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Giornate: 10/08/2010 - “Relax a Madaba”
Ci salutiamo coi nostri amici che vogliono fare un lungo giro nei dintorni, Nebo, battesimo di Cristo, Betania e altro. Forse ci incontreremo nel tardo pomeriggio sul Mar Morto, per un altro bagno, ma stavolta meglio organizzato, con asciugamani e acqua dolce per togliersi il sale di dosso. Facciamo una breve passeggiata lungo la strada principale, negozi abbastanza anonimi, molti di abbigliamento, quasi tutti da donna. Come in Italia! Non c’è molto da fare e, anzi, l’idea è quella di riposarsi, quindi decidiamo di sfruttare in pieno la piscina dell’albergo. Torniamo in stanza per cambiarci, poi subito a bordo vasca! Oziamo sulle sdraio, provando a pianificare i prossimi giorni. Purtroppo non riusciamo a convergere, ci lasciamo attrarre da tutto e niente, non riusciamo a decidere. Nel primo pomeriggio ci accordiamo via sms con Federico e Melania: ci vediamo alle 18 all’incrocio tra la strada che arriva dal monte Nebo e la costiera del Mar Morto. Proseguono l’ozio, le letture, i bagni, i sonnellini, sebbene siano funestati da un gruppo di ragazzi libanesi molto rumorosi e molesti nei loro schizzi e scherzi che coinvolgono, volenti o nolenti, tutte le persone attorno alla piscina. Riproviamo a decidere per i prossimi giorni. Arriviamo ad un accordo che prevede: Crac dei Cavalieri domani e Palmira dopodomani. Poi, si vedrà. É già qualcosa! Alle 17 ci attiviamo e partiamo per il Mar Morto. All’inizio della strada che porta al Monte Nebo, superiamo un gruppone di moto italiane, una ventina, che aspettano forse qualche ritardatario. Hanno addirittura la scorta della polizia, con una volante che apre il gruppo e una in coda. “Si può proseguire?”, chiedo ad una delle moto ferme in mezzo alla strada. “Sì, sì!”, mi risponde il tipo un po’ sorpreso dell’incontro. Li supero e iniziamo la discesa verso il Mar Morto. Stavolta la strada ha degli orizzonti più ampi e, come le altre strade fatte finora, è molto ripida e sporca. Vengo raggiunto dall’avanguardia del gruppo e, come purtroppo accade spesso, c’è una scarsa tolleranza agli elementi esterni. Ci sono quelli che mi superano agevolmente e quelli che, pur di restare attaccati ai primi, prendono rischi per sè e per gli altri. Finalmente la prima parte passa e sembra che la seconda parte del gruppo sia abbastanza lontana da godermi la discesa.
Arrivo sul Mar Morto senza essermi molto goduto la discesa. Mi accorgo solo in quel momento che ho perso un bivio. Siamo molto più a nord del punto concordato con Federico e Melania. Parto a razzo sulla costiera del Mar Morto e, in pochi minuti, li raggiungiamo.
Torniamo alle moto che quasi non ci si vede più. All’improvviso arriva una camionetta militare. Si affaccia un tipo da sopra una torretta, ci illumina con un potente faro direzionale: “Problem! Swim? Problem!”, esclamano in tono deciso. Facciamo finta di non capire quello che ormai è diventato chiaro: siamo in una zona militare ed è vietato fare il bagno. I militari indicano un piccolo promontorio coperto di alberi a pochi metri da noi e capiamo che si tratta di una caserma. Tra tanti posti selvaggi e senza nessuno, proprio in bocca ai militari dovevamo metterci! Facciamo finta di non capire e continuiamo a ripetere, sorriso sulle labbra: “Swim, swim! Tourist! Italian tourist!” Ci pensano su, poi esclamano: “Welcome to Jordan!” “Thank you, thank you!” Poi smettono di sorridere e, rivolti a Federico, impongono, decisi: “Five minutes, GO!” “Yes, ok, we go!”, rispondiamo nello stesso inglese approssimativo, per farci capire. Ci laviamo con la tanica portata da Federico, con calma, apprezzando gli ultimi raggi di sole sul Mar Morto, con il panorama della costa di Israele che lentamente inizia a illuminarsi nella notte. Dopo un quarto d’ora abbondante tornano i militari. Sono sorpresi di trovarci ancora qui e noi siamo sorpresi che siano tornati! “We go, we go, finish!” Stavolta non se ne vanno. Ci illuminano a giorno con il solito faro, finiamo di rivestirci e ripartiamo. La camionetta ci segue come un cane da pastore fuori dalla piazzola e lungo i primi metri della strada costiera.
