. Quello di Caterina è un maschio, il mio invece è una femmina. “Si chiama Monica!”, mi informa il proprietario che ci segue sul suo asino, proprio un bel terzetto!
“Ma non sono io, è Monica che corre!” “Dai che mi fa cadere!!”, esclama allarmata. Il tizio dietro se la ride con noi. Monica dopo un paio di rampe in salita riesce a superare il maschio in un suo attimo di esitazione su come affrontare un punto particolarmente sconnesso. Ora è il turno dell’asino di Caterina di cercare in ogni modo di sorpassare il mio, ma Monica si difende alla grande, chiude ogni passaggio e in generale è più svelto e agile. Lungo la ripida e lunga salita superiamo Stefano e Maria Laura, che si stanno arrampicando a piedi. Li salutiamo senza poterci fermare: comandano gli asini. Una bella metafora del mondo, a ben pensarci. Nel frattempo si aprono scorci sempre più ampi verso la parte bassa di Petra e sulla montagna su cui ci stiamo inerpicando. In realtà è un insieme di montagne, tra le quali si aprono gole e precipizi. Arriviamo in cima, a pochi passi dal Monastero, anche se non vediamo nulla, a parte un chiosco con una grande parte coperta con tavolini e sedie su cui ci accomodiamo sorseggiando un succo di frutta. Ci raggiungono anche i nostri amici, quasi contemporaneamente: Stefano, Maria Laura e, anche loro in groppa a due asini, Federico e Melania.
Il monumento è stato ricavato sbancando metà della cima della montagna, un lavoro incredibile. Incredibilmente ritroviamo Hussein, il sorvegliante del mosaico conosciuto ieri. Lo salutiamo felici, si offre di mostrarci qualche bel panorama. Proseguiamo lasciandoci alle spalle il Monastero, in direzione di grandi cartelli che promettono viste spettacolari. Una volta portavano tutti a chioschi e bar improvvisati, che troviamo tutti chiusi, ma i panorami sono davvero magnifici. La vista spazia verso il basso per km e km.
Scattiamo diverse fotografie a immortalare queste viste così uniche e iniziamo a tornare. Hussein ci fa passare da altri sentieri, mostrandoci piccole caverne con finestre e, all’interno, sedili ricavati dalla pietra. “Erano le vecchie case dei beduini! Poi hanno creato l’area archeologica e li hanno cacciati!” Iniziamo la discesa con questo pensiero. Scendiamo lentamente, a piedi, a volo d’uccello verso Petra che, a sua volta, ci offre panorami eccezionali. Arriviamo alla fine della discesa dove troviamo il nostro uomo degli asini, assieme a molti altri suoi colleghi. Ci offrono asini da tutte le parti, ma il nostro accompagnatore inizia a litigare. Evidentemente gli sta dicendo che noi siamo suoi, di non intromettersi! Visitiamo rapidamente il piccolo museo con qualche reperto archeologico dell’area. Decidiamo di andare al cosiddetto High Place, ovviamente con Monica e il suo amico! Stavolta però, siccome tiriamo troppo sul prezzo, ci guida un ragazzino, che evidentemente costa meno, mentre l’adulto va a caccia di altri clienti. Si uniscono anche Stefano e Maria Laura, che si lasciano convincere a prendere a loro volta dei somari. Passiamo alle spalle delle rovine di un monumento della parte romana di Petra e iniziamo a serpeggiare tra le basse colline, lasciandoci la montagna del Monastero alle spalle e con la parte principale di Petra alla nostra sinistra.
In lontananza, sulla destra, vediamo altre grandi tombe, ma sembrano poco decorate. Arriviamo di nuovo sotto una montagna, sulla quale ci arrampichiamo brevemente. Ci fermiamo in uno slargo sul quale si affacciano alcune tombe. “Quella è la tomba del Soldato”, ci spiega il ragazzino, mentre smonta e ci chiede di scendere, che il percorso è finito. “Dovete proseguire in quella direzione” - ci dice indicando la montagna - “l’High Place è là”, e qui il suo dito si alza inesorabilmente, verso la cima di una montagna che dovremo scalare emulando gli asini che ci hanno portato sin qui. All’interno della Tomba del Soldato troviamo paglia, fieno e odore di animale, sicuramente serve da stalla per qualche beduino.
Iniziamo la salita, faticosa. Nella parte iniziale ci fermiamo di frequente per le altre opere e resti che incontriamo, poi è solo un abbassare la testa e spingere sulle gambe. Siamo completamente inghiottiti dalla montagna e da quelle intorno, non si aprono paesaggi, ma soltanto nuove spirali del sentiero.
