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Giornate: 14/08/2010 - “Ad Aleppo con Ahmed”
Usciti dal museo ci porta in un albergo dove conosce le persone della reception per farci salire sulla terrazza. Ammiriamo il panorama sulla città vecchia, anche se i tetti generalmente piatti e uniformi non sono spettacolari. La Cittadella ci osserva dalla cima di una piccola collina: quella è la nostra prossima meta! Torniamo in strada e ci incamminiamo tra vicoli affollatissimi verso la Cittadella. Siamo già stanchi, fiaccati dal caldo crescente, al contrario di Ahmed che è fresco e pimpante e ci ravviva con indovinelli, storielle, battute. É un mito! Affrontiamo la lunga rampa di ingresso alla Cittadella, superando il profondo fossato di protezione. Ahmed racconta la storia delle due sculture all’ingresso: “Vedete, quella di sinistra ride, per festeggiare il ritorno dopo una guerra vittoriosa e quella di destra piange, per accogliere dopo una sconfitta.”
Saliamo fino in cima e ancora più su, sulla terrazza che domina l’intera Aleppo. Ci sediamo ai tavolini e reintegriamo liquidi e energie. Ahmed resiste stoicamente e si sventola: per lui è periodo di Ramhadan e non può nè bere, nè mangiare e con questo caldo è un’autentica tortura. Tornando verso l’uscita ci fermiamo ad ammirare la grande sala del trono, con il soffitto magnificamente decorato di legno intagliato e dipinto. Riguadagniamo di nuovo l’esterno e ci immergiamo in un suq all’aperto: vicoli stretti e anneriti dal tempo, botteghe di fabbri, incisori del rame, artigiani del legno, un paio di negozi di souvenir e qualche alimentari, con la serranda a metà.
Riusciamo a superare il camion, ci fermiamo a bocca aperta ad ammirare artigiani di mestieri ormai spariti dalle nostre città, facciamo un giro in un negozio di souvenir per capire cosa si può comprare, ma non concludiamo nessun affare: la giornata è ancora agli inizi e dovremo camminare molto. Quando usciamo dal negozio, il camion che fino a pochi minuti fa era bloccato come una balena in un fiordo, è sparito! Entriamo nel suq vero e proprio, quello tradizionale coperto. É una città nella città che si snoda con gallerie, passaggi, porte, scale e giravolte che lo rendono l’ambientazione ideale per un romanzo d’avventura orientale. La volta delle gallerie è in pietra o mattoni e le parti più antiche sono riconoscibili dall’illuminazione, data da lampadari degni di un museo.
Ci immergiamo con gioia in questo fiume di vita, lasciandoci portare come foglie dalla corrente, seguendo l’istinto, l’ispirazione del momento, il caso. Ahmed cerca di riportarci all’ordine, prova a chiamarci decine di volte, echeggia la sua vocetta stridula elevandosi per un istante sopra il frastuono della folla, per poi soccombere nuovamente: “Frederico! Catarina!”, ripete in continuazione, sbagliando tutti i nomi metodicamente. Siamo attratti da tutto e da nulla. Quando prendo coscienza, mi concentro e scatto delle foto, ma la maggior parte del tempo bevo con gli occhi quante più immagini possibili, cerco di farmi permeare dall’atmosfera, dalla materializzazione dell’Oriente. Quando Ahmed riesce a riacciuffarci tutti, prova a seguire un itinerario, perchè in quello che sembra caos primigenio, pura entropia, in realtà ha una logica, delle suddivisioni, degli scopi in gran parte perduti nel tempo, ma ancora visibili. E così ci porta a vedere un ex caravanserraglio, oggi sommerso di scarpe da ginnastica di pessima qualità cinese; una ex medrasa, oggi degradata a magazzino buio e saturo di scatoloni fino in cima al soffitto. I due bagni turchi, invece, resistono al tempo e svolgono ancora la loro funzione originaria. Alla fine Ahmed riesce a portarci fuori, quasi espulsi dalla pressione delle persone strette nelle gallerie del suq. Vuole portarci ad una fabbrica di sapone: “É la nostra specialità da sempre, siamo famosi nel mondo!”, esclama orgoglioso prima di lanciarsi nella descrizione delle qualità di sapone di Aleppo e delle modalità di produzione. Entriamo in una delle poche fabbriche cittadine ancora in attività, almeno a suo dire. É mezza deserta, Ahmed grida più volte il nome della persona che cerca, prima che arrivi qualcuno a riceverci. Alla fine si capiscono e si accordano. Sarà un uomo piuttosto corpulento ad accompagnarci. Lui spiega ad Ahmed la funzione dei locali e dei macchinari e Ahmed ce li traduce in inglese.
