Sommario del sito

Duchessa Tunisina 2011

Tragitto ideato per Duchessa Tunisina 2011
Tragitto

Informazioni utili per Duchessa Tunisina 2011
Info utili

Diario di viaggio di Duchessa Tunisina 2011
Diario

Letture consigliate per Duchessa Tunisina 2011
Letture

Soste previste per Duchessa Tunisina 2011
Soste

 Diario di viaggio

~ Una Duchessa tra le dune delle Tunisia ~

 

Pagina precedente
Indice

Pagina 1 (di ?)
(Civitavecchia, Tunisi, pista di Rommel, Tozeur, Oung Jmel, Guerre Stellari, Chott El Jerid, Douz)

Pagina successiva
Pagina 2

Ecco il chilometraggio della Duchessa!

Contachilometri alla partenza
26.200

Contachilometri all’arrivo
28.400

Chilometri percorsi 2.200

Giornate: 
Prologo
02 Dicembre 2011 - “Partenza al cardiopalma”
03 Dicembre 2011 - “Arrivo nella notte a Tunisi”
04 Dicembre 2011 - “Il crepuscolo su Rommel”
05 Dicembre 2011 - “L’emozione del chott”

 Prologo
Ormai devo abituarmici: i giorni e le settimane precedenti alle partenze sono e saranno sempre più stressanti e concitati, impegnati al 110% nel portare avanti sia il lavoro che la preparazione del viaggio.
Stavolta le giornate sono durate ciascuna 20 ore: di giorno iper-lavoro e di notte, fino alle 3 del mattino, la raccolta del materiale, delle informazioni, la preparazione della moto e tutto il resto.
Poi, la sveglia alle 7, pronti per una nuova corsa.
Infine, non ripeto la genesi casuale ed inattesa del viaggio, già descritta nell’Introduzione, ma vorrei ringraziare ancora Emiliano per la bellissima idea e per avermi introdotto al mondo dell’enduro che andasse al di là della classica strada bianca: attrezzatura, abbigliamento, preparazione della moto e così via.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

 02 Dicembre - “Partenza al cardiopalma”
Partenza della nave: h. 19 dal porto di Civitavecchia.
Nella mente continuo a giocare con questa scadenza, la giro, la capovolgo, ci giro intorno. So già che sarò in ritardo, ma non avrei pensato così tanto.
Alle 17 spengo il computer in ufficio, vicino casa. Saluto tutti e scappo.
Arrivo nel box, mi cambio con i vestiti che mi aspettano, pronti, da un paio di giorni. Guardo la moto, finita di caricare ieri notte, e prendo una decisione improvvisa: tolgo una delle due taniche pensate per me ed Emiliano nel tratto di dune che dovremmo attraversare nella parte sud della Tunisia. Mi convinco che due sono troppe, una sarà sufficiente. Il problema è che devo disfare il bagaglio, con l’orologio che avanza inarrestabile.
Dopo qualche minuto riesco a chiudere tutto, prendo l’ascensore e saluto velocemente Caterina, a casa malata.

Parto!

Il tempo è coperto, freddo. Ben presto la minaccia di pioggia si trasforma in violento acquazzone. Le auto rallentano perchè la visibilità è minima. Purtroppo non posso permettermi di rallentare, anzi, ne approfitto della corsia di sorpasso lasciata libera e mi lancio, precario sulle gomme nuove da enduro, pochi tasselli di gomma stretti e alti che corrono sull’acqua.
Ore 18:15: arrivo al porto di Civitavecchia, completamente fradicio. Per fortuna avevo infilato tutto (vestiti, documenti, attrezzature) in buste ermetiche.
Ore 18:20: check-in. Mi infilo tra alcuni tunisini in attesa di sapere se c’è ancora un posto libero per i loro veicoli, auto e furgoni.
Ore 18:30: entro nella nave. Perfetto! Un pensiero mi attraversa la mente: “Sono addirittura in anticipo, potevo salutare meglio Caterina!”, rido tra me e me per questo mio atteggiamento nei confronti dell’orologio e mi avvio, pochi bagagli alla mano, verso l’accoglienza.

Mi presento, prendendo la scheda dalle mani della signorina sorridente che mi accoglie in cima alla scala e mi avvio verso la cabina. Per risparmiare, ho prenotato una cabina interna da quattro.
Mentre mi chiedo chi saranno gli altri tre compagni di viaggio nei quasi due giorni di navigazione, vengo fermato da un membro dell’equipaggio, ad un incrocio del lunghissimo corridoio punteggiato di porticine.
“Cabina?”
Senza rispondere, gli passo la scheda.
“Ah ... sono già tutti dentro! Tre tunisini! Auguri!!” e ride sommessamente mentre mi restituisce la scheda.
Farfuglio qualcosa e, mentre mi allontano, mi consiglia:
“Se vuoi, puoi chiedere un cambio di cabina, dovrebbero essercene ancora, di libere.”
“Ok, grazie!”

Busso, nessuno risponde anche se sento dei rumori dall’interno. Infilo la scheda ed apro.
La cabina è larga due metri scarsi e così piena di persone e bagagli, è ancora più claustrofobica. Tre dei quattro letti sono già abbassati. Trovo due giovani in piedi ed uno più anziano sdraiato.
Quando entro si zittiscono e mi fissano. Non un saluto, non un cenno, non un movimento. Tre figure immobili che mi fissano. L’aria è già irrespirabile, di sudore e piedi.
Sorrido accennando un saluto, apro l’armadio e faccio spazio per attaccare la giacca, grondante acqua.
Appoggio i bagagli, mentre le tre figure riprendono vita, sempre senza salutarmi né rivolgermi la parola. Uno entra in bagno, l’altro inizia a parlare con quello sdraiato.
Decido immediatamente di provare a chiedere il cambio. Almeno sapere quanto costa e cosa c’è!