Proseguiamo la salita sempre più affaticati. Per fortuna ci siamo risparmiati la salita a piedi al Monastero! Ma dopo la strapazzata di ieri non abbiamo avuto dubbi sul somaro... Non riusciamo a capire dove dovrebbe trovarsi questo High Place, per il momento non vediamo nulla, all’infuori di nuove rampe da salire. Siamo anche completamente senz’acqua. Stefano è il più determinato a raggiungere l’High Place, Maria Laura segue un po’ a forza, non molto convinta, ma senza volerlo contraddire. Caterina ed io siamo più scettici, abbiamo visto tanto, i nostri cuori e i nostri occhi sono pieni di stupore e bellezza e di panorami dall’alto su Petra ne abbiamo già visti abbastanza, può anche bastare! In ogni caso sono ragionamenti inutili, visto che non abbiamo altra scelta che continuare a salire. Finalmente la montagna si apre in uno slargo. Vediamo il classico chiosco. Tutti ringraziamo il cielo e ci fiondiamo, sperando di trovare qualcosa da bere. Una larga tettoia copre una ventina di sedie di plastica, su un lato troneggia l’immancabile frigo della Coca Cola, vicino sono sedute tre generazioni di donne: un’anziana, una signora e una ragazza. Quando arriviamo non ci degnano di uno sguardo, continuando a conversare tra loro. “Vorrei una Coca Cola”, chiedo ardentemente. Mi rispondono con un vago cenno verso il frigorifero. Vado, ma è vuoto, rotto. Ai suoi piedi, una scatola termica, come quelle dei picnic, con alcune residue lattine sul fondo. Calde, caldissime! E nessuna Coca Cola, solo Fanta e Sprite. Ma la sete è troppa per sottilizzare e afferro una Fanta. La finisco senza riprendere fiato, un unico lungo sorso. Ne prendo un’altra e con questa ricomincio a ragionare. Torno da Caterina, che ne prende solo un sorso, non è assetata come me. Anche Stefano e Maria Laura bevono, in silenzio. Aleggia tra noi il fantasma dell’High Place: dove si trova? Proseguiamo nella ricerca o ce ne freghiamo e torniamo a valle? Il tempo di riposarci un minimo e ce lo chiediamo tutti a voce alta. “Facciamo così”, propongo, “chiedo alle signore dove si trova ’sto benedetto High Place e poi decidiamo.” “Siete arrivati, è lassù!”, è la laconica risposta della signora, che indica l’ennesima rampa. La voglia di arrampicarci sull’ennesima rampa è scarsissima. L’ordine con cui andiamo rispecchia la voglia che abbiamo di vederlo: prima Stefano, poi Maria Laura, poi io e, in fondo, Caterina. Arriviamo in cima e... di nuovo una spianata di roccia, nessuna traccia di panorama o luogo di preghiera o altare come dovrebbe esserci sull’High Place. Siamo delusi e completamente in rivolta verso il povero Stefano che, dopo tanta fatica, vorrebbe vederlo questo maledetto High Place. Alla fine abbiamo la meglio e lo convinciamo a scendere, che tanto, appunto, di panorami ne abbiamo già visti un sacco scendendo dalla montagna del Monastero. Anche la discesa non è banale, le gambe devono frenare il corpo appesantito dalla gravità e dalla stanchezza. La discesa è ancora più ripida della salita e, anche da questo lato, di panorami non se ne parla. Siamo infilati in una stretta gola che taglia in due la montagna. Lungo la discesa incrociamo qualche venditore di souvenir e qualche turista col fiato corto per la fatica, che ci chiede in un sospiro dove si trova l’High Place. Indichiamo verso l’alto, sperando che loro siano più fortunati di noi e riescano a trovarlo. Finalmente arriviamo sul fondo valle e in un secondo ci ritroviamo immersi nel fiume di turisti che sciamano sotto le tombe della parte iniziale di Petra. Ci infiliamo nel primo chiosco che troviamo, con lunghe panche coperte di tappeti e cuscini e ci rinfranchiamo con bibite questa volta gelate. Sono le 14, il caldo è molto intenso. Decidiamo, come ieri, di uscire e andare a passare il resto della giornata in piscina. Nuova sosta davanti al Tesoro, con la triste consapevolezza che, almeno per un bel po’ di tempo (anni) non lo vedremo più e, faticosamente, ci infiliamo nel siq, percorso a gran velocità da calessi che trasportano donne completamente velate di nero, famigliole e coppiette. Ultima salita sotto il sole cocente, anche oggi senza asino, poi, finalmente, la piscina! Restiamo fino alle 17, poi facciamo una rapida doccia nei bagni di servizio e ci mettiamo in moto. La destinazione, scelta all’ultimo secondo chiacchierando anche con gli altri, è Aqaba. Noi passeremo la giornata di domani là, gli altri invece faranno il loro secondo giorno a Petra, poi ci ritroveremo tutti a Wadi Rum. Ottimo! Anche Maria Laura ha voglia di mare e relax, ma trova un accordo con Stefano decidendo che intanto andiamo noi, poi gli diciamo com’è ed eventualmente decidono se andare oppure lasciar perdere. Rimontiamo le valigie e indossiamo casco e giubbotto e, finalmente, siamo di nuovo in sella! Ci arrampichiamo sulle ripide strade di Wadi Musa e, poco prima di uscire dal paesino, facciamo il pieno. Il ragazzo alla pompa mi restituisce il resto, che prendo senza pensarci troppo. Caterina, per fortuna, osserva la scena e, dopo che siamo ripartiti, mi chiede se sono sicuro del resto. Un po’ scocciato di dovermi fermare, controllo e... ha ragione! Mancano parecchi soldi! Torno indietro, protesto con il ragazzo che ci ha servito il quale, senza scomporsi più di tanto, ci allunga le banconote mancanti. Proseguiamo la salita fino ad arrivare sulla Strada dei Re, che corre alta sulla pianura giordana. Il panorama a sud di Petra è affascinante, nonostante sia meno grandioso rispetto alle gole immani e le montagne su cui abbiamo danzato arrivando da Nord un paio di giorni fa. Ci muoviamo su un altipiano spazzato da un vento potente, le colline su cui ci muoviamo sono brulle, desertiche, i colori spaziano sulla tavolozza del marrone. Vediamo, forse complice l’orografia meno estrema, molti più accampamenti di palestinesi ai lati della strada. Grandi tende per lo più scure, svolazzanti, con famiglie e animali intorno. Ci supera un’auto, i bambini si sbracciano a salutarci dal sedile posteriore. Proseguiamo facendo resistenza al vento, fino a un grande bivio. La