Finito il tour, siamo tutti desiderosi di comprare delle saponette. Ne prendiamo due chili, della varietà invecchiata due anni e con una discreta percentuale di lauro (4 barrel). Paghiamo 300 lire siriane al chilo, vale a dire intorno ai 5 euro. “Dovete assolutamente visitare l’antico manicomio!”, continua a ripetere Ahmed da alcune ore.
“Quelle saponette costano 400 lire al chilo!” Siamo interdetti, ma non controbattiamo. Nel frattempo Ahmed inizia a parlare fitto con il tipo, sembra si stiano mettendo d’accordo. Non compriamo nulla e proseguiamo. Quando arriviamo al manicomio, lo troviamo chiuso. “Peccato, possiamo provare domani?”, gli chiediamo in coro. “Sì va bene, non vi faccio pagare, la considero come parte della guida di oggi.” “Mitico Ahmed!” Prima di salutarci, vogliamo farci indicare un albergo di lusso, ma inizia una sarabanda esilarante da togliere il fiato, con Ahmed che pronuncia Salahie in due modi assolutamente identici, ma affermando che si tratta di due nomi diversi: “Ma voi cercate l’albergo SalahIe o SalaHie?” Ce lo facciamo ripetere non meno di 20 volte, ridendo ogni volta di più. Probabilmente per un siriano era chiara la differenza, ma per le nostre orecchie si trattava dello stesso suono! Ci salutiamo con Ahmed dandoci appuntamento per domani alla stessa ora nel nostro albergo. Quasi subito passiamo di fronte ad un’altra fabbrica di sapone. Per curiosità entriamo per chiedere informazioni. Non parlano inglese e questo è un buon segno, significa che non hanno a che fare con i turisti come nel posto dove ci ha portato Ahmed. Tra una parola e un gesto, capiamo che la qualità del sapone che abbiamo comprato è piuttosto scadente, di lauro non ce n’è oppure ce n’è pochissimo e non è invecchiato due anni. “Vedi? C’è scritto qui!”, mi dice indicando il timbro impresso direttamente nel sapone, illeggibile e in caratteri arabi. “Questo noi lo vendiamo a 100 lire!” Colpo di scena! Studiamo se e come raccontare l’accaduto ad Ahmed, domani. Si sprecano anche le teorie se lui sia parte in causa del raggiro oppure se sia ignaro. Poi ripensiamo alla scenetta di poco fa, al negozio di sapone: prima il venditore ci dice un prezzo, poi Ahmed si precipita e un secondo dopo il prezzo triplica, poi la loro chiacchierata in arabo con sorrisi e stretta di mano finale. Accordi per il futuro?
Usciamo, ma saliamo subito sulla terrazza panoramica di un ristorante proprio di fronte alla moschea. Io inizio a mangiare sfacciatamente una pizzetta presa da un venditore ambulante lungo la strada, invece Melania prende un’insalata. Federico e Caterina, nulla. I camerieri ci guardano un po’ sorpresi, ma non fanno storie. Passeggiamo ancora un po’, prima di crollare esausti dalla fatica e dal caldo sulle poltroncine di un bar proprio di fronte alla Cittadella. Ci godiamo il tramonto e la luce che cambia, riflessa dalla pietra antica del monumento. Meraviglioso. Torniamo in albergo, poi usciamo, senza Federico e Melania, per andare a cena da Beit Wakil. Non male, in più assistiamo all’esibizione di un musicista con uno strumento musicale tradizionale simile al mandolino. Andiamo a dormire poco dopo mezzanotte. 15/08/2010 - “Sulle tracce dei Baroni”
“Questa era la zona dedicata alla terapia della luce!” Non sono un medico, ma l’idea di chiudere un malato psichiatrico in un loculo buio non mi sembra una idea geniale.