Ceniamo nella stessa tavola calda / rosticceria di ieri sera, piace molto anche a Federico e Melania. Ci diamo appuntamento per domani mattina per la colazione alle 8:15. Quando torniamo in albergo incrociamo anche Stefano, arrivato con Maria Laura nel tardo pomeriggio. Andiamo a dormire a mezzanotte e mezzo. 11/08/2010 - “Di nuovo nella fornace siriana”
Mi cambio di corsa e mi getto in acqua, mentre Caterina stringe amicizia con la padrona che per tanti anni ha vissuto in Giamaica ed ora era tornata nel suo paese natale, in preda alla nostalgia. Non abbiamo contanti e non prendono la carta di credito. Non dico nulla per non far preoccupare il personale dell’albergo. Ceniamo a bordo piscina. Quando il sole scompare, l’aria diventa frizzante, quasi freddo! Ordiniamo un po’ di antipasti tipici, pollo e patatine, acqua. Visto che non abbiamo soldi, chiedo al cameriere: “Mi scusi, potrebbe mettere la cena sul conto della camera?” “No, non è possibile, non si può!”, replica secco il tipo. “Bè, sa, non so come fare... non ho soldi!!” “Ahh... quand’è così, va bene, pagherà domani!” Non so come, ma almeno ho rimandato il problema. Stranamente non mi chiede il numero della camera, ma non credo sia un problema, l’albergo è quasi vuoto. Prima di salire in camera, mi informo alla reception: “Scusi, dove si trova la banca più vicina dove poter prelevare?” “A 15 km!” Sono stanco morto, ma Caterina pensa bene di accendere la televisione (!!) per guardare una soap opera siriana tremenda! Finalmente ci addormentiamo alle 22. 12/08/2010 - “Nella patria di Zenobia”
Lungo corridoio coperto, lastricato - come il resto del castello - da grandi pietre. Tutto sembra soffrire di gigantismo: soffitto altissimo, corridoio largo per far passare uomini e animali, poi, più su, ambienti immensi che un tempo ospitavano la mensa, le stalle, la chiesa, la sala delle riunioni e così via. Arriva un gruppo di ragazzi siriani in gita, si divertono come matti e per tutto il castello risuonano le loro voci e risate. Mentre usciamo dall’ennesima sala, incosapevolmente finiamo in mezzo a loro, mentre si stanno fotografando l’un l’altro a raffica. Subito chiedono a Caterina se possono fare una foto con lei. Nuove fotografie, poi chiedono anche a me di unirmi al gruppo. Veniamo abbracciati e avvolti come se fossimo dei divi del cinema, decine di scatti con macchine fotografiche e cellulari, poi ci ringraziano e proseguono. Il castello, ma sarebbe meglio dire, tutti i castelli, non mi emoziona particolarmente, li trovo massicci monumenti alla guerra che non mi trasmettono nulla, a parte poche eccezioni, come il Neuschwanstein bavarese che, più che un castello, è il parto di una fantasia sfrenata. Ci arrampichiamo su un tetto da cui si gode una bella vista sulle colline circostanti, poi ci infiliamo in un sotterraneo dove incontriamo altri italiani che viaggiano da soli. Breve giro della seconda cinta di mura interne, poi ci stufiamo e risaliamo in moto. Provo a fare una strada alternativa per arrivare a Hama, ma mi perdo inesorabilmente nelle dolci colline che si stendono a nord del Crac, verso Masyaf. Attraversiamo grandi meleti e altre coltivazioni, viaggiamo su basse colline parzialmente boscose. Con stupore, vediamo molte chiese e cimiteri con le croci. Scopriamo così che questa è una zona cristiana al 90%, incredibile eredità delle crociate combattute secoli fa. Quando la strada diventa tremendamente stretta, inizio a chiedermi sul serio dove ci troviamo e se mai arriveremo ad Hama. Per fortuna incrociamo una macchina - non ne vediamo da un po’ - e, per fortuna ancora maggiore, il ragazzo che guida parla perfettamente inglese. Dalla inflessione tedesca, capiamo che è andato a vivere e lavorare in Germania, è qui per visitare la famiglia. “Sì, di qua va bene, ma come ci siete finiti su questa strada??”, ci chiede stupefatto. “Volevamo fare una strada alternativa per ammirare con calma i paesaggi di questa zona, è molto bella!” “Ok, proseguite fino a quando non incrociate una strada più grande, girate a destra, poi...” e prosegue con una lunga serie di indicazioni che memorizziamo come possiamo. Ad un incrocio in mezzo a fitti meleti, chiediamo nuovamente informazioni. Stavolta è un siriano che vive tra New York e il Canada. Viaggia su un grande SUV e sta mostrando alla moglie, bionda molto americana, i luoghi della sua infanzia.