macchina di prima è ferma al centro del bivio. Si è fermata ad aspettarci perchè non ci sono cartelli! Hanno già capito che stiamo andando verso Aqaba e ci fanno grandi gesti sorridenti dai finestrini. Dopo averci superato ancora, dopo qualche minuto si fermano ad aspettarci al bivio dove stanno per girare, ci salutano ancora. Poco prima di confluire nell’autostrada che arriva da Amman, iniziamo a scendere dalla cresta lungo la quale corre praticamente tutta la Strada dei Re. Il caldo aumenta. Una volta sull’autostrada, l’effetto è ancora più evidente: un’unica, lunghissima, graduale discesa verso il basso. Il caldo aumenta in proporzione. Nonostante ormai sia buio, il caldo diventa sempre più soffocante. Qualche km prima di Aqaba arriviamo ad una specie di casello dove mostriamo i documenti. Ripartiamo, sempre in discesa. Ormai sembra di entrare in un forno, viaggiamo incontro ad un phon acceso alla massima potenza di vento e calore. Non vogliamo entrare in città, ma andare direttamente in uno dei resort di cui abbiamo letto sulla guida di Stefano e Maria Laura. La discesa prosegue, lo scenario diventa via via più apocalittico: TIR sempre più numerosi, parcheggi immensi, fabbriche e raffinerie illuminate a giorno, ciminiere impennacchiate di fumo si ergono verso il cielo. Sembra di scendere all’inferno, ci muoviamo in un incrocio tra Malagrotta e Civitavecchia, dieci volte più grande. Siamo senza parole. Caterina è mortificata di aver tanto insistito per arrivare fin qui per godere un po’ di mare. Io sono sconcertato da tanto scempio. Siamo a due km dall’Arabia Saudita, il caldo è asfissiante nonostante sia notte e il vento spazzi l’aria in continuazione. Ci perdiamo tra mille svincoli anonimi e deserti, finchè non riusciamo a trovare il Royal Diving Center. Siamo accerchiati da fabbriche e caserme militari. É quasi pieno e non sapremmo nemmeno dove andare, ma Caterina è talmente contrariata che vuole pagare il meno possibile per stare in un posto del genere. Alla fine spuntiamo un prezzo di 70 dinari per una notte con colazione. L’interno è molto bello, è pieno di persone che fanno baldoria attorno alla piscina. Ormai l’ora di cena è passato, sono tutti intorno alla piscina a ballare e chiacchierare, nell’aria musica da discoteca ad alto volume. Le vacanze di lusso della borghesia giordana e straniera. Molte donne sono velate. Arriviamo in camera, posiamo al volo bagagli e indumenti da moto e ci precipitiamo nel ristorante. Un affabile e brillante cameriere ci porta un magnifico pollo con crema di funghi e patate al forno per 27 dinari in tutto. Finito di mangiare, ci affacciamo per qualche minuto sulla piscina, ma non abbiamo voglia di prendere parte alla serata, siamo troppo stanchi e avviliti. Torniamo in camera. Contrariamente alle nostre abitudini, accendiamo l’aria condizionata, il caldo è afoso e opprimente. Ci pentiamo di essere arrivati fin qui. 08/08/2010 - “Nuotando tra pesci e coralli”
La barriera corallina inizia sin dalla riva! Per entrare in acqua dobbiamo percorrere una passerella che ci porta oltre la barriera. Ci immergiamo: la temperatura è piacevole, l’acqua trasparente anche se le onde e la corrente danno un po’ fastidio, siamo in continuo movimento e dobbiamo fare attenzione a non farci spostare troppo. Ci sono molti pesci tropicali, colorati e soprattutto grandi coralli ramificati, variopinti. É la prima volta che ne vedo così. Forse lo sballottio delle onde, forse i miei soliti problemi di orecchie, fatto sta in breve mi viene la nausea. Esco e mi sistemo all’ombra. Il caldo sta aumentando. Le ore trascorrono tra nuove immersioni, lettura e riposo sui lettini, spiluccamento delle pizzette prese stamattina e di altre cose che ci portiamo dietro come scorta, comprate in giro. Alle 16 restituiamo tutto, come concordato. Ci facciamo una doccia e alle 17, in pieno caldo, siamo pronti per ripartire: destinazione Wadi Rum! Fa molto caldo, ma meno di ieri. Uscendo dal resort ci accorgiamo che, ancorata di fronte all’installazione militare a fianco del resort, c’è una grande nave da guerra statunitense. Il pensiero di un attentato ad un simile obiettivo strategico mi passa fugacemente nella mente. Tra i mille svincoli non riesco a ritrovare la strada di ieri, che ci avrebbe evitato la deviazione per Aqaba. Alla fine mi rassegno, percorriamo la costiera. La costa è anonima e brulla, a parte gli insediamenti di case, tutto sommato sporadici. Il mare è blu, senza le sfumature e i colori tipicamente tropicali. Entriamo ad Aqaba, moderna ed elegante. Sicuramente la città più occidentale e ben tenuta vista fino ad oggi. Aiuole fiorite e ben curate, grattacieli in vetro e acciaio, case eleganti. Non sembra Giordania e soprattutto non ha più nulla della cittadina polverosa assaltata Lawrence d’Arabia durante la rivolta narrata ne “I sette pilastri della saggezza”. Siamo a corto di benzina, da km non trovo più un distributore ed anche ad Aqaba sembrano scarseggiare. Non vogliamo fermarci, attraversiamo interi quartieri guardandoci intorno, ma nulla più. Finalmente le indicazioni per tornare verso Amman e l’agognato distributore. Ripercorriamo la strada di ieri, oggi in salita. Viviamo anche oggi l’effetto del calore: man mano che saliamo, si allenta un poco la morsa del calore e dell’afa. Arriviamo al bivio per Wadi Rum ed iniziamo ad inoltrarci in un deserto piatto con alte montagne all’orizzonte. Arriviamo all’ingresso del Parco Naturale dove troviamo il ragazzo contattato da Federico nei giorni scorsi. Ci sta aspettando da un’ora! Paghiamo l’ingresso nel Parco ed entriamo seguendo il suo furgone. Percorriamo altri quindici km, fino alla sua abitazione nel villaggio. Parcheggiamo la moto nel cortile e dai bagagli prendiamo lo stretto indispensabile per passare la notte nel deserto. Saliamo nel retro del furgone. “Andiamo a fare la spesa, per la cena di stasera!”, ci comunica la guida. Ci fermiamo di fronte a un fruttivendolo e un alimentari. Carichiamo riso, verdura, carne e una cassa d’acqua. Ci offre due lattine di caffè freddo.