Esco, passo nuovamente davanti al tipo di prima.
“Allora?”, mi chiede con aria canzonatoria, quasi ridendo.
“Vado a chiedere se posso cambiare!”, rispondo senza fermarmi.

Arrivo nuovamente all’accoglienza.
“Buonasera, per caso potrei cambiare cabina?”
“Vediamo ... sì, è possibile!”
“C’è una doppia?”, chiedo sempre con l’idea di spendere il meno possibile.
“No, mi dispiace, solo singole!”
“Ah ... e viene?”
“Un attimo che le dico ...”
Consulta il computer, battendo tasti su tasti.
“La differenza è di 21 euro!”
Non riesco a crederci ed esclamo veloce, timoroso che ci ripensi o che qualcun altro, inesistente, posso rubarmi l’ultima singola della nave:
“Va benissimo, non c’è problema, la prendo!”

Pago e mi inoltro nell’ormai familiare corridoio. Stavolta devo arrivare fino in fondo.
Ripasso davanti al tipo e sciorino felice la scheda della cabina:
“Ho preso una singola!”
Busso nella mia ormai ex-cabina, sempre senza una parola uno dei tre apre la porta, prendo rapido i bagagli che avevo lasciato, borbottando che avevo trovato un’altra sistemazione, sicuro di far felice anche loro, ed esco.
Arrivo in prua, apro la porta e scopro una cabina molto più grande della precedente. In più, è tutta per me!
“Me lo merito ...”, penso tra me e me, “dopo tutto lo stress degli ultimi giorni, un po’ di pace è quello che ci vuole!”

Mi spoglio completamente, mi infilo nella doccia. Resto molti minuti sotto l’acqua rovente, poi mi sdraio sul letto.
Il tempo di mangiare al volo un panino che ho portato, leggere ancora i fogli che ho stampato, mandare qualche sms e poi crollo, alle 22:30.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

 03 Dicembre - “Arrivo nella notte a Tunisi”
Mi sveglio nel cuore della notte, sono le 3 e mezzo. Mi riaddormento fino alle 7. Poi fino alle 8. Decido di interrompere lo stillicidio, mi alzo.
Tra un paio d’ore arriveremo a Palermo, dove salirà Emiliano. Gli mando un sms, pregandolo di portare a bordo un paio di cannoli.
Faccio un giro sui ponti, per gustare l’arrivo nel porto. Mi lascio andare agli splendidi ricordi dell’unica volta in cui ho visitato la Sicilia, ormai 6 anni fa. Catania, l’Etna, Siracusa, la valle di Noto, Scicli, Modica, Ragusa, la valle dei Templi, Sciacca, Marsala, Trapani e le sue saline, Erice, Scopello e la riserva dello Zingaro. I nomi si susseguono nella mente, così come i paesaggi, ancora impressi con forza, il sorgere della primavera, i suoi colori: era maggio.
Arriviamo alle 10:40, pochi minuti e già sono in cabina con Emiliano a festeggiare il nostro rincontro, dopo 6 anni! Ovviamente dividiamo la sistemazione, non credo che verrà qualcuno a controllare.
In breve ci piazziamo su un tavolino al bar: cartine, guida e GPS a farla da padrone. Inseriamo waypoint, corriamo con le dita lungo le strade colorate della cartina, leggiamo la guida e i miei appunti. La testa inizia a staccarsi dal lavoro e a sognare quello che accadrà a breve. Vacanza!
Il resto del pomeriggio trascorre tra sonnellini, inizio il libro di Marinette Pendola, sembra molto bello; scrivo il diario e poi le immancabili chiacchierate con Emiliano, sia sul viaggio che ci aspetta che sugli ultimi anni di vita trascorsi.
Nel tardo pomeriggio inizia il fermento per lo sbarco, l’equipaggio distribuisce i moduli per le persone e i veicoli. Compiliamo, prepariamo i documenti e ci mettiamo in attesa.
Attracchiamo alle 21, lasciamo la cabina con i bagagli, rimontiamo le moto nell’immancabile caos del garage, dove tutti si accalcano e tagliano la strada pur di scendere prima dell’auto a fianco. Alle 21:30 posiamo le ruote sul suolo tunisino!
Sfiliamo tra le auto finchè si può, poi dobbiamo accodarci. Siamo i soli in moto, a parte tre moto su un carrello attaccato ad un fuoristrada. Sono italiani. Si avvicinano, scambiamo qualche battuta, sono siciliani e vanno dritti di corsa al sud per fare una settimana di puro deserto, poi torneranno il nostro stesso giorno.
Si avvicina un altro signore, tunisino, ma dal buon italiano:
“Salve, dove andrete?”
“Pensavamo Tozeur, poi il lago salato, Douz fino a Ksar Ghilane, gli ksar e poi la settimana sarà finita ...”, gli spiego.
“State attenti ... molto attenti! Non è sicuro in questo periodo ... soprattutto sulle strade, possono fermarvi e rapinarvi! Che strada volete fare per andare a Tozeur?”
“Pensavamo El Kef, Kairouan, Gafsa ...”, gli rispondo svogliato, non amando questi discorsi sentiti mille volte nei vari viaggi.
“Evitate Kairouan! É pericoloso! Fermano le macchine e le rapinano!”
Intanto la fila di auto scorre verso i gabbiotti del controllo passaporto. Prima di risalire in auto, ci urla ancora:
“Non passate da Kairouan, mi raccomando!”
Chiediamo agli italiani col carrello di moto, subito dietro di noi, se hanno notizie a riguardo. Anche loro non si sentono molto sicuri e contrariamente agli altri anni, non resteranno a dormire nel deserto, ma faranno solo escursioni in giornata: partenza al mattino presto da Douz verso i posti che hanno pensato (la zona dei laghi, Tembaine, Ksar Ghilane) e ritorno in serata.
Procediamo dubbiosi verso i successivi controlli: i bagagli e nuovamente i passaporti. Solita tiritera di timbri mancanti, ma nel giro di un’ora siamo fuori.
Riassaporo la sensazione meravigliosa del lungomare che arriva a Tunisi, uno degli ingressi più belli di sempre. Una lingua di asfalto che corre nella notte, fiancheggiata da entrambi i lati dal mare scintillante di luci della città lontana. Un nastro magico che in pochi minuti ci porta in Oriente.
Ho il nome di un albergo che mi diede una signora algerina conosciuta all’inizio di CapoDattero 2006. Il nome è altisonante: “Grand Hotel de France”, a due passi dalla Medina. Lo troviamo rapidamente, scendo a chiedere il prezzo. Quando mi viene risposto circa 15 euro per entrambi, colazione e garage per le moto inclusi, non ho dubbi. Anche Emiliano è d’accordo.
Il tipo esce, ma invece di mostrarci un portone in cui entrare con le moto, tira fuori un’asse di legno, la appoggia sugli scalini di ingresso che portano nella hall dell’albergo e ci fa cenno di salire da lì, tra le auto parcheggiate ed il marciapiede strettissimo.
Faccio inversione e provo a salire sul marciapiede. Vado però su una parte bagnata e fangosa, la ruota anteriore sale, ma la posteriore slitta, la moto si intraversa e in un attimo sono a gambe all’aria.
“Iniziamo bene ...”, penso un po’ sconfortato, mentre Emiliano mi aiuta e il tipo resta impalato a guardarci pochi metri più in là, davanti all’albergo.
Riesco a salire e ad inerpicarmi sui gradini. Entro nella hall, imbarazzandomi per la scena, una moto sporca e carica che passa davanti alla reception, per quanto sgarrupata, informale e deserta, sono del tutto fuori luogo. Spengo il motore e spingo la moto in uno stanzone che si apre sul fondo della hall.
É una sorta di magazzino, sistemiamo le moto una a fianco all’altra e saliamo in camera.
Questa è ampia e nemmeno tanto spoglia: due letti con relativo scendiletto, un tavolino con due sedie, un armadio, un paio di foto d’epoca alle pareti. La finestra si apre su un patio tipicamente orientale: finestre arabeggianti, palma, bouganville e altre piante, tavolini e sedie decorati. In primavera deve essere uno spettacolo.
Doccia bollente, poi scendiamo nuovamente in garage. Voglio sistemare la leva del cambio e del freno. Non mi trovo a guidare con gli stivali da enduro, incredibilmente più grandi e rigidi di quelli da turismo ai quali sono abituato. Questi ricordano molto da vicino, come sensibilità e mobilità, gli scarponi da sci: rigidi e sostenuti, senza alcuna sensibilità. Lavoriamo parecchio per dare più spazio ai piedi e poter frenare e cambiare più facilmente.
Si è fatta quasi mezzanotte e mezzo. Vorrei uscire a fare un giro per la Medina, ma la stanchezza vince, torniamo in camera e ci addormentiamo sul colpo.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