Arriviamo in centro ed iniziamo a vedere le ruote partendo da quelle più lontane e grandi. Sono incredibili, strutture complesse interamente in legno che si muovono lentamente sotto la spinta dell’acqua tra bassi cigolii di legno e antichità. Il fiume si allarga in un grande specchio d’acqua delimitato da chiuse e argini. Ai lati, alcune ruote, tutte frequentate da ragazzi che si aggrappano alle pale, usandole come ascensore per farsi portare in alto, per poi tuffarsi dal punto più alto. Ci godiamo la scena di quotidiano divertimento e rinfresco dei ragazzi, poi andiamo nella zona più vecchia della città. Per andare sotto un’altra ruota, dobbiamo entrare da una bassa porta in pietra e calarci da un alto muretto scivoloso di alghe e acqua. Ci sono molti più ragazzi. Uno, avrà al massimo 12 anni, è particolarmente coraggioso. Quando ci vede armati di macchine fotografiche si esibisce in salti sempre più spettacolari e spericolati. La ruota è altissima. Nuota a pochi centimetri contro corrente, afferra una pala, poi appena la ruota lo porta fuori dall’acqua, guadagna l’appoggio di un piede e sale così fino al punto più alto. Poi, il salto nel vuoto e l’impatto con l’acqua, molti metri più in basso. Si diverte e noi con lui. Ormai è vero e proprio show, fanno a gara per impressionarci, poi vengono a chiederci, a gesti, chi c’è piaciuto di più. Ad un certo punto quello più adulto mi tocca sul braccio indicando un ponte. A gesti, mi spiega: “Guarda che tuffo che faccio!” Dalla parte dove ci troviamo, a pelo dell’acqua, si arrampica su un pilonte del ponte. Ci saluta, poi ci volge la spalle. Un attimo di concentrazione, poi si esibisce in un salto mortale rovesciato. Applausi e nuotata fino da noi, nel divertimento generale. Altra esibizione, stavolta in coppia. Lui, il tuffatore, si mette in piedi sul bordo dell’acqua. Il ragazzino spericolato si arrampica sulle sue spalle e si tuffa con una capriola. Proseguirebbero per ore e noi con loro, anzi, mi sta venendo una gran voglia di tuffarmi, ma vorremmo arrivare a Palmira e - alle 13 passate - siamo ancora qui.