Ci guardiamo intorno, felici di trovarci - anche se per poco - in un deserto. Il sole sta tramontando. “I vostri amici sono al Sunset Place, ma ormai è troppo tardi, è inutile che vi ci porto, anche loro stanno per tornare! Andiamo direttamente all’accampamento!”, ci comunica urlando dall’abitacolo. Peccato, avremmo dovuto muoverci almeno un’ora prima da Aqaba. Continuiamo a seguire il profilo del massiccio alla nostra sinistra e, disegnando una curva lunga e dolce, ci infiliamo in una gola chiusa a destra da un’altra montagna. Incrociamo in lontananza un’altra jeep, probabilmente altri turisti. Dopo qualche altro km, pieghiamo verso destra e puntiamo decisamente verso la montagna. Arriviamo sotto una grande sporgenza che offre un riparo naturale. “Quelle sono le tende, dentro ci sono i materassi”, ci spiega indicando delle tende simili a quelle viste fino ad oggi lungo le strade giordane, “lì c’è la cucina e in fondo, i bagni”. Non manca nulla! Ci godiamo lunghi minuti di silenzio assoluto, mentre la nostra guida prepara il tè. “Così lo beviamo tutti insieme appena arrivano!”, ci propone con un sorriso.
In lontananza vedo arrivare una jeep che punta verso di noi: sono tornati! Ci raccontiamo la giornata, la loro seconda a Petra, le escursioni e noi parliamo di Aqaba e del mare. Ceniamo nella tenda della cucina, cena a base di riso e pollo, con insalata. Non male. Usciamo e ci sediamo sui cuscini. Decidiamo di dormire all’aperto, la temperatura è fantastica, mentre dentro le tende si soffoca. Spegniamo tutte le luci, lo sguardo si perde nel cielo stellato. Nuove chiacchiere, poi qualcuno propone un gioco: “Io penso ad un personaggio famoso, voi fate delle domande e indonvinate chi è!” Carino, gioco anch’io, ma preferirei il silenzio o, più precisamente, ascoltare il fluire dei pensieri. Anche se siamo in sei, non bisogna per forza parlare. Gli occhi si abituano sempre più all’oscurità. Il cielo è stellato, ma c’è una luminescenza diffusa. Non capisco da dove arrivi, in ogni caso la stellata è meno spettacolare di quelle che ho ammirato in Kazakistan e Turkmenistan. Le voci si smorzano, il gioco rallenta, il sonno ci rapisce. Sotto le stelle.
09/08/2010 - “Sulle tracce di Lawrence”
La linea di rocce impermeabili è sottolineata da una fila di piccoli alberi che crescono nonostante la fonte sia ormai asciutta, rendendo evidente ancora una volta il cambiamento climatico avvenuto in circa un secolo. Provo ad immaginarlo arrivare con il suo dromedario femmina prediletto. Lui preferiva le femmine perchè sono più docili e più resistenti, non si fermano mai, se non quando stanno per morire. I maschi, invece, sono più imprevedibili, irosi e si fermano anche quando sono soltanto feriti. Provo ad immaginarlo arrivare, fare il segnale convenuto per farsi riconoscere dalle mille sentinelle nascoste tra le rocce, invisibili. Mentre stiamo per ripartire, arriva un altro fuoristrada con una famiglia, con un paio di ragazzi giovani, un maschio e una femmina. Iniziamo a chiacchierarci, sono palestinesi e stanno facendo una gita.
“No problem!”, senza esitazione. Si ferma quasi subito, fa un giro intorno alla macchina, impreca.
Bene! Caterina ed io gironzoliamo intorno. Lo spazio così ampio ci dà le vertigini, viene voglia di correre e saltare, cercando di espandere il proprio corpo oltre i confini, come il deserto. I due ragazzi si affaccendano attorno all’auto. In quel mentre, arriva una jeep. La forte e tipica solidarietà del deserto qui è accentuata ulteriormente dal fatto che si conoscono tutti. É un gruppo di italiani. Quando vedono che la loro guida inizia a dare una mano ai nostri, esclamano: “Cazzo, ora ci supera il gruppo di giapponesi, eravamo primi!” Solidarietà, una parola vuota per loro, presi da una corsa immaginaria e un’esclusività che, ci vuole poco a capirlo, non esiste. Per non irritarmi ulteriormente, mi allontano quasi senza rivolgergli la parola. I ragazzi recuperano una grande pietra che usano come crick, visto che sulla sabbia il crick tradizionale farebbe ben poca presa. Piazzano la pietra proprio dietro l’asse posteriore e, con un colpo di retromarcia, ci sale sopra alzando l’auto. Chiave inglese, i bulloni si svitano ùfacilmente, ruota di ricambio, prima marcia in avanti per saltare giù dalla pietra. Finito! Ma, ahimè per gli altri italiani, due jeep con i famosi giapponesi si fermano al volo per sapere se è tutto ok e ripartono. Ormai sono primi, nella loro corsa immaginaria. Mi fa sedere al volante, lui a fianco e l’amico dietro, nel cassone all’aperto con Caterina. É facile e divertente, mentre lui si riposa un po’, soprattutto dal dover fare le stesse piste tutti i giorni della settimana, dei mesi, degli anni. Puntiamo su altre montagne e quando siamo nei pressi iniziano a sollevarsi piccole dune sabbiose: “Metti in seconda e vai a tutto gas!”, mi consiglia la guida. Eseguo e, un po’ sballottati anche dalle sterzate per evitare i sassi, arriviamo in uno slargo a fianco di un tendone nero. “Là c’è un piccolo siq, io mi fermo qui!”, ci comunica la guida salutando le persone sotto la tenda. Dopo aver visto Petra, chiamarlo siq è volergli fare un grande complimento. Si tratta in realtà di una piccola gola che si incunea brevemente nella montagna, per poi chiudersi verso l’alto. La parte più interessante sono alcune iscrizioni rupestri, non riusciamo a capire a quando risalgono, quanto sono antiche. Torniamo alla tenda. Dei ragazzini si stanno lavando i denti con meticolosità vicino a un torrentello, gli adulti sono stesi sui tappeti a parlare con la nostra guida e il suo amico. Appena arriviamo si riscuotono: “Vi preparo un tè!”, ci propone senza dare molte alternative di scelta. Ma ci va bene così, immaginiamo il gioco e ci prestiamo volentieri. In mezzo all’ambiente creato dalla grande tenda, aperta sui quattro lati, si trova un lungo tavolo coperto di sacchettini pieni di erbe per infusione. “Qual è quella che stiamo bevendo?”, chiedo dopo aver sorbito il primo sorso. “Questa! La raccogliamo noi sulle montagne, è molto buona!” “Va bene, ne prendiamo un pacchetto!” Mi aggiro con la tazza in mano lungo le altre bancarelle, alcune fuori, sotto al sole. Pietre variamente colorate, fossili e cianfrusaglie varie. “Che dite, proseguiamo?”, ci propone la guida leggendo nelle nostre menti. “Ok!”, e risaliamo in auto. Ma prima, la guida mi chiede: “Vuoi guidare ancora?”, propone forse per pigrizia. “No no, vai pure, è meglio!”, pensando che preferisco scattare fotografie e guardarmi intorno. Il suo amico rimane con la famiglia della tenda, ora la guida si annoierà, tutto solo.