“Qui una volta”, ci spiega indicando delle canaline scavate nel pavimento di pietra, “scorreva dell’acqua in continuazione, giorno e notte ed il suono dell’acqua aiutava i malati”. Andiamo nell’ultima parte, quella per i malati in via di guarigione. Le stanze sono ampie e piene di luce grazie al soffitto della corte completamente traforato. “In più dall’alto arrivava della musica: luce e musica!” Rifletto che, paradossalmente, più i malati erano gravi e peggio li trattavano, chiudendoli in bugigattoli bui e isolati. Uscendo ripassiamo dal suq, dove Ahmed ci porta in un hamman storico che, al momento, di giorno è riservato alle donne e di notte agli uomini. Avendo letto nei giorni scorsi il bellissimo libro “I baroni di Aleppo”, voglio assolutamente vedere l’hotel Baron.
“Ma certo, nessun problema, andiamo!”, risponde con il suo solito entusiasmo. Tempo un minuto e siamo schiacciati, tutti e cinque, a bordo di un taxi.
Mentre salgo gli scalini del Baron vengo investito da tutto questo, ma soprattutto dall’amarezza per il tempo perduto notando la confusione e la sporcizia tutto intorno. Entriamo. Ahmed parla brevemente con la signora alla reception, le chiede di farci visitare la struttura. Ci affida ad un fattorino svogliato che apre le stanze più storiche: quella del presidente Nasser, Agatha Christie, Lawrence d’Arabia. Sia le stanze che la struttura sono spoglie, mi ricordano le vecchie scuole elementari pubbliche, con lunghi corridoi vuoti dalle pareti scrostate, tubi del riscaldamento a vista (all’epoca furono i primi riscaldamenti installati in un albergo dell’Impero Ottomano, per dare una misura del lusso che aveva), colori scialbi alle pareti, pavimenti nudi.
Torno alla carica con la signora: “Sa, ho letto un libro bellissimo su questo albergo, tutta la storia della famiglia Mazloumian dal suo arrivo in Siria fino alle ultime vicissitudini... potrei incontrare Armen, ci tengo moltissimo, sarebbe fantastico.” “Purtroppo Armen non c’è, è malato.” “Mi spiace molto... e il famoso libro delle firme, è visibile?” “No, è in cassaforte, non ho le chiavi.” Stronca così in un secondo i miei due desideri, il più importante dei quali era quello di incontrare l’ultimo erede della famiglia fondatrice dell’albergo, che ha navigato nelle tremende e tempestose acque della Storia, riuscendo a non affondare nonostante i durissimi attacchi fatti non molti anni fa a colpi di espropriazioni, gestioni controllate, sequestri, denunce e così via. Federico paga Ahmed, gli dà 60 euro per la giornata di ieri e la conclusione di oggi. “Ciao Ahmed, grazie di tutto, sei stato fantastico!” “Grazie a voi, poi passo in albergo per lasciarvi un cd di mio padre, che è stato un muezzin e cantante famosissimo di Aleppo!” “Mitico, grazie!”, rispondiamo in coro. Mentre andiamo via, rivolgo un ultimo sguardo al Baron, così diverso da tutto quello che lo circonda e cerca di sovrastare la sua sobrietà ed antica eleganza con colori sgargianti e scritte appariscenti.
Salta evidente agli occhi la differenza tra la ricchezza antica, in senso di varietà ed eleganza con la maggior monotonia dei temi decorativi islamici. Per quanto questi ultimi possano essere ricchi, elaborati e stupefacenti, si riducono sempre e solo a motivi geometrici. Torniamo al suq. Con Melania e Federico proviamo a girare insieme, ma è troppo difficile restare uniti e ci separiamo, dandoci appuntamento in albergo. Andiamo a caccia di oggetti da portare come souvenir, di qualsiasi tipo: orecchini, anelli, kefie, magliette, ciabatte, sapone e tutto quello che di tipico si produce qui da regalare ai nostri amici e parenti in Italia. Passeggiamo nuovamente nella parte storica del suq, una vera città nella città, dai corridoi stretti e alti, completamente in muratura, illuminati da lampadari elaborati ed eleganti. Incrociamo anche un contadino a bordo del suo asinello che si fa strada tra la gente a piedi. La mia mente parte subito, immaginando come dovesse essere nemmeno troppi anni fa, quando invece di furgoncini e motorette, il mezzo più usato era l’asino. Le botteghe turistiche le riconosci dai venditori, che ti agganciano metri prima e ti accompagnano metri dopo averle superate, offrendo tutto a prezzi stracciati. Li ignoriamo e proseguiamo, seguendo le nostre suggestioni e l’istinto. Ci ritroviamo così in una bottega minuscola, piena zeppa fino al soffitto, di kefie di ogni colore e fattura, dalla più economica e turistica, alla più elegante e di qualità. Aspettiamo che il signore prima di noi concluda il suo acquisto di una lunga kefia. Ci convinciamo di essere finiti nel posto giusto, quando scopriamo che non parla una parola di inglese e di nessun’altra lingua straniera. Finalmente un posto non turistico! Per capire meglio, va a chiamare un ragazzo dal negozio a fianco. Iniziamo la contrattazione per alcune kefie da regalare agli amici e per una rossa, molto bella e di buona fattura, per me.