Uscendo ringraziamo il cameriere che, a gesti, ci chiede se vogliamo dell’uva. É palesemente acerba e decliniamo l’offerta, ma lui insiste mentre si arrampica su una sedia armato di coltello. Stacca un grappolo enorme, poi ci regala una bottiglia d’acqua ed una piccola scatola di fazzoletti, di cui qui vanno matti, si trovano ovunque, copie in miniatura dei Kleenex che si trovano in Italia. Grazie, amico! Infiliamo tutto nel baule posteriore, che ormai, da vuoto che era, è diventato pieno quasi al limite. Si parte, puntiamo fuori città, direzione sud, verso Hims. La strada ed il paesaggio tornano ad essere noiosissimi, piatti e scialbi, deturpati di tanto in tanto da un impianto industriale. A Hims, immaginando la carenza di benzinai verso Palmira, mi ostino a cercare un benzinaio, perdendo una mezz’ora buona. Finalmente, dopo aver chiesto a due poliziotti diversi e un altro paio di persone lungo la strada, ne troviamo uno, in un quartiere periferico della città. Ora possiamo iniziare la trasferta desertica verso Palmira! Appena fuori da Hims, la strada inizia ad inerpicarsi, lentamente ma inesorabilmente. Man mano che l’altitudine aumenta, si vedono anche sempre più alberi ai lati della strada, fino a trasformarsi, dopo qualche km, in una vera e propria pineta. Il caldo molla la presa, la temperatura è piacevole. Poi, progressivamente come era arrivata, la pineta cede il passo a squarci desertici sempre più ampi, fino a lasciarci nudi in una classica piana desertica. Il caldo, nemmeno a dirlo, è tornato a farla da padrone. Per fortuna è pomeriggio inoltrato e non opprime particolarmente.
Caterina scende ad esplorarne uno. Si è appena avviata che, all’orizzonte, vedo comparire due figurelle che, passo dopo passo, si trasformano in due bambine. Una tiene in mano una grande bottiglia di plastica piena d’acqua. Quando arrivano a pochi passi da me, si fermano ed iniziano a squadrarmi da capo a piedi. Poi, prevedibilmente (da anni non mi stupisco più di quest’espressione uguale in molti Paesi del mondo, lontani anche migliaia di km), mi chiedono: “Bakshish? Bon-bon?” Scuoto la testa, poi replico: “Aspettate, mia moglie ha tutto!” Tutti e tre osserviamo il lento ritorno di Caterina, che quando arriva non può far altro che allargare le braccia: “Mi spiace, nessun bon-bon!”
Ad un certo punto dal nulla sorge una distesa di carri armati, centinaia e centinaia, stretti in lunghe file simmetriche. Poi, di nuovo il nulla. Il tramonto ci coglie a pochi km da Palmira, ammiriamo commossi nel silenzio la palla infuocata arancione che scende dietro le basse colline all’orizzonte. Finalmente Palmira. Punto immediatamente al castello in cima alla rocca. Dal basso vediamo decine e decine di persone, sembrano formiche aggrappate ad un pezzo di formaggio. Saliamo e ci uniamo, formiche tra le formiche. Le rovine romane, più in basso, sono tinte del delicato rosa crepuscolare, mentre dalla parte opposta della rocca, il sole manda gli ultimi bagliori violetti. La parte moderna si illumina di luci che spiccano sempre più fitte. Si alza la voce dei muezzin. Palmira! Stiamo morendo di sete, il ramadan ci stronca. I negozi dovrebbero essere aperti, ma essendo appena finita la giornata di digiuno, troviamo solo serrande alzate a metà e negozi chiusi. Ci sediamo affranti sul marciapiede davanti all’ennesimo alimentari chiuso, quando arriva un tipo in moto. É un croato: “Vi serve aiuto?” “No, siamo appena arrivati, stiamo cercando prima di tutto da bere, poi dobbiamo trovare da dormire.” “Mmhh”, dice pensieroso mentre scende e apre il bauletto, “intanto prendete questa!”, esclama porgendoci una fantastica, fresca e stillante gocce di umidità condensata, bottiglia d’acqua da due litri. Ci attacchiamo da assetati quali siamo, mentre prosegue: “Poi se volete potete venire nell’albergo dove sto io: non è male e costa pochissimo, soprattutto in confronto agli altri hotel della città: su per giù 1000 lire siriane.” Meglio di così non si può! Risaliamo in sella e nel giro di 500 metri ci fermiamo di fronte ad una bassa costruzione con l’insegna “Caracalla Hotel”. Buttiamo un occhio dentro la stanza che sembra decente, ok, presa!