 04 Dicembre - “Il crepuscolo su Rommel”
Ci svegliamo sul presto, scendiamo a fare colazione in una sala ampia con dipinti e fotografie alle pareti. Tavolini semplici, sedie di metallo, un bancone sul fondo con la macchina per il caffè e pochi altri elettrodomestici, un frigorifero a fianco. Ci portano baguette e marmellata, da bere del tè.

 

 

Albergo a Tunisi

 

Permesso ...
(104 KB)

 

Riesco a spingere la moto fuori dall’albergo. Proprio non ce la faccio ad accendere una cosa così rumorosa e puzzolente a pochi metri dalle stanze di altri clienti!

Ci ritroviamo immersi nella vita mattutina, praticamente in mezzo ad un mercato, con persone e motorini carichi di buste e pacchi che svicolano da tutte le parti. Le auto bloccano e sono bloccate a loro volta e facciamo il possibile per sfilarci dal traffico e raggiungere la tangenziale.
Bivio dopo bivio, finalmente arriviamo su una larga strada a quattro corsie. I cartelli non aiutano, il GPS nemmeno. Chiedo informazioni un paio di volte, dovremmo essere sulla direzione giusta.
Dopo qualche km, però, guardando la cartina mi accorgo che qualcosa non torna, stiamo facendo troppi km. Anche il GPS lo conferma. Invertiamo e, dopo una decina di km, troviamo il bivio che avevamo saltato.
Direzione Kairouan!

Il paesaggio sfila veloce, non riesco a credere di essere di nuovo in viaggio! Attraversiamo una campagna fertile, verde di coltivazioni e alberi. Basse montagne accompagnano la corsa, delle quinte all’orizzonte.
Dopo un paio d’ore, mentre attraversiamo l’ennesimo paesino che si snoda lungo la statale, con annessi bar con tavolini all’aperto, banchetti con griglia fumante per spiedini a portar via, decidiamo di concederci una pausa.