Compriamo le kefie, lo salutiamo e torniamo nel flusso di gente, a caccia di un negozio di souvenir dove ci aveva portato ieri Ahmed, in una delle sue soste “concordate” con gli amici commercianti. Di buono, aveva molti oggetti belli e di buona fattura. Di contro, aveva prezzi alti. L’idea è di ritrovarlo per prendere spunti da acquistare altrove, oppure intavolare una bella contrattazione. Finalmente lo troviamo, ma giusto due vetrine prima c’è una gioielleria che attrae fatalmente Caterina. Si fa mostrare decine di orecchini prima di iniziare una lunga e serrata contrattazione con il proprietario, un giovane siriano che afferma di produrre parte degli orecchini che abbiamo visto, mentre gli altri li compra da altri artigiani fuori città. Alla fine la contrattazione si concentra su due paia di orecchini, tirando il prezzo fino all’ultima lira siriana. Il colpo di scena finale avviene quando Caterina, poco prima di pagare, si accorge che un orecchino è difettoso. Si riparte nella contrattazione, visto che lo sconto per le due coppie di orecchini non si può più fare comprando una sola coppia. Alla fine, tutti completamente esausti, si accordano e riguadagnamo l’uscita.
Purtroppo non trovo nulla e la giornata sta finendo. Passo davanti ad una bottega: “Salve, sa dove posso trovare un negozio di materassi?”, chiedo al signore all’interno. “No, non saprei”, risponde dopo qualche attimo di esitazione, “cosa ti serve?” “Mi serve un cuscino, viaggiamo in moto e mia moglie soffre per la sella troppo dura!” “Allora aspetta, provo a cercare qualcosa!”, esclama, mentre con un salto agile sale sul bancone, tira giù una scala nascosta e si infila nel soppalco della bottega, fino a un momento prima invisibile. Inizia a spostare scatoloni e altri oggetti finchè non trova un grande pezzo di sottile gommapiuma. “Può andar bene?”, mi chiede lanciandomela. “Sì, ma non saprei dove metterla! Se la arrotolo si disfa in un attimo.” “Ok, un attimo...”, risponde ributtandosi a capofitto nella soffitta. Dopo una breve ricerca, trova una specie di federa di cotone. “Perfetto!”, esclamo con gioia, “quanto ti devo?” “Ma niente, figurati...”, risponde liquidandomi con un sorriso. “Grazie!” Vogliamo tornare all’aria aperta. Nella luce del tardo pomeriggio facciamo il giro completo della Cittadella, per poi fermarci nuovamente nel bar di ieri. Purtroppo il bicchiera di menta e limone (succo di limone fresco e menta in foglie sminuzzate) è troppo aspro, quasi non si riesce a bere. Vorremmo chiederne uno nuovo, ma ancora una volta il Ramandan interrompe ogni attività e i due ragazzi del bar spariscono nel retro, finalmente a bere e mangiare.
Torniamo in albergo attratti fatalmente dal miraggio della piscina che, stando alla promessa della signora, dovrebbe essere funzionante e pronta ad accoglierci nelle sue acque.
Restiamo in acqua a lungo, ci concediamo anche il lusso di un cocktail portato rapidamente dal personale, sempre numerosissimo e attento a ogni nostra necessità, una sensazione nuova! La signora che gestisce la struttura ci spiega che noi siamo i primi clienti e che stanno riaprendo dopo tre anni (!) lavori. “Stasera a cena sarete nostri ospiti, la cena è offerta dall’albergo!” “Ottimo, grazie infinite!”