Sentiamo bussare alla porta. Apro, è il portiere. Mi frega la sua aria naive, la sua faccia larga e bonaria: “Domani mattina a che ora volete la colazione?” “Non so, facciamo alle nove!” “E cosa prendete?” “Tè, pane e marmellata”, rispondo per non rischiare piatti elaborati dall’origine ignota. “Volete un succo di frutta? É fresco, buonissimo!” Mi lascio convincere e lo seguo in cucina. É un locale minuscolo e piuttosto sporco, con le 4 pareti coperte di scaffali da terra fino al soffitto. I piani di lavoro sono coperti di utensili, scatole aperte, piatti, lattine, bicchieri. Apre un basso frigorifero, sporco anche quello e tira fuori una bottiglia di vetro senza etichetta. “Succo di gelso, buonissimo!”, esclama aprendosi in un sorriso contagioso. Mentre ringrazio, penso mentalmente “O la va, o la spacca, speriamo non mi venga nulla!” e torno in camera da Caterina che sta imprecando in bagno cercando di far uscire l’acqua del lavandino. “Tieni, ce l’ha offerto il portiere!”, le dico allungandole il bicchiere. Inizia a squadrare il bicchiere non proprio pulito e il succo contenuto. “Da dove arriva?” “Dalla cucina!” “Sì, grazie... da dove l’ha preso?” “Da una bottiglia!” “Chiusa?” “No...” Annusa il liquido, lo guarda in trasparenza e me lo restituisce. “Non mi va!”, sentenzia. “Ormai sono compromesso, uno o due è uguale!”, penso mentre trangugio il secondo bicchiere. Siamo quasi pronti per andare a cena, quando parte di nuovo il muezzin. Lunghissimo. Più il luogo è remoto e più le manifestazioni religiose sono estreme o semplicemente più fedeli alla tradizione. Fatto sta che dura più di un quarto d’ora. Entrambi pensiamo a quello che inizia prima dell’alba, intorno alle 4 del mattino! Scendiamo, non prendiamo nemmeno i caschi, liberi coi capelli al vento nella calda sera di Palmira.
Le rovine sono aperte, incredibile! Può entrare chiunque a qualunque ora, fantastico! Ci regaliamo un giro sulla strada che si snoda all’interno delle rovine, fin quasi sotto il cardo maximo e all’antico arco di ingresso. Poco dopo l’ingresso - a pochi metri dalle rovine - vediamo sulla destra l’hotel Zenobia con ristorante annesso. Decidiamo di regalarci una cena in questo posto di lusso. Ceniamo all’interno perchè un vento caldo e potente, che arriva dalle profondità del deserto, spazza la città con violenza. Ci mettiamo dietro un’ampia vetrata che offre un panorama magnifico sulle rovine illuminate, mentre la struttura cigola e trema sotto le raffiche di vento. Finiamo di mangiare, nuovo breve giro tra le rovine, poi torniamo nella topaia. Tiriamo fuori i sacchi lenzuolo, li stendiamo sopra il letto e ci infiliamo a dormire. É da poco passata la mezzanotte. 13/08/2010 - “A caccia di Sergiopolis”
Lo scenario è emozionante: così grandioso e monumentale, quasi sfacciato pur essendo, o forse, proprio perchè disperso nel deserto. Vado col pensiero al passato, quando le distanze si coprivano più lentamente e provo ad immaginare l’effetto che potevano fare gli alti colonnati, i templi, lo stadio, le statue, la finezza dei fregi e tutte le altre meraviglie su chi arrivava da giorni di pista carovaniera nel nulla più assoluto. Passeggiamo in mezzo al colonnato, di fronte alla lontana collina con in cima il castello dal quale ieri sera abbiamo ammirato il tramonto. Sulla destra, verdeggia ampio e scuro, rispetto al chiarore che ci abbaglia tutt’intorno, il palmeto per il quale Palmira è famosa da secoli.