Ci sediamo sotto uno dei quattro o cinque gazebi all’esterno di un bar piuttosto grande. Tavolino e due sedie tutte per noi. Arriva subito un tipo gioviale e allegro, che inizia a parlare con accento marcamente lombardo. Ci racconta che ha lavorato per 25 anni a Como, che ha una moglie italiana ed un figlio. Loro sono rimasti in Italia, lui è stato licenziato mesi fa senza riuscire a trovare altro e, dopo un po’, ha deciso di tornare in Tunisia, perchè qui c’è più lavoro!
“Ma anche qui, le cose non vanno bene ... questa rivoluzione non è stata buona”, esclama amareggiato.
“Perchè no? Ben Ali era un dittatore”, ribatto debolmente.
“Sì, ma anche così non va bene ... ci vorrebbe un altro dittatore ... ma un dittatore buono!”
“E che dittatore è, un dittatore buono!”, penso tra me e me.
Si strugge pensando alla famiglia lontana:
“Ma a Natale verranno qui e resteranno due settimane!”, esclama aprendosi in un sorriso contagioso.
“Allora, cosa vi porto?”, ci chiede, tornando nei panni del ristoratore.
“Tè verde per due e una bella bottiglia d’acqua grande!”
Torna dentro e dopo qualche minuto ci porta tutto e si congeda:
“Ragazzi, devo andare, allora buon viaggio e qui ... offre la casa!”, esclama stringendoci la mano.
Protestiamo in tutti i modi, ribattendo che quello è il suo lavoro, non può farlo gratis, ma non sente ragioni.
“Non c’è problema, mi ha fatto tanto piacere parlare con voi!” e si allontana salutandoci.
Beviamo e chiacchieriamo, iniziando nuovamente i ragionamenti fatti così tante volte, quando mi trovo a viaggiare in certi Paesi, dove tutto sembra assumere una dimensione ed un’importanza diversa, dove il denaro ha valore, ma non è la ragione principale di vita, come invece spesso sembra essere dalle nostre parti.

Puntiamo nuovamente a sud, il paesaggio cambia velocemente. Il verde diventa via via meno intenso, sbiadito, poi più rado, fino a trasformarsi in macchie di alberi che si stringono, come a difendersi dall’arsura circostante. Gli spazi si ampliano, l’orizzonte si apre, senza più montagne a chiudere la visuale, i toni virano sulle gradazioni del marrone.
Il deserto si avvicina!

Per pranzo ci fermiamo, attratti dall’ennesima griglia fumante. Stavolta vediamo appese le pelli delle vittime: tre o quattro velli di pecora, dalla lana ancora sporca di sangue, penzolano dalle travi di metallo della tettoia. Inizialmente ci sediamo all’ombra, ma non appena ci togliamo le giacche, ci accorgiamo che fa freddo. L’ombra andrà bene credo da aprile in poi, ma adesso è meglio il sole!
Spazzoliamo tre spiedini a testa con annessa insalata tunisina, fatta di pomodori, cipolla a fette, cetrioli ed olive, il tutto accompagnato dalla francesissima baguette.
Nel giro di un’ora siamo di nuovo in moto.

Non arriviamo mai, il sole inizia a scendere, ma siamo ancora lontani da Tozeur.
Chilometro dopo chilometro, in corrispondenza delle brevi soste che facciamo o dei rapidi cenni d’intesa che ci scambiamo in corsa, tagliamo una dopo l’altra le piste che avevamo pensato di fare, a mo’ di deviazioni verso la meta finale.
Alla fine, l’amara conclusione:
“Emi, la strada è ancora lunga e le giornate troppo corte: proviamo a fare solo la Rommel e basta, altrimenti ci ritroviamo col buio in mezzo a una pista e non mi sembra il caso!”

All’altezza di Magel Bel Abbés imbocchiamo una strada secondaria verso Moularés e Redeyef, da dove parte la famosa pista di Rommel.
Attraversiamo, purtroppo con il sole negli occhi, uno splendido paesaggio desertico pre-montano, movimentato tra basse colline spoglie, spaccate da piccoli ma scenografici canyon scavati dai torrenti occasionali che si creano dopo le piogge torrenziali. Qualche cespuglio e sparute oasi macchiano di verde quello che ormai è diventato un paesaggio dalle tonalità desertiche: dal bianco al beige, al color sabbia fino ai colori più scuri delle montagne.

Pista di Rommel

 

Giù per di qua
(90 KB)

 

 

 

Pista di Rommel

 

Discesa libera
(88 KB)

 

 

 

Pista di Rommel

 

Ultimo saluto al sole
(40 KB)

 

 

Pista di Rommel

 

Bagaglio minimale
(92 KB)

 

 

 

Pista di Rommel

 

Pianura tunisina all’orizzonte
(71 KB)

 

 

 

Pista di Rommel

 

Arrivo, aspettami!
(73 KB)

Arriviamo a Redeyef quasi al crepuscolo, in un turbinio di motorini e ragazzi che attraversano la strada, corrono, ci guardano seduti dai bar all’aperto.
Non è difficile trovare uno degli imbocchi alla pista. Contrariamente a quando la percorsi nel 2006, ora la parte iniziale corre chiusa da alti cumuli di spazzatura e calcinacci. Che peccato!
Finalmente arriviamo sulla pista vera e propria. I colori del tramonto regalano emozioni fortissime, le montagne si dipingono di ocra e arancione, mentre il cielo vira sul rosso e il viola.
Superiamo il passo ed iniziamo la discesa fermandoci più volte. Ammiriamo il paesaggio, in silenzio, senza fiato. Anche stavolta, mi sento quasi un intruso con la mia inquinante cavalcatura di metallo, estraneo alla Natura che ha creato questa meraviglia.
Lungo la pista incrociamo due ragazzi. Chilometri di nulla prima e chilometri di nulla dopo. Camminano di buon passo, chissà da dove e per dove.
Mentre scendiamo, curva dopo curva, resto sorpreso: me la ricordavo più breve! Quando arriviamo alla base della montagna, siamo quasi al buio.
Corriamo a fianco della montagna. Stavolta la strada è migliore, non sabbiosa come quella che percorsi con Caterina anni fa, tanto per cambiare al buio anche in quell’occasione. Ma probabilmente la volta scorsa, presi una pista differente; ricordo che passammo molto più sotto la montagna, invece adesso corriamo ad una certa distanza, su una pista battuta abbastanza veloce.