Vediamo, nell’ordine il piccolo e il grande arco. Ad entrambi ci fermiamo, ci arrampichiamo, ammiriamo il paesaggio dall’alto. Sul piccolo saliamo Caterina ed io, con cautela. La guida ci scatta alcune fotografie dal basso.
Il piccolo arco è più pittoresco, ma il grande è spettacolare, alto e imponente. La vista dalla cima è ampia, emozionante. Tanto ampia che mi consente di veder arrivare da lontano una piccola carovana di tre jeep. Sicuramente sono dirette qui, inizio a scendere. Non tocco ancora terra che il piccolo slargo tra la montagna e l’arco, dove abbiamo parcheggiato, viene invaso da una ventina di italiani, tra cui quelli incrociati un paio d’ore fa. Scattiamo ancora qualche foto, poi, alzando la voce tra le urla e le risate dei nuovi arrivati, chiediamo alla guida di proseguire. “Ormai inizia a far caldo, dobbiamo tornare!”, ci spiega mentre torniamo dalla pista da cui siamo arrivati.
“Potresti riportarci un attimo nella zona delle dune di sabbia rossa? Vorremmo scattare qualche foto, prima non ci siamo fermati!” “Ok”, risponde deviando immediatamente per andare nella nuova direzione. Ci fermiamo sotto una duna schiacciata contro una bassa montagna modellata dal vento. Giochiamo ad arrampicarci e scendere a perdifiato, correndo, saltando e rotolando. Salgo fino in cima, trovando le classiche pile di pietre e sassolini. Originariamente erano segnali lasciati dai beduini e da chi viaggiava nel deserto, per tenere la traccia o comunicare con chi avrebbe seguito le orme. Ora, sono ricordi lasciati dai viaggiatori, un po’ come le monete lanciate nella Fontana di Trevi a Roma. Ripartiamo e in breve arriviamo al villaggio. Ci avvolge e ci supera un gregge di pecore e dromedari diretti verso il deserto, apparentemente senza guida. Donne completamente coperte e quasi nessun’altra persona. Sono le 13, il caldo ormai è all’apice, non certo ideale per viaggiare, ma non ci va di aspettare ore e ore. Incrociamo di nuovo Federico e Melania. Anche loro sono appena tornati, alla fine hanno fatto un giro un po’ più lungo in dromedario. Aspettano che il sole scenda: “Pensiamo di partire verso le 17 o le 18, ci fermiamo a casa della guida”, ci spiega. “No, penso che partiremo nel giro di un’ora.” Ci fermiamo in un bar, io approfitto del bagno mentre gli altri bevono una Coca ghiacciata. Chiacchieriamo ancora qualche minuto, poi salutiamo: “Allora ci vediamo stasera a Madaba?”, propongo. “Ok, mandami un messaggino col nome dell’albergo dove vi fermate.” Torniamo a casa della guida, il cancello del cortile è aperto. Rimontiamo i bagagli e partiamo.
Il caldo è intenso, ma sopportabile. Cosa che non posso dire, invece della strada: piatta, noiosa e soporifera. Dopo qualche decina di km decido di deviare, non appena possibile, sulla Strada dei Re. Sia per vedere la parte che, la notte che arrivammo a Petra, era ormai avvolta dall’oscurità e sia perchè sicuramente la temperatura è più bassa. Ora però abbiamo di nuovo il problema della benzina. Ho ancora cento km di autonomia, ma avendo visto come funziona da queste parti, è meglio se mi attivo subito. I primi 50 km scorrono senza l’ombra di un’area di servizio. Finalmente vedo alcune persone ferme a bordo strada. “Scusate, sto cercando un’area di servizio, dove posso trovarla?” Ci pensano e si consultano, poi alla fine mi indicano: “Di là” - indicando di nuovo verso Wadi Rum - “è più vicina!” “Sì, ma io sto andando verso Amman!” “Aahh” - di nuovo consultazioni - “va bene, nessun problema, c’è anche in quella direzione, verso Amman!” “Sì, ma tra quanto?!” Nuovi scambi di opinioni, poi la sentenza: “20 km!” “Eh, chissà che credevo, ok, grazie!” Ripartiamo. I km passano: 20, 25, 30. Dopo 35 km mi fermo di nuovo. Stessa domanda. “É vicinissimo! Tra due km lo vedi sulla sinistra!” Riparto, ormai piuttosto preoccupato perchè stiamo per rimanere a piedi. 2, 3, 4 km. Dopo 5 km, nuova sosta. Mi fermo a fianco di un’auto con targa americana. Ha il cofano alzato, il motore fuma leggermente. “Cosa vi serve?”, ci chiede il guidatore dell’auto. “Stiamo cercando un benzinaio, lei sa dov’è?” “Sì, ma per sicurezza chiediamo dentro, è da tanto che manco”. Nei pochi passi che ci separano dal chiosco dove siamo diretti, mi racconta che lui è giordano, ma vive da molti anni negli Stati Uniti. É tornato per mostrare il suo Paese alla moglie, americana. Guardo nella macchina e vedo una donna seduta dentro, in attesa. “Ciao, il nostro amico sta cercando un benzinaio.” “É arrivato!” “Quanto manca?”, chiedo, iniziando a spazientirmi. Ci pensa su, poi esclama, deciso: “6 km!” “Abbiamo chiesto altre due volte finora: la prima volta 20 km, poi 2: ne abbiamo fatti 40 e ancora non l’abbiamo raggiunto!” “6 km, parola!”, ripete quasi offeso. “Ma 6 km di quelli standard, 6000 metri??” “Sì, non preoccuparti, dico la verità.” Speriamo ... Torno alla moto insieme al tipo, che mi rassicura: “Non preoccuparti, tra poco ripartiamo. Se vi troviamo fermi a bordo strada, vi carico e andiamo a prendere la benzina!” “Ok, grazie!”