Scendiamo nella sala ristorante. Il servizio è quasi imbarazzante, siamo letteralmente attorniati da camerieri che osservano ogni nostro gesto, pronti a chiedere se manca qualcosa, versarci l’acqua o il vino (anch’esso offerto dall’albergo) non appena il livello scende a meno della metà del bicchiere e così via. Il personale è al completo, è chiaro che sono le prove generali per il futuro, quando ci saranno altri clienti oltre a noi. Lo chef viene al nostro tavolo per ringraziarci e per spiegarci come mangeremo. Anche i manager dell’albergo, prima di sedersi al loro tavolo, vengono a ringraziarci. Fantastico! I ragazzi del personale sono tesi, ma non agitati, mi sembrano più che pronti per prendere servizio con più ospiti. Caterina purtroppo inizia a sentirsi male quasi subito, la solita congestione dovuta forse all’aria condizionata. Forse quella della camera da letto. Mangiamo a sazietà in quella che più che una cena, sembra un ricevimento di nozze. Portate su portate, diversi vini, contorni, pietanze. Finiamo di mangiare quasi all’una di notte! Dopo cena, mentre stiamo per congedarci, ringraziando per la meravigliosa cena, la signora della reception ci dice che Ahmed è passato nel pomeriggio e ci ha lasciato dei cd musicali. Mitico Ahmed! Uscendo dalla sala ristorante, passiamo davanti al meraviglioso, incredibile bancone del bar, in pietra traslucida e illuminata da luci che gli donano un’aura irreale, quasi magica. Torno in camera e scopro che Caterina ha dato di stomaco diverse volte. Ora per fortuna sta meglio, speriamo le passi in fretta, chè ammalarsi in vacanza è la beffa delle beffe. 16/08/2010 - “Ultimo giorno ad Aleppo”
“Sapete, non vorrei mai dei giudizi negativi su Trip Advisor, soprattutto ora che abbiamo appena riaperto!” Mi piace la sua franchezza e anche la considerazione che ha per Internet, in ogni caso, anche volendo, non avremmo nessun appunto negativo da fare, ma solo elogi! Stormi di camerieri che ti posizionano la sedia mentre ti abbassi, ti versano l’acqua non appena il livello scende sotto la metà del bicchiere, che ti passano le cose come si accorgono che cerchi qualcosa per più di un secondo. Mentre facevo colazione, ho aperto la cartina per parlare con Federico della strada che pensavo di fare al ritorno e, non appena abbiamo finito, si è precipitato un cameriere per aiutarmi a ripiegarla.
Più tardi bussa Federico. É venuto il medico per Melania. Ha la gastroenterite e le hanno fatto due iniezioni. Scopriamo anche che è svenuta! Provo a organizzare una visita anche per Caterina, ma assolutamente non vuole. Comunqnue anche io non mi sento al meglio della forma: lo stomaco mi dà un po’ fastidio. A metà pomeriggio Caterina sta meglio. Grazie anche al desiderio di passeggiare ancora per Aleppo, decidiamo di andare a fare una passeggiata.
Ci perdiamo nel quartiere Falfra, intricato, decadente e affascinante. Stretti vicoli tortuosi, a volte ciechi a dare la sensazione di un labirinto. Spesso le vie più larghe sono ristrette, verso l’alto, da aggetti lignei, appartenenti spesso ad abitazioni abbandonate. Sentiamo molto vicino dei rintocchi di campana. Siamo finiti nel quartiere cristiano. Una accanto all’altra, strette dal resto della città islamica, troviamo la chiesa siriano-cattolica, quella greco-ortodossa e, naturalmente, quella più antica, la chiesa armena. La prima è chiusa sbarrata, non dà nemmeno la sensazione di essere ancora in funzione. La seconda, la greco-ortodossa, ha il portone spalancato. Entro nel cortile, sulla sinistra un gabbiotto da guardiano, vuoto. Sul fondo, un muro di cinta. La chiesa vera e propria, sulla destra, sembra essere chiusa, ma mi fermo ostinatamente. Se il portone è aperto, deve esserci qualcuno! Tempo cinque minuti e, all’interno, vedo un uomo avvicinarsi al vetro. Mi scruta, faccio segno che vorrei entrare. Fa di sì con la testa e un attimo dopo è sulla porta, mi invita ad entrare con un cenno di mano ed un sorriso. Chiamo Caterina, rimasta in strada. Ci accoglie un signore sulla sessantina, leggermente claudicante, col viso incorniciato da una folta barba grigia. Ci spiega che ad Aleppo ci sono circa 18mila ortodossi, catalogandoli così come la sesta confessione. “Gli armeni sono molto più numerosi!”, esclama enfatizzando il “molto”. Non gli chiedo la classifica, ma qualcos’altro sulla storia della Chiesa e sui loro riti attuali. Iniziamo così una lunga e piacevole chiacchierata sul dominio ottomano e i turchi, la diaspora armena, della guerra e del successivo protettorato. In una parola, delle persecuzioni che hanno subito. L’aspetto che mi stupisce è la serenità con cui riassume 100 e più anni di storia, senza livore, nè rassegnazione, ma semplicemente con il distacco di una cronaca che non lo riguarda. “Ma quello è passato! Guardiamo al futuro!”, chiude sorridendo, confermando così la mia impressione. É giusto, anche se a mio avviso, senza memoria del passato non c’è futuro. Senza rivendicazioni continue e rabbia repressa, ma semplicemente ricordando cosa è avvenuto, per non ripeterlo in futuro.