Quando arriviamo all’asfalto è notte piena. Iniziamo a correre verso la statale che porta a Tozeur. Fari rossi nella notte, quelli di Emiliano davanti a me e luci tremanti all’orizzonte, della città lontana.
Arriviamo a Tozeur ed andiamo a colpo sicuro al motel Warda. Sia lui che io, dormimmo qui nei nostri viaggi precedenti. Carino, economico e vicino al centro.
Scarichiamo le moto e le parcheggiamo in un corridoio stretto e lungo verso il fondo dell’albergo.
Doccia, cena veloce e, purtroppo, mediocre, in un ristorante di fronte al ristorante, poi breve passeggiata.
L’intera cittadina è ferma, deserta. Passando davanti ad un paio di bar, vocianti di persone affollate davanti ai televisori, capiamo il motivo. É in corso la finale della Coppa Africa: il Fez del Marocco, contro il “Club Africaine”, di Tunisi. Dalle espressioni e dalle esclamazioni, capiamo che non sta andando bene. Dopo le urla finali, quando la gente inizia a sciamare fuori dai bar e dalle case, chiediamo: il Club ha perso 5 a 6, ai rigori.

 

Medina di Tozeur

 

Medina misteriosa
(52 KB)

“Je suis désolé”, esclamo nel mio francese maccheronico verso un gruppo di ragazzi che incrociamo mentre escono da un bar.
Ci immergiamo per una breve passeggiata nella meravigliosa medina, illuminata ad arte per creare ancora più mistero in questo labirinto artistico di decorazioni in mattoni e di finestre e porte intagliate.
Torniamo in stanza, Emiliano crolla all’istante mentre io, come sempre, mi attardo qualche minuto a leggere.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

 05 Dicembre - “L’emozione del chott”
La notte scorre liscia e in breve ci troviamo a far colazione in un’ampia sala piena di tavoli e sedie. Però non c’è nessun altro e la sala è immersa nell’oscurità. Arriva uno dell’albergo che apre un paio di finestre e inizia a portarci la colazione. Menu standard: baguette, burro e marmellata, anche se stavolta c’è un lampo di originalità, una merendina tipo madelaine.

 

 

Albergo a Tozeur

 

Ampio parcheggio interno
(59 KB)

 

Tiriamo fuori le moto dal budello nel quale hanno passato la notte. Di fronte all’ingresso dell’albergo ne approfitto per cambiare completamente la disposizione del bagaglio. L’obiettivo è avere tutto il più in basso e il più stabile possibile. Riempio maggiormente le borse laterali, togliendo buste e sacchetti dalla sella, vediamo come andrà sulle piste di oggi.

Puntiamo verso l’Ong Jmel, la roccia a forma di testa di cammello. Prendiamo la strada per Nefta, poi dopo qualche chilometro svoltiamo a destra. Ancora qualche chilometro e l’asfalto termina all’ingresso di quella che sembra un’oasi: spuntano palme ovunque, steccati e recinti, dedali di sentieri sabbiosi.

 

Verso Oung Jmel

 

Gommista improvvisato
(138 KB)

 

 

 

Verso Oung Jmel

 

Autostrada desertica
(37 KB)

 

 

 

Verso Oung Jmel

 

Oung Nelik
(61 KB)

Dopo il primo assaggio con la sabbia profonda, ci fermiamo per sgonfiare le gomme. Ci supera un uomo di mezza età seduto di traverso su un vecchio motorino sgangherato, che però sulla sabbia va tranquillo e beato senza difficoltà. La fortuna di pesare sì e no 60 kg invece di 200!
Con le gomme a metà pressione, ci inoltriamo nel labirinto di sentieri. Seguiamo il waypoint fissato sulla roccia, alcuni chilometri avanti a noi. Peccato però che nel mezzo ci siano le case e i campi coltivati dell’oasi che stiamo attraversando! Ci ritroviamo così a compiere molte deviazioni, fino al recinto di una casa, in mezzo a un campo o in altri punti dove non possiamo più proseguire.

 

 

Verso Oung Jmel

 

Gli ultimi ritocchi al bagaglio
(68 KB)

 

 

 

Verso Oung Jmel

 

Danza nel deserto
(116 KB)

 

 

 

Oung Jmel

 

Cammello di roccia
(52 KB)

 

Alla fine, riusciamo a trovare una pista più decisa, che ci porta fuori dal villaggio e che confluisce su quella principale, ampia, larga e dura più dell’asfalto. Mentre accelero felice a 100 all’ora, mi chiedo se Emiliano la voleva evitare per divertirsi di più sulla sabbia!
L’ampia pista procede, ben delimitata su entrambi i lati da bordi rialzati di 50 centimetri, a fianco di un lago salato, piatto e immenso, biancastro. Di tanto in tanto, una parte della pista di scioglie in sabbia, molle e solcata da mille tracce, poi si ricompatta nella durezza del sale. Emiliano preferisce correre su una pista a fianco, molto più sabbiosa dell’autostrada sulla quale mi trovo.
Seguiamo le indicazioni del riferimento sul GPS, prendendo una pista che si diparte sulla destra. Una breve discesa e un paio di curve e ci ritroviamo al livello del lago salato.
Emiliano non resiste e prova ad avventurarsi qualche decina di metri più in là. Quella che sembra una superficie dura e compatta, si rivela insidiosa di fango. Vedo la sua moto svirgolare pesantemente ed Emiliano dare potenti zampate a terra per restare in piedi. Pian piano riesce a tornare sulla pista dalla quale non mi ero mosso, per fortuna è riuscito a non impantanarsi!
Arriviamo sotto la famosa roccia. La troviamo a intuito, sia perchè è quella un po’ più strana di quelle viste finora, sia perchè sotto la roccia vediamo un paio di chioschi, solitamente posizionati nei punti turistici. Purtroppo entrambi sono chiusi, dobbiamo tenerci la voglia di tè verde che c’è già venuta.
Proseguiamo verso uno dei set di Guerre Stellari, girato in diverse località tunisine alla fine degli anni ’70.
Per raggiungerlo, proseguiamo sulla pista del lago salato, senza tornare sull’autostrada di prima. Superiamo alcune dune e qualche salto, la pista si sfalda e diventa solo una traccia nella sabbia.
Iniziano le prime difficoltà per me, totalmente alle prime armi per quanto riguarda la guida sulla sabbia profonda. La moto è alta e pesante e non riesco a tenere una velocità adeguata per evitare che la ruota anteriore affondi, costringendomi a fermarmi e fare il triplo della fatica.