Proseguo verso le estremità delle rovine, ammaliato dal fascino che ancora emanano le opere che mi circondano da ogni lato. Avverto potente la sensazione quasi fisica del Tempo che scorre ed è fin troppo facile e deprimente il confronto tra l’antica grandiosità e la moderna meschinità e mancanza di senso del bello. Oggi esprimiamo la potenza e la ricchezza in opere come la città di New York, ma non c’è l’arte, il lavoro manuale di cesellatura, scolpitura, rifinitura che troviamo in luoghi come questo. In due ore di passeggiata facciamo fuori 4 litri d’acqua ed un ananas che sparisce in un istante. Raggiungo Caterina quando ormai anch’io ho la testa stretta da un forte mal di testa. Tra tutti e due, stiamo bene! Pensiamo con sconforto alle centinaia di km di deserto che ci aspettano prima di raggiungere il mitico fiume Eufrate, il cui solo nome mi fa vibrare di emozione. Prima di avviarci, visitiamo l’ultima parte, l’unica a pagamento, che racchiude un tempio ben conservato ed altre rovine. Ascoltiamo di straforo la spiegazione di una guida, il tempo di capire che ha molto senso seguirne una, ma ormai il caldo e l’idea del viaggio che ci aspetta stronca ogni velleità e torniamo alla moto. Partiamo intorno alle 12:30. Attraversiamo la Palmira moderna dei classici bassi ed anonimi caseggiati in cemento. Nella parte più periferica ci sono interi isolati di graziose case finite o in fase di ultimazione, ma è chiaro che non ci sta lavorando nessuno. Sono tutte disabitate. La crisi immobiliare ha colpito anche qui? La linea di confine tra le ultime case e il deserto è evidente. Tra le ultime costruzioni, per fortuna, c’è un benzinaio. Faccio il pieno e, in base ai calcoli fatti sulla cartina, dovrebbe bastarmi per coprire i km tra qui e l’Eufrate. Speriamo! La strada che si inoltra nel deserto è ben asfaltata. Per km siamo circondati da olivi ed altri alberi di un verde polveroso, quasi fiaccato dal gran caldo. Deserto pietroso e abbacinante. Dopo 70 km arriviamo al bivio che da un lato porta verso Est e l’Iraq; dall’altro, che imbocchiamo, verso Nord e la Turchia.
Beviamo e boccheggiamo per lunghi minuti all’ombra. Anche il ragazzo che gestisce il bar sembra soffrire il caldo come noi. Ci guarda dal suo giaciglio, fa la mossa di alzarsi per sentire cosa vogliamo, poi, dopo aver liberato dal lucchetto il frigorifero, torna pigramente a sdraiarsi. Ci rimettiamo in sella e ci aggiriamo per As Sukhnah, triste e desolata, a caccia del bivio giusto che porta a nord, verso Al Rasafa, il cui antico nome romano era Sergiopolis. Percorriamo una strada secondaria che secondo la cartina che seguo, dovrebbe durare pochi km, una cinquantina, e ricongiungersi alla principale che sale verso Nord. Invece, passano decine e decine di km senza l’ombra di un incrocio con altre strade. Invece di 50 ne facciamo 60, 70, 80, la preoccupazione inizia a salire, 90, 100, non incrociamo niente e nessuno a cui chiedere o poterci orientare, 110, 120 km. La moto ha ormai superato la metà dell’autonomia, questo è il mio pensiero fisso. Attraversiamo un paio di paesini fantasma, in uno di questi mi infilo nel cortile di quello che sembra un deposito di trattori. Mi attacco al clacson sperando che qualcuno senta e scenda a vedere chi è e mi rendo conto di essere finito in una installazione militare. Il militare conferma che siamo sulla strada giusta, ma continuo a non capire a che punto siamo. Se ancora dobbiamo arrivare al bivio con la strada principale, poi mancheranno ancora almeno altri 100 km e saremo fritti, senza benzina! Ogni tanto la strada si movimenta con qualche curva tra le dune, che però non sono sabbiose come nei deserti africani. Incredibilmente e inaspettatamente incrociamo due moto. Dal modello (BMW!) e dall’abbigliamento capisco al volo che sono italiani. Il primo sfreccia senza neanche rallentare nonostante i miei segnali. Il secondo per fortuna si ferma. Sarà il caldo o la fretta che mi mettono, fatto sta che non chiedo nulla di importante (quanti km mancano? avete della benzina da darci, dal vostro transatlantico alla nostra piccolina?) che già si dileguano con un: “Scusa eh! Ma dobbiamo andare che il nostro amico non si è fermato e magari si preoccupa se non ci vede arrivare.” Non è colpa mia se viaggiate con un pirla! La solidarietà, che parola vuota e lontana. Alcune lingue di sabbia si allungano fin sopra l’asfalto. Inizio ad essere seriamente preoccupato per la benzina, 130, 140 km. Finalmente arriviamo al bivio agognato. Se anche le altre distanze della cartina sono sbagliate come questa, siamo fregati.