Ringraziamo e usciamo, pronti e curiosi di visitare la terza e ultima chiesa in sequenza, quella degli amati armeni. Dopo SamarCaLda 2007, quando abbiamo visitato l’Armenia e le altre due nazioni caucasiche, mi accorgo di come ho guadagnato un particolare senso di affetto e benevolenza verso gli armeni. Mentre ci avviciniamo, arrivano dei rintocchi lenti, distaccati, ma regolari. Un funerale! Entriamo nel cortile antistante l’ingresso della Chiesa proprio mentre escono i parenti del defunto. Ci defiliamo, visitando il resto del cortile, decorato con targhe commemorative e iscrizioni. Gli armeni, al contrario di quello che ha espresso il signore di poco fa nella chiesa greco-ortodossa, ricordano tutto e lo mettono in evidenza. Attendiamo che la gente defluisca ed entriamo. L’aria è ancora carica di incenso, l’atmosfera solenne. Si avverte l’antichità e la forza della cultura armena, l’orgoglio.
Purtroppo stanno chiudendo e dobbiamo uscire immediatamente. Proseguiamo la passeggiata nel vicino suq, poi iniziamo a tornare verso l’albergo. Cerchiamo qualcosa di caratteristico a poco prezzo. Ci fermiamo di fronte alla vetrina di una pasticceria che espone anche le tipiche caffettiere siriane, decorate e dai pronunciati becchi. Non appena apriamo la porta, arriva un’onda gelida di aria condizionata. “Entra tu, chiedi i prezzi”, esclama Caterina bloccandosi, spaventata dall’aria condizionata e dalla pessima nottata, probabilmente causata da una piccola congestione. “Quale ti piace?”, le chiedo, continuando a tenere la porta socchiusa. “Chiedi di quelle più piccole, così possiamo portarle in moto!” Finalmente entro. Il negoziante, distinto ed elegante nella sua lunga veste bianca, mi osserva in silenzio, sorridendo. Esordisco, come di consueto - che peccato, non aver ancora imparato l’arabo! - in inglese: “Good evening ...” “Mi dica, a quale è interessato?”, mi chiede, interrompendomi. Mi spiega, in perfetto e forbito italiano, che ha vissuto lungamente in Italia, studiando, lavorando e sposandosi con una donna italiana. “Ho studiato a Perugia nell’università per stranieri, ma mi sono sposato a Ferrara, poi ho cambiato molte città.” “Immagino che sia stato anche a Roma!” “Certamente, ho lavorato per l’ambasciata e anche come guida turistica.” Poi è dovuto tornare in Siria: “... e mia moglie mi ha lasciato!”, conclude con amarezza. Concludiamo l’affare dialogando a gesti con Caterina, all’esterno. Mi sento sempre più debole, lo stomaco è teso, come una palla dolorante.
Improvvisamente si svuota: le serrande si abbassano, le persone si dileguano rapidamente. Anche per oggi è terminata la giornata di Ramadan. Passeggiamo nei vicoli deserti, molto affascinante, una vista insolita di quello che normalmente è il regno del caos. Torniamo alla Cittadella, per quello che ormai è diventato un rito: rilassarsi in chiacchiere e sorseggiando menta e limone ammirando la luce che, nel crepuscolo, cambia tonalità riflettendosi sulle alte e massicce pareti in pietra. Torniamo in albergo. Prendo un’aspirina, i fermenti lattici e un integratore di sali minerali. Mi provo la febbre: 38! Melania sta meglio. Io rimango in stanza, non ho fame. Alla fine cenano solo Federico e Caterina, che decidono di non uscire, approfittando dello splendido ristorante dell’albergo. Poco dopo la febbre è salita a 39, prendo una tachipirina e mi addormento. Sono le 23. |
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