 

 

Set di Guerre Stellari

 

Astronave Honda
(91 KB)

 

 

 

 

Verso il set di Guerre Stellari

 

Paesaggio lunare
(75 KB)

Tra una zampata e l’altra e un’infinità di accelerate nella sabbia per liberarmi dal suo abbraccio opprimente, arriviamo ad una tettoia a mò di parcheggio. É il segno che siamo arrivati al set di Guerre Stellari.
Anche qui, tutti i chioschi sono chiusi, siamo soli. Emiliano ne approfitta per portare la sua moto, rielaborata tanto da somigliare davvero ad un mezzo venuto dallo spazio, proprio al centro della piazza del set.
Tiriamo fuori le macchine fotografiche e iniziamo ad aggirarci tra le costruzioni della scenografia. Non ho mai visto nessun episodio di Guerre Stellari perchè non amo la fantascienza, però ora sono incuriosito di vedere come rende questo paesaggio ambientato in un contesto extra-terrestre.
Dopo qualche minuto arriva un fuoristrada. Scendono due guide tunisine e una coppia di tedeschi di mezza età. I primi turisti che vediamo!
Chiedo informazioni ai due tunisini riguardo la pista che da qui porta direttamente a Nefta.
“Un po’ buona e un po’ cattiva”, è la loro risposta sibillina.

 

 

Verso Nefta

 

Perplesso da tanta sabbia
(82 KB)

 

 

 

Verso Nefta

 

Un po’ di riposo
(119 KB)

 

 

Verso Nefta

 

Parcheggio nella sabbia
(100 KB)

 

 

 

Verso Nefta

 

Dromedari 4x4
(107 KB)

Mi preparo ad affrontare altre dune, d’altronde siamo venuti in Tunisia (anche) per questo!
Emiliano è curioso di provare la Duchessa, gliela cedo direttamente dal parcheggio. Il tempo di mezza duna e lo vedo completamente insabbiato, con la ruota posteriore affondata fino al mozzo nella sabbia chiara, quasi bianca.
Per evitare di insabbiarmi anch’io, mi fermo qualche metro prima della duna vera e propria, apprezzando nel frattempo la leggerezza e reattività della sua moto: più bassa, dal motore più pastoso e l’anteriore immensamente più leggero.
Spostiamo di peso la Duchessa riuscendo a portarla fuori dal punto critico. Dopo qualche decina di metri inizia la pista vera e propria che, come anticipato dai due tunisini, effettivamente a volte è dura e veloce, a volte si scioglie in sabbia molle e insidiosa. Il problema è che quando è compatta e veloce, si può allungare senza problemi anche a 100 all’ora. Quando però arriva un banco di sabbia, la paura di ribaltarmi mi fa rallentare fino a 50/60 all’ora, costringendomi a guidare con attenzione e tensione.

Dopo una ventina di km arriviamo alle prime baracche che annunciano Nefta. Attraversiamo la periferia fino alla strada principale.
Facciamo il pieno e, essendo ormai ora di pranzo, ci lasciamo tentare da un chiosco a bordo strada che inonda l’aria del profumo appetitoso di un grande girarrosto pieno di polli.
Antipasto di olive e harissa, un pollo a testa, patatine fritte e insalata tunisina. Staremo a posto fino a stasera!
Scambiamo due chiacchiere con i ragazzi della rosticceria, si lamentano che non ci sono più turisti. Effettivamente, a parte i due tedeschi di poco fa, finora non ne abbiamo visti.
Li salutiamo e ripartiamo. Destinazione: attraversamento del Chott el Jerid, da nord a sud!

 

Oasi di Nefta

 

Mare di palme
(67 KB)

Seguo Emiliano che si inoltra nella palmerie di Nefta: è un luogo incredibile, nel 2006 non la girai perchè con Nelik sarebbe stato impossibile avventurarsi nel dedalo di sentieri e tracce sabbiose che si inoltrano nel fitto del palmeto. Migliaia di palme addossate le une alle altre e al di sotto del loro ombrello protettivo, un rigoglio di vita, orti e coltivazioni. Qui è l’uomo che si adatta alla Natura: prima vengono le coltivazioni e le loro esigenze e ogni spazio utile è riservato a loro. Poi, ci sono le persone, con le loro casupole e baracche infilate qua e là.
Mentre svoltiamo a destra e a sinistra un po’ a casaccio, sempre seguendo un waypoint che punta in mezzo al Chott, ma che non tiene conto delle migliaia di alberi che ci sono nel mezzo, ci fermiamo a chiedere ad un paio di uomini che stanno riparando uno steccato. Il primo dice che secondo lui non è possibile uscire sul chott da dove ci troviamo, l’altro lo riprende e dice che sì, è possibile ed elenca le prossime deviazioni sinistra-destra-dritto da seguire.
Le seguiamo per un po’, ma quando troviamo il sentiero sbarrato da palme cadute o quando un’altra traccia si perde in un cespuglio, decidiamo di tornare sui nostri passi e seguire ancora per un po’ la strada principale.