Ci fermiamo a rinfrancarci in un piccolo bar con alcune sedie protette da un cannucciato. Ingurgitiamo senza neanche fare in tempo a sentire il sapore un paio di succhi di frutta. Dal terzo ricominciamo a ragionare.
Ripartiamo. Dopo qualche km dobbiamo deviare su una strada secondaria. Le salite e discese sono molto più accentuate, proviamo il brivido anche di fare qualche curva! Su una delle tante, lunghe e ripide salite, troviamo un camion fermo in mezzo alla strada. Metafora moderna delle antiche carovane, con gli animali vecchi e stanchi, lasciati a morire lungo le piste. Rientriamo in autostrada all’altezza del bivio in arrivo da Petra, da dove siamo scesi ieri. Proseguiamo ancora qualche km e lasciamo definitivamente l’autostrada. Torniamo sulla Strada dei Re, all’altezza di Tafilah. Appena usciamo, la strada si fa subito interessante: il panorama e i colori diventano più vari. Corriamo tra campi su dolci colline degradanti che si alternano fino all’orizzonte. Sembrano coltivate, con piante piccole e scure tutte a distanza simmetrica e regolare le une dalle altre, un lavoro certosino! Guardando con più attenzione, mi accorgo che le sfere scure sul terreno sono pietre laviche! Campi lavici immensi, a perdita d’occhio. Una maledizione del Signore, una punizione beffarda. Man mano che ci avviciniamo alla Strada dei Re, ricominciano a comparire degli alberi. Gli stessi tra i quali si nascondevano, poco meno di un secolo fa, i guerriglieri arabi duranti gli scontri con i turchi dell’esercito ottomano per prendere il controllo di queste zone e risalire verso Damasco, lottando per l’indipendenza della Grande Siria. Ammiriamo le splendide gole e le ampissime vallate della Strada dei Re che qualche giorno fa abbiamo percorso di notte, tra Tafilah e El Kerak. Attraversiamo anche qualche profumato bosco di pini, la temperatura è molto più fresca, piacevole. Arrivati in quest’ultima cittadina, decidiamo di fermarci nonostante il pomeriggio stia volgendo al termine, sono quasi le 18. Mi arrampico nel traffico caotico verso la punta dello sperone di roccia dove si erge il famoso castello. A pochi metri da questo, si apre una piccola area chiusa al traffico. Entro con la moto, ma mi insegue subito il tipo di un negozietto. “Dove andate?” “Al castello!” “Non si può entrare in moto!” “Parcheggio subito qui” “Ma dormite nell’albergo”, mi chiede indicandomi l’unico albergo, a pochi passi da noi. “Sì!” Tutto il dialogo si svolge a passo d’uomo nel giro di una decina di metri. Ancora qualche metro e parcheggio, proprio di fronte all’albergo. Ci raggiunge il tipo che inizia a chiacchierare. Da dove veniamo, dove siamo diretti, cosa abbiamo visitato fino ad oggi. “Volete dell’acqua?” La sua sollecitudine mi infastidisce, sono nervoso per una piccola discussione con Caterina, rispondo sgarbato. Il tipo per fortuna capisce e, senza dire una parola, torna al suo negozio e ci porta una bottiglia grande d’acqua. L’atmosfera si distende, la stanchezza è una cattiva consigliera. Decidiamo di visitare al volo il castello, poi proseguiamo per Madaba. Siamo gli ultimi ad entrare. Veniamo subito agganciati da una pseudo-guida che biascica tre parole d’inglese. Ma non ho voglia di discutere e ci aggreghiamo, in fondo riesce comunque a farci vedere le parti più spettacolari, compresi alcuni bei panorami che si intravedono dalle piccole feritoie tagliate nelle massicce pareti del castello. Per farci osservare uno di questi panorami, in una stanza piccola e buia, illuminata solo dai raggi che riescono a filtrare dalla stretta apertura nel muro, il tipo afferrare decisamente Caterina dal sedere e la issa. Lei si aggrappa al muro, con lui che continua a sostenerla con entrambe le mani sulle natiche, poi: “Ok, ho visto, mettimi giù!”, gli ordina perentoria. Non fa una grinza mentre la accompagna nella discesa e, per mostrare la sua assoluta professionalità e noncuranza, invita anche me ad arrampicarmi. Mani sul sedere anche a me, occhiata alla città di sotto e alle campagne lontate, poi giù. Bene, proseguiamo la visita! Castello carino, ma niente di eccezionale. Alla fine del giro, un quarto d’ora in tutto, gli diamo due dinari e lo ringraziamo. Fuori, riprende la discussione sul come arrivare a Madaba. Io vorrei scendere al Mar Morto, non l’ho mai visto e sono curiosissimo. Caterina ha paura di scendere nuovamente nel caldo soffocante e vorrebbe andarci domani. Alla fine la convinco che domani chissà dove andremo e soprattutto sarà ugualmente caldo. Proseguiamo per il Mar Morto. La discesa è ripida e tortuosa, con l’asfalto malmesso e lavori occasionali che spargono terriccio e sassi sotto le ruote. Come ci aspettavamo, curva dopo curva il caldo aumenta. All’orizzonte vediamo la palla del sole. Possiamo quasi guardarla senza distogliere gli occhi, tanta è densa la cappa di foschia che lo avvolge, dovuta al calore. Sembra di scendere in una fornace, il caldo attanaglia di nuovo i polmoni. Scendiamo di molte