“Quanti km mancano a Sergiopolis?” Confabulano tra loro, poi sentenziano: “15!” “E al prossimo benzinaio?”, rilancio. Nuovo consulto, poi: “35 km!” Mi sembra stranissimo, vorrebbe dire che la cartina è completamente sbagliata oltre che come distanze, anche come forma e direzione delle strade in questo pezzo di deserto. Poco prima di uscire dall’abitato incrociamo un passante. Stesse domande, risposte leggermente diverse: 10 km a Sergiopolis e 30 al benzinaio. Non mi fido e per sicurezza chiedo: “Ma per caso qualcuno in paese ha della benzina da vendere?” “Sì, prova laggiù” risponde indicando quella che sembra un’officina un centinaio di metri più avanti, sulla sinistra. Quando chiamo, escono dei ragazzini. Chiedo della benzina e tornano con un bottiglione da due litri, forse in antichità di Sprite o Coca Cola, piena di un liquido chiaro, giallo paglierino. Proviamo a scambiare delle chiacchiere, chiediamo se vanno a scuola, se studiano inglese. Capiscono abbastanza bene, ma non riescono a rispondere e ci accontentiamo di una lunga sfilza di “Yes!”.
Non mi fido a mettere il contenuto della bottiglia nel serbatoio, ma almeno so di averla. Se sarò in difficoltà, ci proverò. Nel frattempo proseguiamo così. Effettivamente e sorprendentemente, dopo una decina di km arriviamo a Rasafa. Tiro un grande, profondo sospiro di sollievo. Tutta l’ansia vissuta nelle ultime ore, tenuta ben nascosta a Caterina, si vaporizza nella constatazione che la cartina, pur essendo del 2010 e apparentemente accurata e ben fatta, in realtà, riporta sì i km corretti, ma è totalmente sbagliata come tracciato della strada che abbiamo appena fatto. E per chi, come me, si muove senza GPS, questo porta a non avere più punti di riferimento. Ancora ricordo quando, nel 2003 in Marocco, affrontai una pista nel deserto seguendo la bussola e la traccia, assolutamente precisa, di una cartina Michelin con una scala per nulla dettagliata! Riuscivo a capire che ero nella giusta direzione semplicemente verificando il leggero marrone che la cartina indicava per le alture con le montagne che effettivamente seguivo in lontananza. Le rovine di Sergiopolis sono racchiuse come in un catino da un giro di mura ben conservate. Parcheggio subito al lato della strada e ci arrampichiamo sul cumulo di terra che porta ad una breccia nel muro. Entriamo nelle rovine, che non sono scavate. Si susseguono per metri e metri dei cumuli di terra che sembrano scavati da immani talpe. Caterina non ha energia per muoversi sotto il sole ancora a picco, si ferma all’ombra delle mura. Torno alla moto a togliere dal baule il bottiglione di benzina e le poche provviste che ci sono rimaste. Mi aggiro tra le rovine non scavate. É un gran peccato perchè sembra stupendo, in ogni caso ho più forte la sensazione di esplorazione e scoperta. Arrivo, di dosso in dosso, alla grande e massiccia basilica, ovviamente priva del tetto. Percorro il perimetro delle mura. oltre a me, ci sono altri 4 o 5 sparuti turisti spagnoli.