 

 

Chott El Jerid

 

Pianura tunisina
(72 KB)

 

Finalmente sbuchiamo nella piatta distesa biancastra del Chott. É sconvolgente vedere come si passa, in pochissimi metri, dalla selva più fitta e rigogliosa al deserto più arido e sterile. Alberi-deserto, erba-sabbia, verde-beige, in pochi metri. L’assedio è terribilmente evidente, le piante si stringono, facendosi forza per resistere alle sabbie che avanzano e mangiano.
Mentre ci inoltriamo nel chott, anche qui tornando indietro un paio di volte perchè stavamo prendendo la direzione sbagliata, mi giro molte volte ad ammirare ancora, da lontano, la macchia nera, enorme del palmeto in contrasto con l’immensità del lago salato.
Ci divertiamo ad allungare il passo, la superficie è piatta e dura, la visibilità massima. Corriamo seguendo due strette e deboli tracce di pneumatici. Non ci azzardiamo ad uscire dalla traccia, perchè sappiamo che nei giorni scorsi ha piovuto e la crosta potrebbe essere molto sottile e nascondere una trappola di fango e argilla.

 

Chott El Jerid

 

Parcheggio isolato
(100 KB)

Ci aspettano decine di chilometri che affrontiamo con entusiasmo. Man mano che andiamo verso sud, la pista peggiora: si fa più sabbiosa e meno piatta. Ci troviamo a superare collinette sempre più pronunciate, sia in altezza che come ripidità. A volte, arrivando in velocità su un dosso, mi ritrovo praticamente addosso alla ripida salita della collina successiva, sbattendoci contro violentemente. Per fortuna l’inerzia fa sì che la moto comunque proceda e salga sul dosso senza fermarsi, però in due o tre occasioni me la vedo brutta, urlo nel casco e penso:
“Mò casco e m’ammazzo!”

 

 

Chott El Jerid

 

Duchessa in doppia fila
(92 KB)

 

Passano un paio d’ore, tra corse e brevi soste. Il tramonto si avvicina e, trovandoci ancora nel bel mezzo del chott, inizio ad innervosirmi. L’idea di essere colto dall’oscurità in questa pista sempre più accidentata e aspra non mi piace per niente, già mi vedo a vagare nella notte bucata dal faro della notte, con le lunghe ombre dei cespugli e delle pietre proiettate in avanti, seguendo una freccia verde sul GPS.
Anche Emiliano è d’accordo nell’accorciare la pista ed uscire il prima possibile dal Chott.

É quasi il crepuscolo quando raggiungiamo l’asfalto. Non abbiamo bene idea di quale strada abbiamo effettivamente incontrato, sembra essere una strada nuova che le cartine non segnano.
Gonfiamo le gomme ad una pressione adatta all’asfalto. Non facciamo in tempo a finire che, dal nulla, sbuca un ragazzo sui 30 anni in sella ad uno dei tipici ciclomotori scassati ma inarrestabili che girano da queste parti. Salutiamo con un sorriso, il tipo ricambia, poi, dopo qualche metro, sembra ripensarci, inverte la marcia e ci raggiunge.
Dopo averci chiesto da dove venivamo e dove stavamo andando, ci propone:
“Volete vedere la Valle delle Rose?”
“Cosa?”
“La Valle delle Rose! Una valle piena di rose del deserto, le hanno ritrovate lì”, ci spiega in un francese approssimativo.
“Cioè, tipo una zona archeologica piena di rose del deserto?”
“Sì, esatto, una valle piena di rose!”
“Ma quant’è grande?”, chiedo, subodorando una fregatura.
“Non tanto, ma venite, è proprio qui dietro!”
“Quant’è lontana? Ormai è buio!”, insisto.
“É vicinissima!”, esclama iniziando a spingere il motorino per riaccenderlo.
“Ma si entra con le moto?”
“Venite, vi faccio vedere!”, ci urla dal motorino ormai lanciato sull’asfalto.
Lancio uno sguardo ad Emiliano che fa spallucce e dice:
“E andiamo a vedere questa valle delle rose ...”
Non facciamo in tempo a sistemarci bene che, nel giro di un chilometro scarso, attraversa la carreggiata e si ferma davanti ad un muretto.
La delusione è notevole: la Valle delle Rose altro non è che un quadrato di terra chiuso da un muretto, dove il tipo vende rose del deserto ai turisti di passaggio.
“Venite, entrate!”, esclama aprendo un basso cancello di legno.
Parcheggiamo le moto e lo seguiamo. Ci porta alle spalle del muretto, vista chott.
“Guardate lì, è pieno di rose!”, dice indicando una piccola buca scavata nel terreno.

 

 

Valle delle Rose

 

Prateria di rose
(62 KB)

 

Guardiamo dentro e vediamo alcune rose del deserto palesemente appoggiate al terreno.
“Ma quelle ce l’hai messe tu, non le hai trovate certo così!”, protesto tanto per non farmi passare completamente per fesso.
“Certo che le ho messe io!”, ribatte furbo, “ma è per far capire cosa si trova nel deserto, qui intorno è pieno di rose del deserto!”
Archiviata la delusione della Valle delle Rose, che nella mia mente si era materializzato come un luogo misterioso e inaccessibile tempestato di rose del deserto, luogo che solo lui conosceva e che eravamo stati tanto fortunati da incontrare al momento giusto, iniziamo a parlare di affari.
Torna verso il muretto e scopre un mucchio di rose del deserto coperte da un telo.
“Queste le ho raccolte nei giorni scorsi”, dice indicando le rose con un gesto un ampio, “se volete, potete prenderne una da portare alle vostre mogli!”
Emiliano non è convinto, troppo delicate e troppi giorni da fare ancora su strade pessime. Io invece ne ho diverse a casa, tutte trovate nel 2006 in questo stesso deserto da Caterina, mentre riparavo la gomma bucata di Nelik.
“Sono mesi che non vedo un turista”, dice sconsolato e inizia a parlarci delle difficoltà che sta vivendo il sud della Tunisia, così dipendente dal turismo e ora così in crisi, dopo la Rivoluzione che ha spaventato i pochi turisti in arrivo, lasciando la gente del luogo senza introiti.
“Vi faccio un prezzo buono, dai, prendi questa che è bella”, mi dice passandomi una bella rosa grande come il palmo della mano, “te la dò per 5 dinari.”
“Ma io ce l’ho”, protesto, “Emiliano, prendila tu!”
Dopo un breve scambio di battute e un altro paio di proposte di rose, ne prendiamo una a testa, 7 dinari in tutto.
“Sono i primi dinari che guadagno da giugno”, ci dice con sguardo triste.
“Ma dai, non ci credo!”, esclamo con un sorriso.
“Davvero, ti giuro! Stasera tornerò a casa felice, li farò vedere a mio figlio.”
“Ne vuoi altri, qualche altro dinaro?”
“No, no! Vanno bene, è il prezzo che ti ho fatto, va bene così!”, risponde quasi offeso.
“Ok ... allora in bocca al lupo, noi andiamo a Douz.”
“Potete farmi un favore?”
“Cosa?”
“Andrete all’hotel 13 Mars, mi avete detto.”
“Sì.”
“Ecco, chiedete al portiere se per caso li ha mandati lui due turisti.”
“In che senso?”
“Qualche giorno fa, sono venuti qui due turisti, hanno preso delle rose e se ne sono andati.”
“Cioè, le hanno rubate?”
“Sì ...”
“Mi spiace! Ok, chiederemo, ciao!”
“Ciao!”, esclama aprendo di nuovo il cancello per farci uscire.