centinaia di metri, dall’alto della Strada dei Re ai meno 400 metri della depressione più profonda della Terra! La strada è molto ripida e tortuosa, sono costretto ad usare le prime marce, spesso addirittura la prima e di preferenza il freno posteriore, vista la sporcizia e la scarsa aderenza dell’asfalto. Nell’ennesimo tornante, con orrore sento il pedale del freno posteriore affondare fino in fondo senza offrire la minima resistenza, la punta della scarpa tocca quasi l’asfalto. Per non andare fuori strada uso di più, con molta cautela, il potente freno anteriore. Per fortuna accade in una delle ultime curve, ma vengo preso dal panico che si sia rotto il freno posteriore, magari si è crepato il tubo dell’olio e l’ho perso tutto. Mi vedo già a cercare vanamente un’officina: senza freno posteriore, soprattutto su strade del genere, è pericolosissimo procedere, non si può usare solo il freno anteriore, con il rischio costante di bloccare la fondamentale ruota anteriore! Appena percorro l’ultimo tornante, la strada come un nastro dispettoso si distende in una riga perfetta che punta alla riva del Mar Morto. Mi fermo e, senza dir nulla a Caterina per non farla preoccupare inutilmente, faccio un giro intorno alla moto e mi chino a guardare il freno. Sembra tutto ok. Ripartiamo, provo a frenare, ma di nuovo la sensazione orribile dell’affondare a fondo corsa senza rallentare. Proseguo senza sforzarlo ulteriormente, dopo qualche minuto riprovo. Per fortuna sembra andare meglio, sento una leggera resistenza e azione frenante verso il fondo. Forse si era solo surriscaldato. Mi rilasso e riprendo a concentrarmi sul paesaggio. Attraversiamo un paesino desolato e vagamente angosciante, poi siamo sulla costiera del Mar Morto. Il paesaggio è irreale, per certi versi inquietante. La costa sinuosa si dilegua e sfuma, all’orizzonte, nella foschia dell’afa. Tutto è ovattato da una luce lattiginosa. Il caldo è intenso, il sole si riflette nello specchio d’acqua evanescente. L’Inferno, se esiste, lo immagino così. Eppure è affascinante, toglie il fiato e la parola. Danziamo tra le curve rapiti da questo paesaggio primordiale. Forse somiglia a com’era la Terra nella prima fase dell’esistenza, agli inizi della vita. Non c’è un alito di vita, nè un cespuglio nè altro. Mar Morto di nome e di fatto. La costa opposta, quella di Israele, si intravede appena nella foschia. É bellissimo e per fortuna anche Caterina, nonostante il caldo, è contenta che siamo scesi sin qui. Ho troppa voglia di fare il bagno, non appena vedo, dall’alto, una coppia sulla riva, mi fermo. Parcheggio la moto in uno slargo, vicino alla macchina delle persone sotto. A fianco c’è un’altra macchina di ragazzi. Ci salutano, allegri, urlano e ridono tra loro. “Ciao! Da dove possiamo scendere?”, gli chiedo, visto che l’acqua è molti metri più in basso e lo spazio tra la strada e l’acqua è ripido e pieno di rocce. “Di qua, venite!” e iniziano a farci strada. In breve ci ritroviamo in mezzo al gruppetto di quattro ragazzi che, saltellando, saltando e calandosi dai massi, ci porta fin sulla riva. Andiamo dalle due persone viste dall’alto. É una coppia di spagnoli. Anche loro hanno visto la piazzola, si son fermati e sono scesi a fare il bagno. Vicino alla riva si vede la crosta di sale spezzata: è spessa molti centimetri e ovunque si vedono agglomerati e accumuli di sale. Mi spoglio rimanendo in mutande e entro nell’acqua. É caldissima, i miei piedi affondano nei famosi fanghi del Mar Morto. La sensazione, non appena provo ad immergermi, è incredibile: non riesco ad affondare, nemmeno chiudendomi “a bomba”! Torno bambino e mi diverto a girarmi e rigirarmi, ad assumere le pose più strane senza poter affondare, anche non muovendo nemmeno un muscolo per tenermi a galla! A riva, Caterina vorrebbe immergersi, ma non osa spogliarsi davanti ai ragazzi che sono rimasti a chiacchierare e far casino. Due di loro si tolgono gli abiti e fanno il bagno per incoraggiarla. Torno a riva, chiacchiere e scherzi, poi decidono di andarsene. Non appena girano le spalle e iniziano a zompettare per tornare in alto, sulla strada, Caterina inizia a spogliarsi. Quando la vedono, dall’alto, scherzano ancora ridendo. Ci salutiamo, li ringraziamo. Finalmente rimaniamo in quattro: noi e gli spagnoli. Ci raccontiamo i nostri viaggi mentre nuotiamo o, meglio, ci spostiamo nell’acqua. Sarà il caldo o la composizione dell’acqua, fatto sta che mi sento come quando si sparge il sale sulle melanzane durante la preparazione della parmigiana: inizio letteralmente a buttar fuori acqua, dalla fronte, dal petto, da tutto il corpo sudo copiosamente. La sete aumenta in proporzione. Il sole tramonta, la luce e l’atmosfera, nei colori violetti e arancioni del crepuscolo diventa ancora più irreale. Poi ho un flash: prima, quando ho parcheggiato, non pensavo che saremmo scesi e ci saremmo fermati così a lungo. Nella borsa da serbatoio, a portata di chiunque semplicemente aprendo una