Torno all’interno e raggiungo Caterina. Si è addormentata. Mi lascio cadere anch’io su un dosso, protetto dall’ombra. Bevo l’ultima acqua, ormai calda. Dopo una ventina di minuti mi riprendo, leggo gli appunti che avevo scritto prima della partenza e scopro così che alle spalle delle rovine dovrebbe trovarsi un bar. Forte di questo miraggio, sveglio Caterina e le propongo di spostarci in un posto più comodo e soprattutto a bere qualcosa di fresco. Riprendiamo la moto ed effettivamente notiamo, dopo pochi metri, un cartello che indica il bar e il parcheggio ufficiale del sito! Il bar si trova proprio alle spalle del sito, completamente invisibile per chi arriva dalla strada principale. Prima di iniziare a parlare, bevo d’un fiato due lattine di limonata e un litro d’acqua. Mi sento meglio, inizio a parlare con il gestore: “Molto bello qui!” “Sì, molto bello... Volete i biglietti?” “Biglietti?” “Sì, i biglietti per entrare?” “Entrare dove?”, insisto a chiedere, perchè non riesco a credere che chieda i biglietti quando le rovine hanno aperture da tutte le parti e basta arrampicarsi come abbiamo fatto noi per visitarle. “Dentro Sergiopolis, lì!” e indica un cancelletto che dà accesso alle rovine, “sono 75 lire a testa.” “Aaaaaahh! Le rovine! No, non abbiamo voglia, proseguiamo subito per Aleppo!”, rispondo distrattamente per non far capire che le abbiamo appena visitate ed evitare il biglietto. Un trucchetto da pochi euro, ma l’istinto è più forte di me! Ci riposiamo per due ore, dalle 15:30 alle 17:30, godendo dell’ombra e di altre bibite fresche di frigorifero, quasi un miraggio in questo caldo torrido. Quando pensiamo di aver ripreso sufficienti energie, ci rimettiamo in sella, per fortuna fresca o quanto meno non rovente, avendola lasciata all’ombra di un cannucciato. La strada si trasforma in pochi metri. Usciamo dal deserto puro e iniziamo a vedere gli effetti del vicino, mitico Eufrate. La vegetazione torna a farsi vedere e, km dopo km, diventa più frequente. Arriviamo a Mansoura, classica cittadina squallida e caotica. Pieno di benzina e poi via, verso Aleppo. La strada è perfetta e circondata da campi verdi e rigogliosi. Incredibile! Avevo dimenticato quanto fosse bella e consolante la vegetazione! Purtroppo il fiume è nascosto dalle abitazioni e dalle coltivazioni. Immagino anche che, soprattutto in questa stagione, non sia particolarmente abbondante, fatto sta che non vedo l’acqua nemmeno per un attimo, dell’Eufrate nemmeno l’ombra. La strada a 4 corsie punta decisa a Ovest. Il sole al tramonto è dritto nei miei occhi, accecante e tra attraversamenti a raso, carri, motorini, automobili, camioncini che procedono contromano lungo la corsia d’emergenza devo prestare la massima attenzione. Finalmente il sole perde di potenza e regala i colori avvolgenti e spettacolari del tramonto. Poco prima di Aleppo passiamo sotto un’inquietante e gigantesca fabbrica con cinque ciminiere di un nero velenoso. Entriamo ad Aleppo. É incredibilmente e innaturalmente deserta, poi capiamo che, essendo appena tramontato il sole, è finito il Ramadan e tutta la popolazione è a casa a rifocillarsi dopo una giornata di digiuno totale da cibi e, soprattutto con questo caldo, liquidi. Per un colpo di fortuna e seguendo l’intuito, con una cartina assolutamente poco precisa e alcune vaghe indicazioni del tipo “l’albergo si trova nella zona nord della città”, trovo a colpo sicuro quello che cerchiamo. Mentre Caterina entra a contrattare il prezzo, resto fuori e vedo il traffico riprendere e la vita fluire sempre più intensa. Anche la cena post Ramadan è terminata. Sentiamo Federico e Melania via sms, stanno arrivando. Gli indichiamo albergo e indirizzo. Arrivano proprio quando Caterina termina una lunga contrattazione all’ultimo euro con il titolare dell’albergo. Entriamo, ci accolgono con un succo di frutta di benvenuto seduti sulle tradizionali sedie di legno intarsiato con decorazioni in avorio. L’albergo è ricavato in una casa tradizionale dall’ampio patio e le stanze, su due piani, che si affacciano tutte sulla parte centrale. Andiamo a cena e passeggiamo nel quartiere. É moderno, ci sono una chiesa cristiana, caffè e locali dove si fuma la shisha, si chiacchiera e si ascolta musica. Finiamo in un buon ristorante semi-deserto dove, per una cena completa e ottima, paghiamo un’inezia. Torniamo quasi subito in albergo e ci addormentiamo subito, esausti dalla giornata. |
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