Il sole si è tuffato alle spalle di lontane colline e tinge di rosso e viola il cielo e il paesaggio. Corriamo su una lingua di asfalto in bilico sul chott, una lingua ingoiata dalla notte. Di tanto in tanto si intravedono dei riflessi sia a destra che a sinistra, forse su specchi d’acqua stagionali creati dalle ultime piogge.
Man mano che ci avviciniamo a Douz, iniziamo ad attraversare paesini, minuscoli e immersi nelle tenebre.
Uno mi colpisce in particolare. All’improvviso, dalla notte emerge un fitto palmeto tagliato dalla strada che stiamo percorrendo. Intravediamo nell’oscurità qualche casa, poi veniamo avvolti da un profumo intenso, dolcissimo. Mentre proseguo la corsa immerso e inebriato dal profumo, mi chiedo quale sia il fiore che ha un dono così meraviglioso.

Arrivati a Novil, chiedo ad Emiliano se ha voglia di aiutarmi nella mia missione.
“Certo!”, la sua risposta senza esitazioni.
Voglio ritrovare la famiglia che ci aiutò nel 2006, quando bucammo a metà della strada che passa sotto al Chott. Mi guardo intorno, riconosco qualche abitazione, la curva con il gommista cugino dei nostri salvatori, richiamato in officina nonostante fosse tardi e soprattutto giorno festivo. Purtroppo però non riesco a trovare il bivio giusto verso la loro casa.
Decido di chiedere in un bar. Interrompo le chiacchiere di un gruppo di giovani e gli mostro le foto che ho stampato a casa nei giorni scorsi proprio pensando a questo momento.
Nessuno riconosce nemmeno una faccia, tranne un ragazzo che punta il dito su una delle ragazze ed esclama:
“Sì, la conosco, ma si sono trasferiti, ora vivono a Zaafrane.”
Mi suggeriscono di provare in un altro bar, poco più avanti, dove ci sono persone più anziane, che forse riconoscono le persone più adulte delle foto.
Stessa scena: nessuno riconosce le persone in foto, tranne uno che dice che la famiglia si è trasferita a Zaafrane.
Riprovo ancora una volta a tornare indietro, percorro alcuni bivi nelle varie direzioni sperando che si risvegli in me la memoria visiva, ma proprio non riesco. Dopo una ventina di minuti di tentativi, rinuncio:
“Vabbè Emi, pazienza ... proviamo a Zaafrane come dicevano i tipi, ma il posto è questo, ne sono sicuro.”
Proseguiamo per qualche km fino a Zaafrane. Questo, al contrario di Novil, è completamente deserto e minuscolo. Lo giro in pochi secondi, non riconosco nulla e non c’è nessuno a cui chiedere.
“Ormai è tardi, lasciamo perdere, andiamo a Douz a riposarci”, dico ad Emiliano, con grande tristezza nel cuore. Che peccato, li avrei salutati molto volentieri e avrei potuto tener fede alla promessa di 5 anni prima, di fargli avere le fotografie scattate in quella splendida e insolita serata.

Emiliano prova a seguire una traccia in fuoristrada che dovrebbe portare direttamente a Douz evitando il giro più lungo su asfalto, ma dopo esserci persi e quasi insabbiati tra le casupole malmesse di Douz, riprendiamo l’asfalto.
Qualche chilometro e finalmente arriviamo a Douz. Andiamo a colpo sicuro all’albergo “20 Mars”. Nel cortile interno ci sono le moto di due francesi, che fanno un gran casino, parlando a voce alta mentre lavorano alle moto. Sembrano esperti, gli chiediamo come sia la pista verso Tembaine. Prima rispondono che con le nostre moto è impossibile, poi dopo qualche minuto cambiano completamente versione e ci dicono che si può fare anche con le nostre moto. Chissà qual è la verità, domani lo scopriremo.
Cena veloce, poi di nuovo in albergo coi due francesi. Si fa tardi chiacchierando con loro davanti a cartine e GPS, cado dal sonno.
Andiamo in stanza che sono le 23:30, ma, nonostante il sonno di pochi minuti fa, non riesco ad addormentarmi. Nel dormiveglia, penso alle tracce nella sabbia attraversate questa mattina e mi sento cadere. Mi sveglio di soprassalto con un tuffo al cuore, poi, piano piano, mi lascio scivolare nell’oblio.

Pagina precedente
Indice

Pagina successiva
Pagina 2

Torna all'inizio della pagina

Torna all’inizio
della pagina

Torna all'inizio della pagina