zip, ho tutto: telefono, passaporto, soldi, documenti, macchine fotografiche. Tutto. Mi spavento: “Caterina, abbiamo lasciato tutti i documenti, i soldi, tutto sulla moto! Basta che uno apra la zip e prende tutto!” “Ok, risaliamo di corsa, tanto ormai ancora cinque minuti e non vediamo più nulla”. Usciamo e, massimo del fastidio e del disagio, non ho altro modo di togliermi l’acqua di dosso se non cercando di asciugarmi con gli stessi pantaloni che poi indosso. Pantaloni che, tra l’altro, non lavo dal giorno della partenza. Ho le mutande e i pantaloni bagnati, sulla pelle un solido strato di sale. Indosso i calzini sui piedi infangati che non ho modo di pulire. Infilo a fatica le scarpe, alla fine sono pronto e comincio a correre, per quanto possibile, verso la moto. Mi arrampico, scivolo sulle pietre che rotolano verso il basso, mi aggrappo ai massi e mi tiro su. Finalmente arrivo sulla strada, poco lontano dalla piazzola dove abbiamo parcheggiato. Corro ansioso, apro la borsa e controllo: c’è tutto!! “Tutto ok, c’è tutto!”, urlo dall’alto a Caterina, che sta ancora arrampicandosi con i due spagnoli. Ci salutiamo accanto alla moto: “Dove siete diretti?”, gli chiediamo. “Non so, dipende quando ci stanchiamo, vorremmo arrivare a Petra”. “Ok, buon viaggio!” Ci mettiamo in moto, penso divertito al fatto che normalmente mi dà fastidio il sale asciugato addosso del Mar Mediterraneo. Ora mi sono addirittura asciugato con i vestiti che ho addosso, bagnato di un’acqua dieci volte più salata! Imbocchiamo una strada appena segnata dalla cartina. Per fortuna è stata riasfaltata e, immagino, allargata di recente. Tornanti ripidi in salita, in breve ammiriamo il Mar Morto dall’alto, con bagliori rossastri e violetti all’orizzonte e la linea di luci, fitta, del lato israeliano. Ci fermiamo in una curva, cerchiamo di indovinare Gerusalemme. La costa giordana, invece, è completamente buia, disabitata. La strada deve essere bella, ma non si vede granchè nella notte, a parte un magnifico cielo stellato e le sagome degli alberi, che diventano più fitte via via che continuiamo a salire. Finalmente arriviamo a Madaba. Decidiamo di tentare subito con l’albergo Marian trovato sulla guida di Federico. C’era scritto che è carino e, soprattutto, ha la piscina. Mi fermo appena vedo un passante. “Mi scusi, sa dove si trova l’hotel Marian?”, gli chiedo nel mio inglese canonico. Per tutta risposta, inizia a parlarmi in arabo stretto e a gesticolare. Vede il mio sguardo smarrito e, dopo un po’, il mio sorriso ironico e, a gesti, mi chiede un pezzo di carta e una penna. “Ecco, tieni!” Disegna rapidamente le traverse, un paio di rotonde ed alcuni semafori. In pochi secondi, ho una fantastica cartina di Madaba! E anche assai precisa, perchè senza esitazioni, tranne sull’ultimo bivio, arriviamo in un baleno al Marian. Carino, riusciamo a contrattare poco perchè è quasi pieno: 35 dinari con colazione. Fermiamo una camera anche per Federico e Melania, doccia e cambio abiti obbligatori e usciamo a cercare da mangiare. “Sa indicarci un buon kebab?”, chiediamo alla reception. “Vicino alla chiesa del mosaico!”, risponde iniziando a spiegarci la strada. Usciamo, Caterina indossa il casco, io mi pento di non averlo portato perchè ... fa freddo! Troviamo il posto, purtroppo chiuso. Siamo a pezzi, cerchiamo il posto che ci ispira più fiducia. Alla fine ci fermiamo ad un kebab take-away con alcuni tavolini all’esterno. Crolliamo su una sedia e ordiniamo. Non facciamo in tempo ad iniziare a mangiare che arrivano due tipi sui 40 anni. Sono completamente ubriachi, biascicano col tipico tono alto di voce, poi uno crolla sul tavolo, mentre l’altro prova a ordinare. Il ragazzo prende l’ordinazione, impassibile. Da alcuni frammenti di conversazione capisco che sono francesi. Bello spettacolo, complimenti! Il kebab, per giunta, è pessimo: scarso e secco, si blocca in gola. Ci rimettiamo in moto, insoddisfatti. Senza un vero motivo, Caterina indica un altro posto. Sembra una tavola calda, piuttosto squallida. Lungo bancone, poi un pentolone lurido dove friggono alla velocità della luce palline di qualche impasto, forse felafel. Altri due preparano, alla stessa velocità, dei piccoli panini tondi non lievitati: li aprono, li riempono con due felafel poi passano alle salse, insalata e quello che vuoi tu. Chiedo di aggiungere qualche patatina fritta e salsa piccante. Buonissimo! E anche incredibilmente economico, evidentemente abbiamo beccato un posto non turistico. Torniamo soddisfatti in albergo, dove troviamo anche Federico e Melania. Proviamo a fare un programma per i prossimi giorni. Noi vorremmo tornare in Siria ed andare al Crac dei Cavalieri. Iniziamo a snocciolare città grandi e piccole di Siria e Giordania: Hama, Palmira, Damasco. Alla fine, a conti fatti, dovremmo rivederci tra alcuni giorni ad Aleppo. “Ok, buonanotte e arrivederci ad Aleppo!” Crolliamo a letto, esausti. |
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